Kampf in Schnee und Eis è un libro di Leni Riefenstahl, Hesse&Becker Verlag, Leipzig, 1933. Traduzione di Maria Antonia Sironi e Paolo Ascenzi. Dei 26 capitoli che compongono il libro abbiamo scelto di riportare qui il 24°, Filmare sull’iceberg (per gentile concessione dell’editore).
Presentazione all’edizione italiana di Kampf in Schnee und Eis (Tra nevi e ghiacci, MonteRosa Edizioni, 2025)
di Andrea Gobetti
Leni Riefensthal si racconta e noi la incontriamo dove la sua avventura inizia negli anni ruggenti e decadenti della Repubblica di Weimar, fra il 1924 e il 1932.
Brava a scrivere, illustra la sua storia di alpinista e di attrice di montagna con una cavalcata di memorabili quadri che già sanno di sceneggiatura; il lettore è trattato da spettatore cinematografico: dalla vicenda deve trarre emozioni più che informazioni.
Al principio, Leni sta aspettando con impazienza un treno in stazione, lei è una danzatrice già al primo anno di grande successo, ma col ginocchio infiammato.
Dall’altro lato dei binari vede il manifesto di un film che rappresenta il Campanile Basso di Brenta e uno scalatore. Botta mistica. Basta il titolo, “Berg des Schicksals” [La Montagna del Destino] per sapere come andrà a finire. Perde il treno e va al cinema.
Leni Riefensthal è un personaggio più discusso che conosciuto.
Danzatrice, attrice, regista è stata l’unica donna a entrare da protagonista nella sfavillante stagione del cinema di montagna germanico; ebbe un tale successo che in seguito diresse l’agghiacciante “Trionfo della Volontà” con Adolf Hitler come indiscusso protagonista e il meraviglioso “Olimpia” sulle Olimpiadi di Berlino del ’36. Ammirò Jessie Owens e tenne il razzismo ormai imperante lontano dal suo film.
Ma tutto ciò è ancora un futuro lontano quando, attratta dal manifesto, si vota al più lucido e determinato regista di montagna del tempo: Arnold Fanck, da lei sempre rispettosamente chiamato Dr. Fanck.
Quanto di quelle eroiche riprese e quanto della retorica monumentale di questi film contenga già i germi del nazionalsocialismo resta da capire, non è facile distinguere quanto delle luminose montagne incantate sia poi diventato fumo di Auschwitz. Certo è che il Dr. Fanck fu capace di esprimere la gioia e l’esaltazione di vivere l’avventura in alta quota.
I suoi film, visti oggi, patiscono di retorica e sdolcinature sentimentali che trasmigreranno anche nelle opere della Riefensthal, ma si riscattano per un amore autentico e forsennato nei confronti dell’alpinismo e dello sci che non ha paragoni nelle produzioni contemporanee.
La loro realizzazione, in quel delicato momento in cui il cinema passa da muto a sonoro, è miracolosa, assolutamente il meglio di quanto al tempo si potesse sperare di poter filmare in montagna o in situazioni estreme fra i fiordi della Groenlandia.
Il Dr. Fanck scriveva sceneggiature semplici e addirittura un po’ banali, ma senza dubbio di grande effetto nonché molto difficili e pericolose da realizzare.
Leni Riefenstahl fu l’unica donna al centro di una delle più audaci e capaci troupe cinematografiche mai viste al mondo.
Sul ghiaccio saliva Hans Ertl, in cielo si librava l’asso dell’aviazione Ernst Udet e sugli sci volavano Hannes Schneider, Louis Trenker e Hans Schneeberger. Accanto a loro si muovevano personaggi improbabili come il poliziotto radiotelegrafista Sepp Rist che la Riefensthal trasformò in attore facendo infuriare e poi ricredere il Dr. Fanck. Tra loro spiccava senz’altro “il vagabondo del Monte Bianco”, un giovane di Berlino che saputo dai giornali quel che stava facendo la troupe, e senza aver mai visto prima una montagna, partì in bicicletta e raggiunse la compagnia sui ghiacciai francesi con 12 marchi in tasca: diventerà il segretario di Leni Riefensthal.
I “Bergvagabunden”, i “Vagabondi delle Montagne” narrati da Hans Ertl, avevano trovato un mestiere. Eroi ancora allo stato di primitiva innocenza furono i predecessori dei “Vagabondi del Dharma” immortalati da Jack Kerouac che sciameranno sulle pareti dello Yosemite.
Il Dr. Fanck fu un regista meraviglioso e terribile, scrupoloso e implacabile; sapeva che il pubblico amava il dramma e per realizzarlo in modo autentico i suoi attori e lui stesso avrebbero rischiato la vita e non una volta soltanto.
Non ci dovevano essere trucchi o controfigure; così si espresse il Dr. Fanck rivolgendosi a Leni Riefenstahl: “Arrampicherai a piedi nudi così come vuole il copione e come prova finale salirai le Torri del Vajolet” (“Der heilige Berg” [La Montagna dell’Amore]).
Non è un caso che né prima né dopo l’incontro con Leni Riefensthal il Dr. Fanck non abbia più trovato una vera attrice e lei stessa si domandò più volte se lo fosse davvero o, come voleva la critica più maligna, fosse soltanto una alpinista nelle mai di un genio.
Fra tanti maschiacci, fu però Leni Riefenstahl a diventare regista; attenta alla fotografia e attratta dal montaggio, dalla sceneggiatura e da tutto ciò che combinava il Dr. Fanck prese le redini di diversi film probabilmente per difesa personale, stanca di farsi scaraventare nei crepacci. È curioso che il film in cui lei muore suicida, dopo la profanazione della sua montagna, è l’unico di cui lei fu regista e protagonista: “Das blaue Licht” [apparso in Italia con il titolo “La Bella Maledetta”].
I film del Dr. Fanck ebbero un grande successo, le Alpi sono anche germaniche, ma soprattutto lontane dal mondo di pianura in cui vive la stragrande maggioranza dei tedeschi.
Le sue riprese le rappresentano come un luogo ultraterreno, mitologico, bello e terribile per dirla alla Kant, dove la purezza dei sentimenti e un fisico forte e sano fino al fanatismo sono l’unico passaporto valido.
Girarvi un film prevedeva invece una fatica tremenda, rischi altissimi, sporcizia garantita, fame, freddo e fatica.
Erano gli anni ’20, le strade si fermavano nei fondivalle e le slitte tirate dai cavalli non erano ancora insidiate dalla concorrenza di skilift e seggiovie.
Le condizioni erano ben diverse da quelle di Cinecittà, ma ciò era inevitabile se il Dr. Fanck aveva deciso di girare per due settimane alla Cabanne Vallot (4400 metri d’altezza) fra le tempeste del Monte Bianco o catturare un orso prestato dallo zoo di Berlino e perduto fra i fiordi groenlandesi.
Se il cinema di montagna non è mai stato una scuola di democrazia, con il Dr. Fanck sfociò senza vergogna nella tirannide.
È vero che per fare del cinema si rischia spesso di doversi imporre. Si comincia col produttore che non si decide a tirare fuori i soldi, si continua con il cast e con la troupe e quindi coi gestori di sala e gli organizzatori dei festival.
Diversamente da oggi, in cui tutti si travestono da serial climbers per andare al bar, gli alpinisti degli anni ’30 erano protagonisti scomodi, troppo lontani dallo spettatore che in poltrona pagava per vederli. Bisognava trovare un punto di contatto fra i due mondi e non era facile. In montagna, infatti, non capita quasi niente di ciò che è familiare allo spettatore.
Impossibilitati dalla situazione, questi angeli piovuti fra picchi e tempeste non rubavano, non sparavano, non ballavano con una ragazza, non andavano in visita ai parenti, non cullavano poppanti e non andavano alla partita. I loro pic-nic erano un inno alla fame e i loro giacigli ai reumatismi.
L’unica cosa che temevano con altrettanta convinzione di un grasso berlinese o di un marinaio baltico era quella di morire e, ciò nonostante. Ciò era un vero mistero agli occhi di chi non vedeva alcuna ragione di andare in cima a una montagna.
Ma il genio di Fanck trovò la soluzione nel verbo “salvare”, condizione perfetta per avere la benedizione dello spettatore e concedere ai protagonisti la licenza di essere speciali ossia di agire al di là del bene e del male, come direbbe Nietzsche al superuomo e ribadisce Eugen Guido Lammer in “Jungborn” [Fontana della Giovinezza, ma sarebbe più corretto Fonte di Giovinezza] testo mitopoietico dell’alpinismo germanico.
Salvare concede molte libertà al salvatore, nel cinema del Dr. Fanck si può rischiare l’attrice, l’attore, l’aeroplano e la salute, ma bisogna salvare il film.
Anche Hitler si era convinto di voler salvare la Germania dalla viltà demoplutogiudaica e non esitò a sacrificare milioni di tedeschi a quello scopo obbrobrioso.
Il fascino del Dr. Fanck, Führer del cinema, portò Leni Riefenstahl nelle mani del Führer maggiore? Un capo che ben sapeva quanto le storie eroiche e le epiche disfide fra gli uomini portassero acqua al suo mulino.
Certo che la ragazza aveva un bel fegato, si vede che credeva negli uomini del destino; se dal primo si lasciava seppellire dalle slavine, al secondo piazzò una cinepresa davanti ai baffetti e gliela fece ruotare attorno alla faccia mentre arringava la folla a Norimberga.
Come dire: mettere la testa nella bocca del leone.
Riuscì a tirarla fuori appena in tempo e questa fu soltanto una delle moltissime avventure vissute nel corso della sua lunga vita.
Filmare sull‘iceberg (capitolo 24)
di Leni Riefenstahl
Quando ero in volo con Udet a volte riuscivo a dimenticare i miei dolori tanto era affascinata dalle acrobazie che faceva con il suo idrovolante. Infatti, il nostro pilota passava sotto archi di ghiaccio, compiva virate strettissime, si arrampicava lungo cristalline pareti di ghiaccio per poi picchiare repentinamente con grande abilità. Durante i nostri voli, riprendevamo gli iceberg da tutte le angolazioni possibili come previsto dal copione.
Mi resi conto dei rischi che correvamo a causa dell’audacia di Udet quando decise di passare fra gli arditi pinnacoli di un iceberg, ma all’ultimo momento si accorse che ciò non era possibile perché il varco fra le torri di ghiaccio era inferiore all’apertura alare del velivolo. Senza un attimo di esitazione fece inclinare l’idrovolante e sfrecciò come un fulmine fra i pinnacoli; poi mentre raddrizzava prontamente il velivolo mi sorrise maliziosamente come per dirmi che tutto era andato come previsto.
Questa avventura coronò le magnifiche riprese aeree di Udet e fu anche il mio ultimo volo.
Sebbene fossero rimasti soltanto due giorni da trascorrere in Groenlandia furono colmi di contrattempi come se l’Artide avesse voluto ancora una volta farmi paura. Non passò occasione che dovemmo misurarci con le forze scatenate della natura.
Dovevamo girare la scena in cui io mi calavo a corda doppia da un iceberg. Così vi ormeggiammo saldamente la barca con un chiodo da ghiaccio. Poi io mi legai con la corda mentre Ertl e Zogg muniti di ramponi salivano la parete di ghiaccio per preparare l’ancoraggio per la discesa a corda doppia.
All’improvviso, però, Tobias, il capobarca, gridò: “Avvia il motore!”
Improvvisamente la barca su cui mi trovavo venne sollevata da una lastra di ghiaccio che prima era sommersa perché l’iceberg a cui eravamo ormeggiati aveva iniziato ad ondeggiare paurosamente. All’ultimo istante, Tobias riuscì ad evitare che la barca si rovesciasse facendola allontanare dall’iceberg. Noi eravamo salvi, ma quale sarebbe stato il destino di Ertl e Zogg che erano rimasti sull’iceberg che si stava rovesciando? Ertl e Zogg che erano a non più di otto metri dalla superficie del mare si ritrovarono improvvisamente ben trenta metri più in alto quando l’immane colosso di ghiaccio prese ad oscillare. Fu un momento terribile. I due cercavano di aggrapparsi al ghiaccio scivoloso: un momento erano in alto e un momento dopo in basso. L’iceberg sarebbe potuto andare in pezzi da un momento all’altro.
Poi Ertl perse i ramponi e iniziò a scivolare sul ghiaccio vetroso; con grande freddezza quando il movimento oscillatorio dell’iceberg lo portò verso il basso si tuffò in mare. Purtroppo, però Zogg non sapeva nuotare. Mentre noi ben contenti tiravamo Ertl a bordo della barca, Rist facendo forza sui remi si accostò all‘iceberg con una piccola barca di salvataggio in modo tale che Zogg al momento opportuno vi potesse saltare dentro. Schneeberger fu prontissimo ad immortalare la scena con la sua cinepresa. Sebbene questa scena non fosse prevista nel copione fu talmente bella e significativa che venne inserita nel film. Della mia discesa a corda doppia dall’iceberg non se ne parlò più.
In occasione del mio ultimo giorno di permanenza in Groenlandia dovetti salire di nuovo su un iceberg, ma anche questa volta dovemmo interrompere le riprese e lasciare rapidamente la montagna di ghiaccio. Infatti, un iceberg gigantesco era stato spinto dalla corrente verso di noi e le parti sommerse avrebbero potuto scontrarsi da un momento all’altro. Durante la fuga precipitosa, Schneeberger cadde e si ruppe una caviglia, Non ci mancava altro!
Donna da sogno e da incubo.