(da Pino Prati a Ettore Castiglioni, fino a Rolly Marchi)
di Carlo Crovella
(pubblicato su Meridiani Montagne n.121, marzo 2023)
Le montagne non sono dei mucchi di sassi. I loro significati simbolici derivano da consuetudini o preferenze umane, ma quando si adattano alla morfologia compongono l’immagine che ogni vetta diffonde di sé. I monoliti sono in genere appesantiti da visioni funeree. La forma fallica li collega ad un alpinismo maschio: lotta, eroismo, conquista, tragedia.
È destino di tutte queste cime, dal Grand Capucin al Campanile di Val Montanaia. Scrostata la prima pennellata, emergono però i valori positivi: bellezza, arditezza, eleganza, nobiltà d’animo. Gli obelischi naturali suscitano ammirazione, le loro linee verticali e slanciate simboleggiano la spinta a staccarsi dalle umane bassezze.
Il Campanile Basso porta all’esasperazione queste caratteristiche. È necessaria una precisazione: nel suo nomignolo, “Il Basso”, la montagna vive un apparente ossimoro che però la esalta, anziché denigrarla. A dispetto della quota, il Basso è il “vero” campanile che domina la Catena degli Sfùlmini, mentre l’Alto è una delle tante crode e si confonde nella skyline del gruppo.
La silhouette del Basso ha attirato gli sguardi degli alpinisti che lo hanno decantato con sviscerata ammirazione. Pino Prati (trentino, poi caduto dalla Parete Preuss nel 1927), lo descrive così: “È un fantastico obelisco di roccia, oltremodo audace e senza dubbio il più elegante, il più classico e il più difficile delle Alpi” (Pino Prati, Dolomiti di Brenta, Società degli Alpinisti Tridentini, Arti Grafiche Tridentum, Trento, 1926).
Ancor più da innamorato è la descrizione di Ettore Castiglioni. Di famiglia milanese, dopo un tentativo professionale a Londra, Castiglioni (per tutti Nino) si dedica anima e corpo alla montagna. Negli anni Trenta compone un’inarrestabile cordata con Bruno Detassis (detto il “Custode del Brenta”, a lungo gestore del rifugio Brentei), macinando vie nuove una dietro l’altra, prologo della stesura di molte Guide dei Monti d’Italia. Il volume Dolomiti di Brenta (1949) esce postumo (nel 1944 Nino è vittima di una tempesta al Passo del Forno, mentre fugge dai gendarmi svizzeri), ma il suo stile è riconoscibile a occhi chiusi: “Superbo monolito di incomparabile arditezza che si eleva, slanciato e possente fra la Brenta Alta e il Campanile Alto nella Catena degli Sfùlmini. A nessun’altra formazione rocciosa delle Alpi l’appellativo di «Campanile» riesce così appropriato come a questo, che si erge isolato per 300 m, con pareti verticali, regolarmente squadrato con facce simmetriche” (Ettore Castiglioni, Dolomiti di Brenta, CAI-TCI, Milano 1949). La descrizione, ripresa anche nell’edizione del 1977 (curata da Gino Buscaini), sancisce il collegamento romantico fra arditezza delle forme e slancio verso l’alto, verso il supremo, verso l’assoluto. Il Basso è unico: per quanto tutte le montagne siano belle, non ce ne sono altre così rappresentative della sacralità. Una sacralità laica, ma non per questo meno profonda.
Il romanzo Le Mani Dure di Rolly Marchi (prima edizione 1974) ripropone il Basso come epicentro di valori esistenziali: la trama è cesellata intorno alla guglia. Le mani sono “dure” perché i protagonisti sono arrampicatori forti e tenaci, ma anche perché le mani diventano dure, cioè rigide e quindi inutilizzabili, nelle tempeste in parete. L’idea e la stesura del romanzo sono indiscutibilmente di Rolly Marchi, ma egli stesso, nella prefazione all’edizione dell’89, confida che, durante la gestazione, gli è capitato di confrontarsi con Dino Buzzati, suo compagno di crode nelle Dolomiti.
Il libro è ambientato nel secondo dopoguerra e narra le vicende di un gruppo di giovani trentini, che alternano vita quotidiana e passione per la roccia. Angelo, il narratore, conosce Milziade, poi suo socio di cordata, a Bologna, dove entrambi frequentano l’Università. Nel bar, dove i due brindano dopo un esame, è appesa la fotografia del Basso: così i due scoprono la comune passione, che a Trento sarà la base per una più ampia compagnia di amici. Angelo dapprima segue da secondo, poi cresce e gli capita di condurre una ragazza in vetta al Campanile. È felicità smisurata: “Avevo fatto il Basso da primo e in tutto il mondo non c’era nulla che mi importasse di più”.
Raggiunta la laurea, Angelo opta per un lavoro a Milano, Milziade resta in loco. La vita in pianura suscita diffidenza ma anche curiosità per i mille risvolti misteriosi: la lingerie delle ragazze milanesi sintetizza la malia della metropoli tentacolare, cui si contrappone il mondo delle crode, dalla purezza inattaccabile.
I due amici ricompongono la cordata e intendono concretizzare il lontano sogno di una “loro” via nuova. Attaccano una linea che non è esplicitamente menzionata, ma che pare corrispondere al Gran Diedro Nord-est della Brenta Alta, in realtà salito da Andrea Oggioni e Josve Ajazzi nel 1953: è comunque a due passi dal Basso. L’ennesima bufera in parete consente il ritorno a casa del solo Angelo, il quale vive un periodo di disorientamento depressivo e paragona la passione per le crode alla schiavitù delle droghe, che ti ghermiscono fino a stroncarti. Il disorientamento si sublima, però, in una piena catarsi e Angelo parte da solo per completare la salita: l’arrampicata diventa così risveglio, rilancio, addirittura rinascita.
Grazie, Carlo!
Molto bello, questo articolo!