(abbiamo paura del ritorno alla normalità)
di Lucrezia Ercoli
(pubblicato su ilriformista.it il 22 aprile 2020
«Ho assestato la tana e pare riuscita bene». Così inizia il racconto, pubblicato postumo, che Franz Kafka scrive nell’inverno tra il 1923 e il 1924 a Berlino, sei mesi prima di morire. Il protagonista de La Tana – una sorta di strano incrocio tra un roditore e un architetto – si costruisce una splendida dimora sotterranea in cui vivere in totale sicurezza, lontano dal mondo esterno. L’animale si dedica alla sua tana con pazienza certosina, scavando e puntellando cunicoli labirintici, rotatorie, gallerie, piazze, uscite di sicurezza, ampi spazi per le provviste. Si allontana solo per rifornirsi di cibo, «quanto basta ad una modesta sussistenza e senza lasciare soprattutto la mia tana».
Anche noi, in questo periodo kafkiano, abbiamo costruito minuziosamente e custodiamo gelosamente la nostra tana: quanto più possibile accogliente, ma soprattutto protetta, sicura, lontana dai pericoli del mondo. Ma, al contrario della talpa del racconto, siamo a casa per un fine nobile e altruistico. Abbiamo rinunciato ai nostri diritti individuali e sacrificato i nostri desideri per alleggerire il sistema sanitario e per avere cura delle persone più fragili.
#iorestoacasa per salvare vite umane: #andràtuttobene, ci siamo detti, e in poco tempo torneremo a respirare la libertà. All’inizio, come animali chiusi in gabbia, abbiamo resistito solo aggrappandoci alla speranza di tornare in poco tempo al mondo di prima, senza i divieti di movimento, senza il distanziamento sociale, senza le restrizioni del lockdown. Nell’attesa paziente della riapertura, giorno dopo giorno, abbiamo dato vita a un’altra routine. Piccole soddisfazioni domestiche e nuove ritualità solitarie per dare un senso a questo tempo sospeso, aspettando il giorno della Liberazione. Da fuori, ci rassicuravamo: state tranquilli, la permanenza nello spazio chiuso della tana è una breve parentesi, “torneremo prestissimo ad abbracciarci” nello spazio aperto della vita sociale.
Adesso? Settimana dopo settimana, la nostra prospettiva è cambiata: lo stato di eccezione è divenuto in poco tempo la nostra nuova normalità. Ci muoviamo apatici e anestetizzati nel nostro fortino casalingo e il mondo esterno non ci sembra più così desiderabile. Là fuori tutto è cambiato, ci aspettano minacce sconosciute e ignoti pericoli. E l’irrefrenabile voglia di uscire dalla tana e di riprendere la vita in un mondo estraneo è stata facilmente addomesticata.
Paralizzati dalla paura di dover gestire una lunga convivenza con un nemico invisibile – il virus non se ne è andato e non se ne andrà per parecchio tempo, come ci avevano inizialmente promesso! – il nostro desiderio di libertà si è notevolmente affievolito.
«Assurda libertà» la chiama il protagonista del racconto di Kafka, rinchiuso nel dedalo di strade del suo nascondiglio. Anche la sua vita solitaria è sempre più diffidente: i suoi normali timori securitari si sono trasformati in vere e proprie ossessioni paranoiche. L’uomo-talpa passa il suo tempo a controllare l’ingresso della sua tana, a sorvegliarne il perimetro, ispezionarne i corridoi, fortificarne le vie di fuga: «non devo proprio lamentarmi di essere solo e di non avere nessuno di cui fidarmi. Così certamente non perdo alcun vantaggio e forse mi risparmio qualche danno. Fiducia posso avere soltanto in me e nella tana». Basta uno scricchiolio o un sibilo proveniente dall’esterno della tana per metterlo in allerta. Ogni rumore lo getta nel panico di «una vita sconsolata».
«È relativamente facile avere fiducia in qualcuno se nello stesso tempo lo si sorveglia o almeno lo si può sorvegliare, forse è persino possibile avere fiducia a distanza, ma fidarsi dall’interno della tana, cioè da un altro mondo, di uno che stia fuori mi sembra impossibile». L’unica cosa che lo tranquillizza è lavorare a nuovi stratagemmi per perfezionare il suo rifugio. Nuove gallerie, sempre più profonde, lo separano dal mondo esterno. Ma le sue strategie di sicurezza lo rendono sempre più insicuro. La paura torna a tormentarlo e si trasforma in angoscia senza oggetto: forse i nemici si stanno organizzando per aggredirlo? Forse gli altri animali hanno scoperto il suo nascondiglio? Vogliono rubare le sue provviste? Invadere la sua tana? «Vivo nel più profondo della mia tana e intanto da una qualche parte mi s’imbuca addosso lentamente e silenziosamente il nemico».
Là fuori il pericolo è sempre in agguato e anche noi, come l’animale rintanato di Kafka, siamo atterriti da un nemico senza volto. Non possiamo toccarlo e non possiamo vederlo. Si nasconde nei corpi degli altri, si mimetizza sulla superficie di oggetti innocui, si annida negli spazi comuni… Non c’è un posto sicuro dove fuggire e ripararci. Siamo sempre esposti ad un contagio impalpabile. Non basta chiudere le frontiere nazionali, non basta impedire gli spostamenti regionali, non basta serrare le mura della città. Neanche chiudersi in casa ci tranquillizza. Non c’è scampo: abbiamo paura di ciò che un tempo desideravamo, paura della libertà.
Ora che abbiamo prudentemente alzato un muro difensivo contro il nemico, ora che ci hanno insegnato a proteggerci dall’incontro con gli altri, ora che abbiamo imparato a mantenere la distanza di sicurezza dai nostri vicini e ad evitare il contatto ravvicinato perfino con i nostri familiari, è arrivato il tempo di uscire dalla tana! La riapertura si avvicina, siamo pronti alla sfida? Siamo in grado di ricominciare anche se il distanziamento sociale ha riattivato la nostra paura atavica dell’Altro? Anche se i consigli degli scienziati e le regole dell’emergenza sanitaria hanno risvegliato la “sindrome della tana”, il ferino istinto di sopravvivenza che si trasforma facilmente in un delirio paranoide?
Imprigionati dallo spavento, pretendiamo certezze, ma ad ogni notiziario le nostre paure aumentano e prosperano i sospetti. E cresce a dismisura il bisogno di sicurezza. Una rincorsa senza fine. Più ci proteggeremo e più ci sentiremo inadeguati a proteggerci. La tana come condizione permanente del presente e la paranoia come orizzonte dell’umanità?
Quando il racconto di Kafka finisce il protagonista è ancora lì, in posizione difensiva, paralizzato sulla soglia della tana, in perenne ascolto del pericolo. «Tutto invece è rimasto immutato…» conclude lo scrittore lasciandoci in sospeso. Spetta a noi chiudere la storia, evitare che la tana diventi la nostra prigione.