di Federico Ravassard, pubblicato su Skialper in data 28 ottobre 2020
Sono partito da Torino poco più di un’ora fa, diretto verso le Alpi Marittime. Quando mi fermo per un caffè ad Andonno rimango un attimo sorpreso dalla barista che, a disagio, mi avverte che non potrò berlo al bancone.
È il 9 marzo, il giorno prima la Lombardia è stata dichiarata zona rossa e anche da queste parti si teme che sia solo questione di giorni prima che i divieti di circolazione si estendano anche al resto del Paese. L’appuntamento a Valdieri è con Paolo e Mattia, il primo Guida alpina, il secondo Maestro di sci, ma prima di tutto amici e fini conoscitori della Valle Gesso, in provincia di Cuneo. Siamo stati invitati da un altro amico comune, Cis, a trascorrere un paio di giorni al Valasco e realizzare un reportage che in un anno normale sarebbe servito a promuovere la zona del Parco Naturale Alpi Marittime in vista della stagione dello scialpinismo primaverile. La settimana precedente in tutta Italia le attività commerciali hanno cominciato a chiudere per evitare situazioni di assembramento, qua invece non c’è stato molto lavoro da fare: da queste parti l’isolamento sociale è una normalità, special- mente in questo periodo dell’anno.
Il Rifugio Valasco è conosciuto per la sua architettura bizzarra, che ne racconta anche la storia. Nato come reale casa di caccia per la famiglia Savoia alla fine dell’800, venne riconvertito a caserma durante le due Guerre Mondiali, per poi essere ceduto dalla principessa Iolanda di Savoia a privati che lo convertirono ad alpeggio, fino a che un incendio negli anni ’90 non lo distrusse parzialmente. Dopo un decennio di abbandono, il suo restauro ne permise la riapertura al pubblico nel 2008, creando una base logistica perfetta per spezzare i lunghi trasferi- menti richiesti per sciare in Valle Gesso. A vederla da una cartina l’area compresa tra la Valle Stura e la Valle Vermenagna non sembra particolarmente estesa: a complicare la vita, però, ci pensa una fittissima rete di valli laterali e creste decisamente lontane dal fondovalle, oltre che strade spesso chiuse fino a primavera inoltrata a causa della neve. Per farla breve, per divertirsi con gli sci in Valle Gesso bisogna camminare parecchie ore, ma sono proprio quelle ore a garantire la solitudine che in altre zone è ormai una chimera. Tanto per smentire quanto è stato appena scritto, l’occasione per divertirci è decisamente comoda: proprio di fronte al rifugio si snoda infatti un canale non ancora sciato e Cis aspettava solo un po’ di compagnia per andare a metterci il naso. Dopo un caffè partiamo dal Valasco portandoci dietro un asse di legno, ci servirà ad attraversare un ruscello senza dover allungare inutilmente fino al ponte situato in fondo alla piana. Il canale è stretto, ma mai ripido. Si snoda attraverso pareti di granito rossastro che sono una delle caratteristiche della zona, ben riassunte dalla Cresta Savoia che si snoda qualche chilometro più a monte. Trecento metri, poco più o poco meno. Pochi per essere l’obiettivo di una giornata, ma abbastanza per rientrare in una concezione di scialpinismo che in Italia stenta ancora ad avere seguito: anziché voler programmare la gita in funzione di una cima precisa, in alcune aree ha più senso fare l’avvicinamento iniziale e solo dopo decidere dove puntare gli sci, in base all’appetito e al menù del giorno. Come, ad esempio, la valle del Valasco, dove sono presenti pendii di qualsiasi esposizione e inclinazione.
Scendiamo uno alla volta, dandoci il cambio alla guida del gruppo. Le pareti che ci circondano sono alte, si potrebbe credere di essere ben altrove. Anche se poi, a pensarci bene, le Marittime hanno ben poco da invidiare ad altri massicci, qui la quota relativamente modesta viene compensata dalle abbondanti nevicate, merito proprio della vicinanza con il Mediterraneo, e la morfologia complicata sembra essere studiata apposta per soddisfare desideri di pornografia scivolatoria. Rientriamo al Valasco per l’ora di pranzo, qualcuno nel frattempo dà un’occhiata alle news per capire l’evolvere della situazione nel resto del mondo, ovvero tutto ciò che è situato a valle delle Terme di Valdieri. Matti, al secolo Mattia Tosello, storce il naso: da oggi chiudono le stazioni di sci, di fatto la stagione lavorativa per lui finisce qui. Ex agonista nel centro sportivo dell’Esercito, Mattia ha passato una vita a masticare porte e neve barrata, prima come atleta e poi come allenatore, per poi decidere di cambiare aria, esasperato dall’agonismo vissuto male, quello fatto di genitori ossessionati dai risultati dei figli. Nel 2012 ha messo in piedi uno dei primi corsi di freeski rivolto esclusivamente a quei ragazzi in cerca di alternative
al classico sci club, diventando in seguito anche istruttore nazionale di telemark. Poco prima vederlo scendere nel canale è stata una gioia per gli occhi: il peso si spostava veloce da una lamina all’altra, il busto e le gambe in assorbimento e pronti a correggere la direzione con un’esplosività che solo chi ha sciato ad alti livelli in pista può avere. A scacciare le preoccupazioni ci pensa Cis, stappando una bottiglia di prosecco. Anche lui, Andrea Cismondi, da qualche parte conserva una giacca con la patacca da allenatore, ma da anni ha deciso di voltare pagina lavorando prima al vicino Rifugio Morelli e poi, ottenuta la gestione del Valasco, decidendo per la prima volta di tenerlo aperto anche nella stagione invernale, nonostante i disagi che questo comportava. Prima di tutto una continua vigilanza sulla sicurezza dell’accesso: la mulattiera creata per gli spostamenti dei Savoia si snoda sotto il tiro delle valanghe che con grandi nevicate scendono spontaneamente dai fianchi del Monte Matto, una delle vette più alte delle Marittime. Da un paio d’anni nella gestione è affiancato da Luca Rabbia e insieme hanno dato il via all’avventura di Casa Savoia, un altro rifugio situato alle Terme di Valdieri, qualche chilometro più a valle, solitamente utilizzato come punto di partenza nei mesi centrali dell’inverno. A queste due attività Cis e Luca dedicano anima e corpo, coccolando gli ospiti con vini scelti nelle cantine di mezzo Piemonte e Jacuzzi tatticamente riempite di acqua calda per il post-gita.
Dopo una cena sontuosa con arrosto innaffiato da Dolcetto e Barolo, Paolo apre una cartina per capire dove andare il giorno dopo, lasciandosi aiutare nella scelta dell’itinerario dalla selezione di zuccherini del rifugio. Su, giù, di qua, di nuovo su. L’idea è di compiere una traversata per concatenare alcune delle mete più classiche della zona, portandoci nella valle parallela alla nostra, sotto l’ombra dell’Argentera e arrivare sci ai piedi a Casa Savoia, dove passeremo la notte. Proviamo a calcolare i chilometri e ci viene da ridere, pensando alle ore che staremo in giro. Cis nel frattempo controlla nervoso il telefono, fino a quando arriva la notizia che cambierà il corso della nostra primavera, e per nostra si intende quella dell’intero Paese: in conferenza stampa il premier Conte ha appena dichiarato lo stato di lockdown in tutta Italia in risposta all’aggravarsi dell’epidemia. Ci guardiamo negli occhi consci che ora la situazione si farà parecchio complicata, per dirla con un eufemismo. In altre parole: siamo tutti fottuti. Decidiamo che rimarremo fuori fino a mercoledì, come avevamo già pianificato, in modo da terminare il lavoro sulla Valle Gesso e dare un senso all’essere venuti fino a qui grazie alla collaborazione tra il rifugio e l’ente del Parco delle Marittime. Per un po’ ci arrovelliamo scherzosamente per capire se la quarantena possa essere effettuata legalmente al Valasco: dopotutto, avremmo cibo e vino per un paio di mesi. Il buonsenso e le disposizioni del Soccorso Alpino – di cui, tra l’altro, fanno parte sia Cis che Pallo – ci fanno comunque capire che la giornata di domani ce la dovremo godere in ogni suo minuto perché non ne capiteranno di simili a breve. Gli unici altri ospiti del Valasco oltre a noi sono dei belgi con una Guida di Chamonix. La maggior parte dei passaggi qui, mi racconta Cis, è di sciatori francesi in traversata dalla stazione di Isola 2000, vicino al Colle della Lombarda. La disposizione dei rifugi e degli impianti si presta particolarmente a questo tipo di itinerario e anche noi, volendo, potremmo rimanere in giro per una settimana senza mai dormire nello stesso posto, tenendo conto di strutture aperte e bivacchi. Prima o poi, magari.
Martedì 10 marzo partiamo presto, ripetiamo il giochetto dell’asse di legno sul ruscello e puntiamo verso la Val Morta, che risaliremo fino al Colletto di Valasco. Mi guardo intorno, di qua ci ero già passato qualche anno fa, ma ora mi sembra di guardare tutto con un altro sguardo, più curioso. Andrea mi racconta che buona parte delle cime intorno a noi sono ancora da esplorare in chiave sciistica: solo dalla piana del rifugio, infatti, partono una quindicina di gite classiche, senza contare poi le discese di ripido che fanno gola a molti quando si verificano buone condizioni in primavera: il Tablasses, la Testa del Claus, la Testa di Bresses sono solo alcuni dei nomi che Pallo e Mattia mi sciorinano parlando delle discese che piacciono a loro: ripide, ma allo stesso tempo sciabili, non pareti esposte su cui salvare la pelle una curva saltata dopo l’altra. Le discese su cui aprire il gas, per intenderci. Passato il colle ci fermiamo per una pausa. Da qui ci separeremo: Luca e Cis, visto lo stato delle cose, devono riassettare il rifugio e sistemare alcune cose per i prossimi mesi in cui rimarrà chiuso. Noi continuiamo per il Colle di Fremamorta, seguendo una traccia vecchia di chissà quanti giorni. Di fronte a noi l’orizzonte è occupato dalla mole dell’Argentera, vicino a lui si stagliano il Corno Stella e la Catena della Madre di Dio. Nomi che a qualcuno possono dire poco, ma se si possiede un briciolo di cultura alpini- stica si sa bene che, nonostante la loro quota passi di poco i tremila metri, su queste cime si può trovare lungo, molto lungo. In fondo si srotola la gorgia della Ghiliè, da cui scenderemo fra qualche ora, una delle cime su cui si ammassano gli scialpinisti a maggio, lasciando campo libero su tutto il resto. Cambio assetto, panino, crema solare, giacca e via. La discesa dura troppo poco, specialmente quando si tratta di stare dietro a due amici che condividono parecchie passioni, tra cui quella per le curve a raggio ampio. Ripelliamo, direzione Vallone Ciriegia. Siamo soli, soli davvero, il telefono non prende e in giro non si vedono tracce, men che meno altri esseri umani. Se fossimo già su una delle cime di fronte a noi – come la Nasta, o il Mercantour laggiù in fondo – potremmo vedere l’acqua del Golfo di Nizza luccicare sotto il sole di mezzogiorno che ci sta cuocendo a fuoco lento. Credo che la testa fumi anche per altri motivi, che hanno a che fare con la cosa che affronteremo nei prossimi mesi, letteralmente chiusi in casa mentre negli ospedali i posti letto non saranno mai abbastanza.
Dalla cima del Ciriegia scendiamo di poco, l’acquolina di trovare neve migliore sul costone che sovrasta la gorgia della Ghiliè ci fa rimettere le pelli per la terza volta da quando siamo partiti. Spelliamo al sole, l’aria ora è tiepida. Parlare di isolamento sociale in questo momento, lontani chilometri da tutti e da tutto, sembra una presa in giro. La discesa è una danza con le contropendenze, la neve è bruttina ma in fondo quegli etti in più che ci portiamo su sci e scarponi servono proprio a questo. Al Piano della Casa ci fermiamo a goderci ancora un po’ di sole, prima di parecchi chilometri nel fondovalle all’ombra. Riempiamo le borracce nel torrente e ci fumiamo una sigaretta. Vogliamo sentirci liberi ancora per un po’. A Casa Savoia ci arriviamo non molto prima del tramonto. L’ultima serata libera ce la godiamo in una tinozza di acqua calda, che qui sgorga naturalmente. Si parla di sciate passate e di quelle future, perché in fondo gli sciatori sono, prima di tutto, amanti dei piccoli sogni che si concretizzano in qualche centinaio di metri di neve appiccicati a una montagna. Mercoledì mattina prepariamo gli zaini a malincuore. Abbiamo un’ultima cosa da fare prima di rinchiuderci in casa per le prossime settimane: andare a salutare il Lourousa, la linea simbolo delle Marittime. Risaliamo il Gias delle Mosche in silenzio, conosciamo già questo luogo. Quando arriviamo al Gias Lagarot ci fermiamo a un masso sul quale ci sdraiamo a crogiolarci al sole per un po’, prima di tornare giù a valle, verso la vita reale e i suoi problemi. Forse sullo stesso masso si era fermato anche Heini Holzer nel 1973, dopo aver risalito il Lourousa con gli sci sulle spalle e aver firmato così una storica prima. Dall’altra parte della valle la caotica parete sud del Monte Matto sembra essere stata disegnata apposta per esaltare l’estetica pura del Canalone. Cervellotica e solare la prima, razionale e ombroso il secondo. Una ti intima di fare curve strette e controllate, l’altro ti chiede di aprire il gas se ti senti all’altezza.
Qualche ora più tardi sono a Torino. La via di casa è deserta, scarico sci e scarponi mentre il termometro dell’auto dice che ci sono 25 gradi. Nel frattempo, intorno a me, il mondo si sta fermando per ricominciare a vivere. A distanza di un mese, vorrei poter bussare sulla spalla del mio me indaffarato e un po’ triste che apre il portone tenendo gli scarponi con due dita infilate nelle scarpette. Vorrei dirgli di stare molto attento a quello che succederà nei prossimi giorni, a non lasciare che l’atmosfera malsana creata dal virus lo contamini. Intorno a lui le persone si comporteranno nei modi più assurdi, c’è chi diventerà molto buono e chi molto cattivo. Ci guarderemo dalle rispettive finestre e pretenderemo di sapere tutto dell’altro. Perderemo un po’ di muscoli, ma soprattutto impareremo a conoscerci meglio, o semplicemente in un altro modo. Ci mancheranno gli amici. Poi, se tutto andrà nel verso giusto, miglioreremo come persone. E quindi come sciatori.