di Marcello Cominetti
Scio quasi ogni giorno dell’inverno e della primavera da quando ero un ragazzino. Di curve, quindi, ne ho fatte. Ugualmente non sono un grande sciatore, perché sennò non mi spiegherei quello che mi succede da circa quattro, cinque anni. Ovvero cerco di sfruttare al meglio la forza di gravità assecondandola il più possibile, unitamente a un’interpretazione del terreno, che mi facciano faticare il meno possibile. Questo ho imparato in tanti anni.
Prima mi impegnavo a stare sugli spigoli –non so se avete presenti gli sci ante era carving- e a cercare la linea più veloce ed estetica, un po’ come per sorprendere i miei clienti (faccio la guida alpina) e anche me stesso, che provavo immensa soddisfazione nella sciata aggressiva in cui dover mettere molta energia. Ora questo lo farei solo se fossi inseguito da una valanga, ma siccome cerco di evitarle, non lo faccio più.
Non cerco di domare il pendio come fosse una fiera inferocita, bensì, non lasciandomi sbranare da lei, evito lo scontro diretto e scanso ogni suo attacco, come fa un torero, lasciandomi slittare con leggerezza verso valle. Amo il derapage anche a alta velocità, cosa che ho imparato nelle poche gare di free riding che ho fatto e cerco di non farmi durare il pendio il più possibile anche quando la neve è perfetta. Scendo senza perdere tempo per non farmene rubare troppo da situazioni che so già come vanno a finire. Cerco di scendere con il minimo dispendio di energia, su qualsiasi neve, e ci riesco. Non nascondo che mi da molta soddisfazione, anche se è l’esatto opposto di quello che facevo prima. Crescendo si cambiano gusti. Evidentemente. Mi capita di sciare con giovani e anche non, pieni di energie da sfogare, che stanno bassi bassi e incidono anche la neve più cedevole come se fossero tra i pali di un gigante di coppa del mondo tanto nel boschetto dietro casa quanto su un pendio perfetto in alta quota. Io no, quello l’ho già fatto, e me ne scendo come l’acqua di un ruscello (o come una pisciata sull’asfalto alla ricerca di un tombino) che percorre la via più naturale e semplice per arrivare al mare. Ecco io mi fermo un po’ prima, perché la neve finisce e non vorrei risalire per guadagnare la porta di casa. Questione di gusti, forze, aspirazioni, esperienza e sensazioni non più nuove e stupefacenti perché già provate.
Si potrebbe definire come maturità, quella di sciare facendo poca o pochissima fatica, intanto si scende, e una cosa che il tempo e milioni di curve ti hanno insegnato è che sai dove mettere la punta dello sci per fare meno fatica possibile. Ho amici campioni, allenatori, fenomeni dello sci alcuni, e più esperienza hanno fatto e più tendono a un comportamento come quello che ho appena descritto. Ho detto “tendono”. Passano gli anni, i tessuti dei muscoli, anche se li alleni, non sono più quelli di una volta e la testa ha già consumato piacevolmente molti degli impulsi esaltanti che potevano arrivarle. Quello che da giovane non potevi avere era l’esperienza che hai da vecchio, maledizione, ma quest’ultima ti può fare gioire ancora come quando avevi diciott’anni.
Oggi, rientrando leggero di felicità da una gita sci alpinistica con amici, ascoltavo nello stereo della macchina un pezzo di Morricone che faceva da colonna sonora a un grande film del 1969: Il Clan dei Siciliani, con Alain Delon, Jean Gabin, Amedeo Nazzari e Lino Ventura diretti da Henri Verneuil. Una girandola di ricordi mi ha fatto mentalmente soffermare fluttuando piacevolmente mentre scendevo verso Agordo dal Passo Duran, diretto a casa. Non so da dove iniziare!
Allora, vivevo in Sicilia a Marina di Melilli a 13 km da Siracusa. Me lo ricordo perché sotto casa c’era un cartello che lo indicava. Il film era appena uscito in Italia e ovviamente con la mia famiglia l’avevamo visto al cinema da poco. Avevo 9 anni e un amico mi aveva portato a casa 5 passerotti appena nati che aveva trovato chissà dove. Lui non poteva portarli a casa perché suo padre non voleva. Li tenevo in una scatola e con mia madre e mia sorella (mio padre era via tutto il giorno al lavoro) li nutrivamo faticosamente con uno stecchino. Mia madre li aveva battezzati Il Clan dei Siciliani ma il gatto dei vicini se li pappò e noi tutti li piangemmo per giorni. Specialmente mia sorella.
I tornanti del Passo Duran continuavano e un’auto da dietro voleva superarmi perché andavo piano per fare durare quei momenti di nostalgia il più possibile. Quello aveva più fretta di me ma mica poteva sapere a cosa stavo pensando. I ricordi non finivano, anzi ne arrivavano sempre più.
L’anno dopo la Sicilia ci trasferimmo in Sardegna e andammo a trovare la madre di un mio zio acquisito che aveva sposato una sorella di mio padre, a Orune in Barbagia. Mio zio aveva avvertito sua mamma che ci aspettava con un comitato d’accoglienza cui mancava, per fortuna, solo la banda del paese. Parcheggiata la macchina, ci dirigemmo verso la piazza della chiesa sotto un sole africano dove avevamo appuntamento e improvvisamente una squadra di donne in abito nero si buttarono su mio padre abbracciandolo tra urla e baci, sostenendo che era Amedeo Nazzari, il loro attore preferito! In effetti una qualche rassomiglianza c’era, ma neppure mia madre se n’era mai accorta. Seguirono sgozzamenti di animali, arrosti, vino rosso scuro a fiumi e balli al suono di launeddas e fisarmonica, cori e racconti, come si conviene alla tradizione barbaricina. Ma non è finita qui. Un altro zio acquisito, marito di una sorella di mia madre, era identico a Lino Ventura. Anche nel modo di fare era impressionante quanto lo zio Bruno assomigliasse a quello che resta ancora oggi uno dei miei attori preferiti. Chiusa la parentesi sul Clan dei Siciliani.
Passato il ponte sul torrente Rova quei ricordi sbiadirono fino a scomparire lasciando il posto alle diverse teorie sull’attraversamento dei corsi d’acqua laddove i ponti non ci sono.
Mi capita spesso di aggirarmi anche con i clienti in posti selvaggi senza sentieri e dove quindi i ponti mancano. La mancanza di ponti su torrenti e fiumi condiziona non poco le escursioni perché attraversare certi corsi d’acqua non è affatto facile e tutt’altro che privo di rischi. Negli anni in cui facevo l’istruttore ai corsi di formazione per guide alpine mi capitava spesso di parlare generalizzando dei diversi comportamenti dei clienti a seconda della loro provenienza. L’attraversamento del fiume era un esempio perfetto.
Un gruppo di escursionisti svizzeri o tedeschi seguirà la guida nello stesso punto esatto dove lei ha scelto di attraversare, senza la minima esitazione. I francesi potrebbero dividersi attraversando in più punti, ritenendoli migliori degli altri. I britannici si arrangiano ognuno per conto proprio, anche se sono imbranati. Degli americani resterebbero esterrefatti all’idea di non trovare un ponte e lo cercherebbero anche se la guida è già dall’altra sponda.
Italiani e spagnoli rompono immediatamente il gruppo. Ognuno si sceglie un preciso punto dove attraversare e urla agli altri di andare là perché è meglio. Il risultato è che si perde un sacco di tempo. Se la guida lo sa, riesce a prevenire certi comportamenti e saprà tenere insieme il gruppo anche con semplici battute, più che altro allo scopo di evitare annegamenti e perdite di tempo.
La passione per l’avventura mi ha fatto piacere fin da piccolo gli oggetti taglienti e appuntiti perché istintivamente ritenuti idonei alla sopravvivenza. Quindi coltelli, segacci, tenaglie e punteruoli hanno sempre catalizzato i miei interessi. Ricordo un frustino per cammelli che mio padre portò dal Sahara che aveva il manico svitabile e si trasformava in un minaccioso stiletto. Un’arma da taglio decisamente impresentabile per le vie di una città italiana. Quindi mia madre fece sparire l’amenicolo ma io non me ne dimenticai mai e l’ho cercato per anni, senza mai trovarlo. Chissà dove sarà finito. Non dispero di ritrovarlo un giorno.
Un oggetto da taglio che mi affascinava era il trinciapolli che vedevo a casa dei miei zii il giorno di Natale. Appena provavo a impossessarmene me lo toglievano immediatamente dalle mani dicendomi che non era un giocattolo. Come se un bambino dovesse maneggiare solo innocenti giocattoli e nessun oggetto da adulto, figuriamoci. Un Natale ormai lontano mi regalarono un kit da piccolo falegname in cui c’era una sega con cui tagliai il bracciolo del divano del salotto dei miei zii. Gli stessi che mi precludevano l’uso del trinciapolli mi avevano regalato un utensile ancora più distruttivo, la sega. Per la mia vivacità ero sorvegliato a vista già da prima del taglio del divano ma da quella volta divenni come un piccolo assassino da tenere a bada, quindi addio alla speranza di impossessarmi del trinciapolli.
A casa nostra non ne avevo mai visto uno e poi diventato adulto andai a vivere altrove. Scoprii che anche i miei genitori possedevano un trinciapolli solo dopo la morte di mio padre, quando dovetti rovistare in vari luoghi di casa dei miei genitori per cercare dei documenti che mia madre aveva la mania di nascondere.
Ora quel trinciapolli è nel cassetto della cucina di casa mia. Ogni tanto lo prendo in mano e lo osservo con soddisfazione ma i polli di oggi, anche quelli spacciati per “ruspanti” hanno le ossa molle e si fanno in pezzi con un semplice coltello. Questo ha fatto diventare il mio bel trinciapolli un oggetto inutile.
Beh che dire ti si legge sempre con piacere.!…dalla fresca neve ai ricordi vivi del passato tutto liscia scorrevole fino al dover attraversare il fiume e allora li ognuno a modo suo
Marcello, ti conosco solo da ciò che scrivi; a leggerti si capisce che lo fai senza fatica, così come sciare, che è parte della tua professione. Bravo, e soprattutto continua cosi.