L’ultimo articolo

Sono passati esattamente quarantasette anni da quel tragico 26 settembre 1973 che vide la scomparsa all’Annapurna di Leo Cerruti e Miller Rava. Un articolo di Leo giaceva dimenticato nelle polverose e ingiallite pagine de Lo Scarpone. Lo riproponiamo, sicuri che farà commuovere più d’un lettore.

L’ultimo articolo
di Leo Cerruti
(pubblicato su Lo Scarpone, primavera 1973)

In queste righe vorrei ricordare coloro che, a mio avviso, hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni di attività alpinistica nell’ambito della Sezione di Milano. Sottolineo che si tratta di una esposizione del tutto soggettiva, decisamente influenzata dal mio modo di vedere e sentire la montagna. Non sarà questo quindi un elenco di brillanti salite o di eroiche imprese ma piuttosto un abbraccio a tutti coloro che della montagna cercarono di scrutare i lati più riposti e che dei frutti della loro ricerca fecero partecipi tanti altri.

A mio avviso non ha senso oggi continuare a parlare e parlare di sesto grado, artificiale, chiodi a pressione e altro. Non ha senso che un alpinista venga valutato solamente in funzione delle salite che ha compiuto. I valori che devono essere posti oggi in evidenza sono altri, o meglio sono gli stessi che spinsero da sempre i veri uomini ad andare in montagna. Quei valori che oggi vengono persi per la strada dell’esasperato tecnicismo.

Io sarei felice se riuscissi a far capire a tanti ragazzi che incontro ai corsi della Scuola Parravicini che la montagna non è fatta solamente di pareti strapiombanti o di tetti da forzare. Sarei felice se riuscissi a convincerli che il saper superare una difficoltà è solo un mezzo per arrivare a qualcosa di più grande. A volte mi pare di riuscire in questo, a volte invece mi rendo conto che non sono stato capito.

Leo Cerruti, in una delle ricognizioni al rifugio Borelli per il tentativo invernale alla cresta integrale di Peutérey. Dicembre 1970.

Sono tanti i volti che mi si affollano attorno mentre ripenso agli ultimi dieci anni. Può darsi che molti non abbiano burocraticamente fatto parte della Sezione CAI di Milano, sono comunque personaggi che hanno gravitato nella sua sfera e che quindi possono essere qui menzionati.

Romano Merendi: il suo sorriso, la sua cordialità, la sua forza. Fulcro di una cerchia di amici che non aveva confini. Direttore indimenticabile della Parravicini fu un inesauribile promotore di attività alpinistiche. Nel suo rifugio (rifugio SEM al Pian dei Resinelli, NdR) si era a casa propria, la sera passava in un baleno e la montagna assumeva, nei suoi racconti, aspetti sempre nuovi ed entusiasmanti. Romano parlava di salite sulle Alpi e di avventure nelle spedizioni, noi si pendeva dalle sue labbra e si assorbiva il profondo amore per la montagna che era parte integrante del suo essere.

Roberto Pluda e Alberto Calonaci, due ragazzi che lasciarono la vita alla Tour Ronde. Li ho conosciuti appena, eppure ancora oggi ricordo lo sgomento di tutti nell’apprendere la disgrazia. E’ stato il mio primo brutale contatto con il dolore che la montagna può dare.

Altre vite la montagna volle, da quella di Piergiorgio Bianchi, Eugenio Genni Lazzarini e Giuseppe de Capitani (istruttori Parravicini periti nel 1961 in un tentativo di prima ripetizione della via Boccalatte alla parete nord del Mont Gruetta, NdR) che io non ebbi la fortuna di incontrare a quella di Paolo Armando e Andrea Cenerini che ci ha stordito e scosso profondamente. La parete nord del Mont Gruetta sulla quale questi cinque alpinisti hanno lasciato la vita ha il potere di farmi pensare alla montagna come a qualcosa di oscuro e misterioso, come a un essere potente e terribile con il quale non si può scherzare.

Anch’io ho rischiato grosso su quella parete. Alessandro Gogna ed io volevamo aprire la stessa via che sarebbe stata fatale l’anno dopo a Paolo e Andrea. Un giorno quindi salimmo alla base, superammo la crepaccia terminale e attaccammo decisi le vere e proprie difficoltà. La salita era delicata ma non estrema e si procedeva velocemente. Di colpo, non so come, mi trovai a volare, come se una mano gigantesca mi avesse strappato dalla parete. Alessandro fortunatamente era ben assicurato e il mio volo si concluse senza danni circa 20 metri più in basso. Quel giorno scendemmo senza alcun rimpianto a valle, il motivo principe della nostra ritirata era che nella caduta il mio sacco era finito nella crepaccia terminale, ma sia io che Alessandro avevamo capito che su quella parete non saremmo mai più ritornati.

Paolo era stato, nella Sezione di Milano, come una porta spalancata di colpo, una ventata di aria fresca che irruenta semina scompiglio ma che anche chiarisce le idee. Con me molti altri devono a lui una maniera più aperta di vedere la montagna. Paolo mi ha fatto capire che la montagna è ovunque: una parete insignificante, uno spigolo senza interesse, al limite un sasso diventano un problema quando il modo di affrontarli li fa diventare tale. Ho capito allora che anche nella vita quotidiana si può applicare questo modo di intendere la propria volontà. La montagna quindi non come palestra di esibizionismi o di egoismi ma come scuola di vita.

Questo Paolo mi ha fatto capire, tra una battuta maligna e uno scherzo sottile, con quel pudore istintivo che gli impediva di aprire interamente il suo essere. È morto. Con Andrea che fu senza dubbio il suo amico più caro. Andrea, che giudico la persona pia candida, generosa, buona che io abbia mai conosciuto.

Tra coloro che indubbiamente meritano di essere ricordati in queste pagine sono: Angelo Villa, infaticabile collaboratore alla scuola, alle gite. Ovunque sia richiesto lui e il suo toscano appaiono puntuali e sicuri. E il “vecchio” Tino Albani, la sua pelata brilla superba su tutta la Brianza. Gli allievi della Parravicini non ne potrebbero fare a meno. E Guido Della Torre che per tanti anni diresse la scuola di roccia e che ora colleziona prestigiose ascensioni una dopo la altra. Ernesto Fabbri, forse il più affezionato istruttore della Parravicini. E poi Sergio Bellini, Silvio SandriGianluigi Jan Sterna. Sono tanti e tanti i nomi. Questo non vuole essere un elenco, dimenticherei troppi nomi che hanno contribuito a rinverdire continuamente le glorie della Sezione.

Leo Cerruti nella discesa dal bivacco Balzola della Grivola, dopo la prima ascensione invernale della parete nord-est (via Crétier), 25 gennaio 1970.

Da Alberto Di Benedetto, mio indimenticabile compagno in tante salite, a Ettore Pagani (è lui, proprio l’Ettore Pagani cui è dedicata l’Associazione Alt(r)i Spazi, NdR), che di Paolo Armando raccolse il modo di pensare la montagna e le capacità alpinistiche.

E da ultimi i giovani. Sono tanti, e bravi. Ricordo con particolare piacere Luciano Manzoni che fu mio allievo al corso primaverile della Parravicini. Ora ha senza dubbio superato il maestro ed è diventato l’alfiere delle nuove leve. Ed infine vorrei spendere qualche parola per ricordare Alessandro Gogna che pur non essendo iscritto nella nostra Sezione, a Milano ormai vive da tempo. Con lui ho vissuto tante avventure e ho salito tante montagne. Tra di noi basta un gesto, un’immagine, un suono per riportarci davanti istanti indimenticabili vissuti nei luoghi ove veramente si riesce a essere felici.

Chiudo queste righe sperando di essere riuscito a dare almeno una fugace impressione di quello che è stata la gente che ha animato la vita di Sezione. Non faccio bilanci, perché fortunatamente qui non sono necessari. Voglio solo augurare a quanti in futuro faranno parte della nostra Sezione di portare avanti e migliorare lo spirito che unisce o per lo meno che dovrebbe unire i soci. Uno spirito fatto di lealtà, bontà e giustizia. Uno spirito che ha la sua sede ideale nella montagna che tanto amiamo.

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