Fulvio

Il brano che segue è un capitolo del libro di recentissima uscita di Fabio Balocco, Bianco, benestante, ambientalista: natura e società a cavallo di due secoli, LAR Editore, 2025. L’opera è stata dedicata dall’autore ai suoi genitori e a tutti coloro che lo hanno accompagnato o che lui ha incrociato nella vita. Perché “buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri” hanno contribuito a renderlo quello che oggi è.
Gli fa seguito la prefazione al libro, di Maurizio Pagliassotti.

Fulvio
di Fabio Balocco

“Viviamo a scrocco. L’ideale sarebbe attraversare l’esistenza come un troll scandinavo che corra nel sottobosco senza lasciare tracce sulle felci (Sylvain Tesson)”.

Conosco Fulvio Scotto da tempo immemorabile e non ricordo ormai più in quale circostanza ci incontrammo. So invece bene che fin dai nostri primi passi sulla roccia (concedetemi la suggestione), Fulvio mi sembrò un predestinato. E infatti divenne uno dei più forti alpinisti italiani.

Le prime mani sulla roccia le posammo sul serpentino tagliente del gruppo dell’Argentea, dietro Cogoleto. Sulle Punte Tuschetti e Querzola. Era lo stesso serpentino che avrei ritrovato tanti anni dopo nel Torinese. Io indossavo regolarmente un paio di pantaloni alla zuava di velluto a coste color beige e scarponi di cuoio, e per tutti e due la sicurezza era costituita da un imbrago artigianale fatto con fettuccia da arrampicata, che conservo ancora. Poi passammo al Finalese. Ricordo bene quella volta che volevamo fare la Via del Diedro Canale al Monte Cucco e mentre ci dirigevamo alla base, incontrammo un ragazzo che ci chiese dove andavamo e noi a rispondergli che eravamo diretti al Diedro. E lui: “Ma quella non è una via, è un sentiero”. Mortificati, attaccammo lo stesso. A un certo punto, mentre facevo scorrere lentamente la corda a Fulvio, questi si fermò e mi gridò: “Qui il sentiero fa una curva!”. Dopo scoprimmo che quel ragazzo che avevamo incontrato era Nico Ivaldo, un fortissimo arrampicatore del Finalese, che spesso operava in solitaria (1).

Fulvio Scotto

Erano gli anni Settanta, e nel Finalese ti dovevi proteggere quasi dappertutto: non c’erano spit (2).

Da amante della Natura, io odiavo gli spit, che costituivano un atto di violenza sulla roccia. Un bellissimo manifesto del CAI di quegli anni che io avevo appeso in camera mostrava un vecchio bivacco di montagna circondato dalla neve e, sotto, la scritta: “Non lasciare traccia del tuo passaggio”. Ma quale traccia peggiore e persistente del forare la roccia e lasciarci uno spit luccicante al sole?

Ho scritto tanti articoli, tante filippiche, persino una poesiola sugli spit, tanto da essere conosciuto come uno dei loro più accaniti detrattori. In essi ho visto esplicitarsi in maniera concreta, evidente, quell’hybris di cui ci parlava Locatelli, il nostro amato insegnante di latino e greco al liceo Gabriello Chiabrera di Savona. L’uomo ha dei limiti e non deve oltrepassarli. Con lo spit è evidente che tali limiti vengono superati e l’uomo si può permettere di salire dove altrimenti non gli sarebbe concesso. Ma a pensarla così io ero davvero uno dei pochi. Una volta, del resto, alla sezione del CAI di Savona presi da parte Carlo Aureli, un forte alpinista che aveva aperto numerose vie nel Savonese e che io stimavo molto. E gli chiesi: “Ma se tu ti trovassi di fronte una placca che per salirla devi assolutamente piantare uno spit, tu lo faresti?”. Ed egli mi rispose di sì, che l’avrebbe fatto. Diversa l’opinione di Reinhold Messner che nel 1968 scrisse un articolo per il CAI, L’assassinio dell’impossibile, in cui sosteneva che di fronte a una difficoltà non affrontabile occorreva ritirarsi, cioè riconoscere i propri limiti.

Dicevo che sugli spit ho scritto molto, anche su La Rivista della Montagna. Furono questi miei scritti ad attirare l’attenzione del puro per eccellenza, Ivan Guerini, che un giorno mi telefonò per conoscermi. Io ero letteralmente onorato di ricevere una telefonata da uno dei più forti arrampicatori nostrani. Da allora intrecciammo una profonda amicizia, e qualche volta arrampicammo pure insieme.

Oggi nel Finalese ci sono migliaia di vie, tutte rigorosamente spittate, molte addirittura calandosi dall’alto. È stato persino spittato lo Spigolo di Perti, una facilissima via di secondo e terzo grado facilmente proteggibile. Talmente facile che quando la feci la prima volta con Pino Camogli, lui mi disse che era capace di farla anche a testa in giù, e quasi quasi ci credetti! Anche in montagna ormai le vie sono quasi tutte spittate. Io ho partecipato alla redazione delle Tavole di Courmayeur, sull’etica alpinistica, in cui, tra l’altro, si concluse che lo spit doveva essere l’ultima risorsa. Il CAI adottò le Tavole. Poi, con estrema coerenza, iniziò a pubblicare come se nulla fosse sulla Rivista le relazioni delle vie aperte a spit.

Lo spit da un lato ha aperto la via alla banalizzazione della montagna, alla riduzione dello spazio di immaginazione, scoperta, avventura. Dall’altro ha favorito quel fenomeno dell’arrampicata in falesia che nulla ha a che vedere con l’alpinismo. Pareti di fondovalle che brulicano di persone che fatta la via si tolgono le scarpette perché troppo strette e girano in ciabatte, che gridano, che non conoscono neppure la storia di quella roccia su cui posano mani e piedi.

Con Fulvio non arrampico più da anni, lui è troppo forte. E non sono neanche più socio del CAI. Ma con Fulvio siamo sempre amici e mi ha fatto una bella dedica sul suo libro Scarason. E coltivo il sogno che lui faccia una salita con Jacopo: di padre in figlio.

L’alpinista Nives Meroi ha affermato: “È bello non lasciare traccia. Se penso che i passi dei primi astronauti sulla luna hanno lasciato orme che stanno ancora lì per mancanza di vento e di pioggia, benedico i miei che si ricoprono. La traccia indelebile dello scarpone di Armstrong è un chiodo fisso per me, vorrei andare lassù con una scopa a cancellarla” (3).

È bello non lasciare traccia ma è ancora più bello pensare che vi sono luoghi dove l’uomo non ha mai messo piede, né probabilmente mai lo porrà, che ci estingueremo e saranno sempre lì, intonsi; che vi sono pareti che l’uomo non ha mai arrampicato, né mai probabilmente arrampicherà. Tanti, tantissimi luoghi, magari ai margini di zone anche densamente abitate. E questo pensiero è di grosso conforto e consolazione.

Ancora adesso, in certe gite di media montagna, in giornate ventose, vengo scaraventato indietro nel tempo, e mi ritrovo nelle gite di quasi cinquant’anni fa sull’Argentea. E la malinconia mi stringe il cuore.

I libri e i documentari che più mi intrigano riguardano la Terra dopo/senza di noi.

La mia battaglia contro gli spit è stata una battaglia di retroguardia: oggi siamo pieni di vie ferrate, di ponti tibetani, di alpine coaster, di zipline (4). La montagna è oramai invasa dalla ferraglia.

Note
(1) Nico Ivaldo è scomparso in circostanze misteriose nell’autunno 2024 nella zona del Monviso.
(2) Lo spit è un chiodo a pressione che viene piantato nella roccia quando la parete non consente di procedere nell’arrampicata con mezzi tradizionali.
(3) L’affermazione è tratta da Erri De Luca, Sulla traccia di Nives, Feltrinelli 2016.
(4) Le vie ferrate sono percorsi di montagna attrezzati per facilitare la salita. Le prime vie ferrate furono realizzate per scopi militari. I ponti tibetani sono ponti sospesi che collegano due versanti. Le alpine coaster sono slitte che scendono su rotaie in acciaio. Le zipline sono cavi d’acciaio sospesi tra due punti con quote differenti ai quali ci si aggancia per una veloce discesa che offre la sensazione del volo libero.

Fabio Balocco

Prefazione
di Maurizio Pagliassotti

Il titolo di quest’opera racconta tanto il nostro mondo, ben al di là dell’ambientalismo: ci mette di fronte a uno specchio dove vediamo un’immagine rotta, soprattutto in questi tempi di bontà che genera fatturato. La vita di un ambientalista rigoroso segue una traiettoria prevedibile, in salita. Forse come tutte, ma la vita dell’ambientalista rigoroso è una retta scolpita nella roccia. Si nasce con pensieri e sensibilità diverse e per tutta la vita ci si sente inesorabilmente diversi. Sarebbe bello se l’ambientalismo passasse: come una brutta febbre, come una brutta cotta delusa che, poco a poco, va via. E si potesse cambiare, abbandonare quella oscura malinconia, quella sorda rabbia, quella voglia di distruggere e poter così essere liberi di trovare la felicità al sabato pomeriggio mentre si cerca parcheggio in un centro commerciale dove un tempo c’erano inutili prati. Quelli che quando vengono descritti dai cementieri prendono sempre la forma del “prima qui non c’era nulla”. Ad alcuni questa grande fortuna capita. Ad altri, io credo alla maggior parte, no.

Quella piccola sofferenza che troviamo in ogni punto della modernità, che vediamo ovunque posiamo gli occhi, rimane. Nella forma peggiore, quella di cui soffre Fabio credo – quello strano modo di essere diversi acuisce con l’andar del tempo. Ci si aggrappa ai “No”, che diventano il cuore di un modus vivendi fondato sulla speranza che da soli si possa fermare tutto. Si contesta tutto in fondo speranzosi che, prima o poi, un meteorite ponga termine a questo sciagurato esperimento chiamato uomo. Ho incontrato l’allora per me avvocato Balocco anni fa, nel 2001, nella war room – almeno così l’avevamo ribattezzata io e un mio amico del tempo – di Pro Natura, l’associazione ambientalista più antica d’Italia. Ero il più giovane, lui già una colonna storica. Era la sala dove si raccoglieva il consiglio direttivo dell’associazione: e lui era lì, insieme a molti altri. Dell’avvocato si diceva che fosse spigoloso: in una parola, “ligure”.

Così, mentre scorrevo le pagine di questo libro ho trovato piena conferma di quella percezione antica. Forse gli ambientalisti non possono che essere così, se vogliono essere coerenti. Quelle che seguono non sono pagine piacione, non sono pagine scritte per creare empatia con il lettore: sono pagine dure, a volte spietate, oscure come l’animo umano su cui Fabio si sofferma, ritorna, rimugina, si interroga. È veramente questo panorama di nequizia il mondo? Sì, lo è. Un blocco di marmo nero, striato di qualche venatura bianca: questo è il libro. Laddove le striature altro non sono che le spiritosaggini amare, sottili ironie che punteggiano la scrittura, rendendola se possibile, ancora più tagliente.

Non so dire se Fabio sia veramente così: se la sua vita rappresenti esattamente questo mondo che racconta, questa lucidità così acuta, disincantata e per molti aspetti dura. Non auguro a nessuno tale condizione. Sicuramente rappresenta il mio, sebbene lui sia diversissimo da me, sotto il profilo ideologico politico. A chi può interessare la sua vita, mi domandavo mentre leggevo le sue pagine. La vita di Fabio Balocco, ligure trapiantato a Torino, alpinista, amante dei cani e dei gatti, dei fiori, degli scorpioncini, speranzoso che alla fine l’essere umano si tolga dai piedi e finalmente si estingua.

Non è compito di una prefazione anticipare cosa si leggerà nelle pagine del libro: ma questo passaggio, quello sull’estinzione umana, mi ha colpito. Perché mentre leggevo, sempre più incuriosito, le pagine che seguono, sentivo una profonda immedesimazione nel ragionamento di Fabio, che, peraltro, mi ha riportato ad una pietra angolare del ‘900: Herzog, di Saul Bellow. Come scrittura, come rabbia antisistema, come distruttiva piena presa di coscienza della propria sconfitta di fronte a un mondo senza senso e demenziale. Herzog e il libro di Fabio sono – su piani diversi ovviamente – i manifesti orgogliosi della sconfitta non già dell’essere umano, ma dell’essere senziente. La sensibilità ambientale, in senso batesiano, è chiaramente un difetto di programmazione, un carattere genetico perdente: come nascere senza denti. Per questa ragione, credo, Fabio si dilunga per pagine sulla demografia, sui figli, tranciando una frase lapidaria: “Io ho voluto un solo figlio per contribuire nel mio piccolo all’estinzione dell’umanità.”

Incorrendo così nella teoria di un “capolavoro” del cinema, stranamente non citato dall’autore: Idiocracy. Una pellicola statunitense semi demenziale, che racconta il seguito della teoria sul non fare figli: dato che si riproducono solo gli idioti, e si riproducono in massa, il mondo sarà popolato solo da questa razza interraziale. Quindi, caro Fabio, sebbene il tuo possa apparire un gesto rivoluzionario e di conflitto estremo, tale non è: anzi, è l’esatto contrario. I tuoi geni diventeranno cenere, come tu ambisci, o cibo per vermi, dando ancora più spazio a un’umanità di pecore matte. Ebbene, in un mondo non fondato sulla “idiocrazia” il libro di Fabio dovrebbe essere letto da tutti coloro che invece qualche rimasuglio di umanità ce l’hanno. Così, per compiacersi. Deve per forza esserci una forza superiore, una dote superiore, se a dieci anni piangi perché una distesa di chinotti nell’entroterra di Savona viene sradicata in nome del cemento. Deve per forza esserci qualcosa di alto e bello se godi delle gramigne che si rimangiano e devastano le zone industriali, costruite e subito abbandonate in nome della speculazione edilizia, del profitto, e in fondo anche del mitologico lavoro. Il libro di Fabio farà dolcemente soffrire tutti coloro che possono dire di aver combattuto fino alla sconfitta, ma dà il gusto di essere dalla parte giusta della storia.

More from Alessandro Gogna
Montanari in città, cittadini in montagna
La montagna è un dono, un ambiente da preservare e conservare, per...
Read More
Join the Conversation

1 Comments

  1. says: Guido

    Dall’insegnamento di una cultura nativa del continente americano (ora nord-ovest USA):
    “Non lasciare mai orme così profonde che il vento non le possa cancellare”.

Leave a comment
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *