di Emanuele Confortin, pubblicato su Alpinismi in data 01 dicembre 2017
Quando un alpinista viene soprannominato “Fortissimo”, il motivo deve per forza esserci. Giusto Gervasutti è stato veramente uno dei più forti scalatori della sua epoca, al pari di Riccardo Cassin e di Emilio Comici, con il quale condivideva le origini friulane. Il Fortissimo è stato anche un uomo colto, a suo agio nei salotti dell’alta borghesia torinese (sua città di adozione), e uomo modello (o forse uomo nuovo) di un regime, quello fascista, che vedeva nella lotta con l’alpe il confronto titanico capace di avvicinare l’uomo a Dio. Il solo fatto che durante il Ventennio, il CAI fosse stato “istituzionalizzato” e la sede trasferita da Torino a Roma, rendeva difficile per scalatori del calibro di Gervasutti svincolarsi dall’influenza del regime, sebbene questo non implichi l’immedesimazione nell’ideologia.21

Camanni descrive questo concetto in modo chiaro: “In nessun altro momento della storia Iialiana, nemmeno quando Quintino Sella scalò il Monviso e o fondò a Torino il Club Alpino Italiano, c’è stata una così sfacciata identificazione tra la politica e l’alpinismo. I dirigenti fascisti lo considerano un supersport e ne esaltano i campioni…” Gervasutti tuttavia è stato un elegante interprete dell’alpinismo del suo tempo. Tra tutte le nuove vie, la più celebre resterà quella aperta con Giuseppe Gagliardone sulla parete Est delle Grandes Jorasses, realizzata tra il 16 e il 17 agosto 1942 lasciandosi alle spalle una linea tecnica, difficile e ancora oggi temuta e rispettata.
“Il desiderio di infinito” accompagna il lettore alla scoperta di un uomo, di un grande alpinista e di un periodo, quello tra le due guerre, tra i più critici della storia italiana. Di seguito alcuni passaggi dalla scheda editoriale.
«Sopra il Gran Paradiso due nuvolette riflettono ancora l’ultimo sole. Sotto di me la città sta accendendo le prime luci… Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini che penano rinchiusi nel recinto sociale… Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò come loro, ma oggi sono un prigioniero che ha ritrovato la sua libertà.»
A oltre settant’anni dalla morte, la biografia di Giusto Gervasutti, ‘il Fortissimo’ dell’alpinismo classico italiano.
«Dietro il sogno si sale, senza sogni si cade»: questo il principio guida di Giusto Gervasutti. Seguendo questa stella polare, la vita di Giusto è un continuo viaggio verso ovest: dall’Austria all’Italia, dal Friuli al Piemonte, dalle Dolomiti al Monte Bianco.

Nato a Cervignano del Friuli nel 1909, scopre le Alpi occidentali durante il servizio militare e se ne innamora perdutamente. A ventidue anni si trasferisce a Torino, portando con sé la tecnica e la mentalità del sesto grado. In poco tempo diventa il campione indiscusso dell’alpinismo italiano, insieme a Emilio Comici e Riccardo Cassin. Lo chiamano ‘il Fortissimo’. Fa i conti con la dittatura fascista, il mito della montagna e la fabbrica degli eroi. Partecipa alle competizioni internazionali per la conquista delle pareti nord dell’Eiger e delle Grandes Jorasses, perdendole entrambe, ma si riscatta con imprese più estreme e visionarie. È l’alpinista più moderno della sua epoca, ma è anche un uomo colto ed elegante, incompatibile con la grezza retorica del regime. Il signore di Cervignano frequenta i salotti torinesi, i teatri e gli ippodromi, legge London, Conrad e Melville. È un cavaliere all’antica che anticipa il futuro. Muore sognando il Fitz Roy della Patagonia.