Intervista al capo del Soccorso alpino

Maurizio Dellantonio (Presidente CNSAS): «Con il caldo record e la spinta dei social, sentieri invasi dai turisti. Errori e improvvisazione, oggi la gente pensa che sia umiliante chiedere informazioni. Così abbiamo recuperato un cuoco a 3100 metri che di notte scalava una montagna con le scarpe da ginnastica».

Intervista al capo del Soccorso alpino
(«mai vista un’estate così»)
di Giovanni Viafora
(pubblicato su corriere.it il 27 luglio 2025)

Maurizio Dellantonio, Lei è il capo del Soccorso alpino nazionale. Cosa sta succedendo?
«Io, un’estate così, con tanti morti in montagna, non me la ricordo. Siamo oltre ogni limite… Ottantatré decessi e cinque dispersi solo nel primo mese di vacanza (dal 21 giugno al 23 luglio, NdR). Quasi tre incidenti fatali al giorno, siamo a circa un 20 per cento in più di interventi rispetto alla media».

Come se lo spiega?
«Gente ovunque, sentieri strapieni. È iniziato tutto a metà giugno, con la fine della scuola: mentre a valle non si respirava, qui su faceva bel tempo. L’anno scorso non era così».

Un intervento del Soccorso alpino e a destra il presidente nazionale Maurizio Dellantonio

Siamo quasi alla profezia di Righetto, de I prati dopo di noi: l’umanità che si trasferisce sui monti per fuggire dalle città invivibili…
«Il clima è cambiato. Basti pensare a quello che è successo tre anni fa sulla Marmolada. Però quello che ci preoccupa, oggi, è il tasso di mortalità».

Chi sono le vittime?
«Nel 60 per cento escursionisti. Scivolano, si fanno male. Contano tanto anche i malori: c’è chi non sta bene, eppure si avventura lo stesso. Il restante 40 per cento sono alpinisti, biker, paracadutisti. Molti non conoscono i propri limiti. Vediamo certe cose…».

Racconti.
«La settimana scorsa, in Val Senales, siamo andati a recuperare un cuoco trentenne che si era messo in testa di raggiungere la cima della Palla Bianca, a 3600 metri, partendo di sera, dopo il turno di lavoro. Arrivato a 3100, in piena notte, ci ha chiamati perché stava congelando. Indossava solo scarpe da ginnastica».

Almeno, in questi casi, viene messo in conto l’intervento?
«Esistono tre livelli di ticket, a seconda della Regione. In Trentino si pagano 750 euro a persona, in Veneto si arriva anche a mille, se vieni recuperato illeso. Ma il punto è un altro: metà di quelli che salviamo si rifiuta di pagare. Anche quando, di fatto, gli hai salvato la vita».

Qualcuno, di persona, l’ha rimproverato?
«L’anno scorso, sopra Passo San Pellegrino, un tale ha imboccato una ferrata con la figlia in braccio. Non era legato, sotto c’erano cinquanta metri di vuoto. L’indomani mi sono fatto dare il numero e l’ho chiamato. “Caro mio”, gli ho detto, “non funziona così. Ti è andata bene, sei vivo per miracolo”».

L’altro giorno è stato trovato senza vita in Valle d’Aosta un ragazzino di 15 anni, che si era perso.
«Quei genitori passeranno dei guai. In montagna non si va mai da soli. Bisogna essere severi. Sui giovani conta molto anche l’influenza dei social».

In che modo?
«Uno fa una foto e scrive: “Sono arrivato in cima”. Il giorno dopo c’è subito chi ci prova, anche senza prepararsi. Un tempo mi chiamavano: “È sicuro quel sentiero?”. Ora sembra umiliante farsi trovare impreparati. Si va al buio. E poi, se posso dire, i ragazzi di oggi sono anche meno forti di un tempo…».

Nello zaino cosa ci va?
«Acqua, cibo, occhiali e un ricambio. Solo un escursionista su due si porta la mantella o lo spolverino. Naturalmente poi bisogna assicurarsi di avere un cellulare carico, con installata l’app “GeoResQ”. Funziona benissimo».

C’è un problema di sentieri?
«No, ma con questi forti temporali, capita spesso che il giorno dopo i percorsi risultino disordinati. Per questo è fondamentale monitorare in tempo reale le condizioni meteo, prima di mettersi in cammino».

Da capo del Soccorso alpino lei va ancora in missione, è vero?
«Sì, mi metto a disposizione del caposquadra. In Val di Fassa viaggiamo al ritmo di 6-8 interventi al giorno».

Con tutte queste chiamate non c’è un rischio che si saturi il sistema?
«Per ora no, anche perché con noi operano la Guardia di Finanza e il 118. Ma spesso ci si dimentica del rischio che corrono i volontari. L’altro giorno, sulle Tofane, tre alpinisti erano bloccati. Uno era volato giù. Siamo intervenuti di notte, senza elicottero. Ci siamo calati dalla cima, su una via difficilissima. Un intervento al limite».

L’estate è ancora lunga. Cosa si sente di dire?
«La montagna è un luogo meraviglioso, adatto a tutti — anche ai neonati — purché si sappia dove andare. Ma tutte queste morti non le rendono onore».

More from Alessandro Gogna
Tutti gli scrigni dell’isola di Montecristo
Reportage dall’isola più selvaggia e protetta dell’arcipelago toscano: duemila visitatori l’anno, nessun...
Read More
Join the Conversation

6 Comments

  1. says: bruno telleschi

    I ragazzi di oggi non hanno abbastanza attrezzatura? I ragazzi di ieri non avevano nulla sulle ferrate e non succedeva nulla. Ma arrampicavano soli e sereni da albero all’altro!

  2. says: Carlo Crovella

    Ottantatrè morti in un mese (cioè 30 giorni) significa una media statistica di 2,5-3 morti al giorno. Sembra un bollettino di guerra, mentre in realtà andare in montagna dovrebbe essere “divertimento e vacanza”.

    A questo punto, se il trend procede a questi ritmi, a fine agosto avremo 160-170 morti e contando l’intero arco temporale da inizio giugno a fine settembre, è probabile che si supereranno le 200 vittime.

    E’ stra-evidente che questo modello NON funziona. Infatti non possono esserci 200 morti per ogni estate SOLO per fatalità o per errori compiuti da alpinisti/escursionisti maturi e consapevoli. Questi numeri confermano che ci sono troppi “improvvisati” (alias cafoni-cannibali) in montagna.

    Anzi, se non troviamo il modo di intervenire per correggere il modello, il numero degli “improvvisati” crescerà a dismisura e crescerà di conseguenza anche il numero delle vittime. Ma… “ha senso tutto ciò?”

  3. says: Delfo

    Caro Crovella, la leggo spesso e spesso sono d’accordo con lei: questa volta no. E sono ancor meno d’accordo con il capo del soccorso, almeno per il taglio che ha dato alla questione.
    Parto dai suoi “improvvisati”, cafoni-cannibali. Credo sia una logica un po’ manichea, più blanda ma simile a quella del Capo.
    Io vengo da un paese di mare, non mi hanno portato in montagna a 6 anni e a 20 ero senz’altro un improvvisato. Avevo intuìto (caro, dolce, sagace intùito) che le montagne potevano essere uno spazio di libertà e di bellezza. Ero stupido, e probabilmente pure un po’ cafone, ma volenteroso, volevo dare un’occhiata all’altrove e rinunciare a qualcuna delle certezze che la vita cittadina imponeva (ora che ci penso: forse l’ho letto da qualche parte quest’approccio).
    Come me penso che tanti arrivino ai monti dalla città o dalla pianura e non abbiano il curriculum di caccia e legna di un Mauro Corona a 12 anni. Peggio: noi non abbiamo motivo di star lì tra i monti perché l’esser lì è ozio, vaga sfida con noi stessi (noi stessi nel nostro essere falliti scriveva qualcuno), turismo veloce, capace, esplorativo, cultural-pionieristico… ma probabilmente alla fin fine sempre turismo.
    Ecco: vorrei dire che ben pochi oggi sono così valligiani, così forti, così creatori dei propri stessi miti da poter davvero credere di non esser passati da quello stadio in cui… era meglio sentirsi stupidi.
    Ora, passare o meno quello stato e andare avanti è più questione di fortuna che di capacità. Certo se tuo papà è Guida e ti portava alla capanna regina margherita a 13 anni probabilmente non ti metterai su un canale di neve con le crocs. Ma non è tutto autoevidente: è tutto (o per lo meno molto) cultura. Uno la cultura può averla o non averla a seconda della sua provenienza e della sua esperienza, ma non necessariamente essere un prodotto malato della società, un cretino, uno che “non conosce i suoi limiti”.
    Mi vien da dire: grazie Capo! Allora se uno che pratica da un anno sbaglia e more è un pisquano, invece Oggioni era un eroe. O Ueli. O Lama. O persino uno che ci rimane durante un soccorso: perchè beh, i tuoi limiti nel soccorso li dovrai pur conoscere…
    No, questa logica non mi piace e non mi convince.
    La verità, meno nobile ma più sincera, penso sia questa: ci piace giocare a un gioco inutile e pericoloso perché qualcosa dentro di noi, dentro il nostro spirito, danza quando ci giochiamo. Forse c’è una volontà di bellezza: chi più in alto va, più a lungo sogna, no? Forse volontà di potenza: impariamo a camminare ma mica ci accontentiamo, rischiamo per salire sul III, poi il VI, magari il IX.
    E credo diamo una mano agli altri non perché siamo bravi o perchè gli altri se la meritino, ma solo perché è giusto.
    Penso che il soccorso, come i medici più capaci, non dovrebbe stare a questionare se uno se l’è cercata, non se l’è cercata, aveva problemi di testa o d’amore, era sovrappensiero o era un cretino, provava a fare l’F+ o l’ABO-, ma semplicemente scendere a patti (e aiutare a scendere a patti) col fatto che la vita è fatta così, di tentativi, di errori inspiegabili e recuperi prodigiosi, di felicità e dolori.
    Successi e sconfitte: gli uni e le altre impostori che pur ingombrando il nostro cammino non cambiano il fatto siamo solo esseri umani (Rudyard docet).
    Credo si potrebbe aiutare uno in montagna con spirito fraterno, da pari a pari, senza quel portato giudicante e militaresco che stona sempre con la domanda più terra terra della terra “ma cosa diavolo ci fate lì a 3000 metri, voi e gli altri?”
    Alla fine, tutto sommato, anche in montagna non c’è grande merito nella virtù e grande colpa nell’errore.
    Lo diceva Faber, mi ha sempre convinto molto.

Leave a comment
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *