Très jolie passage

Très jolie passage
di Davide Scaricabarozzi

Tanto da sta roba non ne vengo fuori perché sono un coglione.
E’ la mille millesima volta che mi ritrovo maledicendomi a ravanare col moccio al naso, gli occhiali appannati e un sapore di scoreggia in bocca.
E quello?
… e quello sta lì abbarbicato come un lichene, con gli scarponi che grattano sui licheni su sta minchia di granito freddo e pure io sono un lichene.
Anzi vorrei esattamente essere un lichene, così perfettamente a suo agio, così naturalmente incartapecorito sui cristalli, privo di ansie e adeguato alla situazione, senza pensieri perché senza cervello
Oddio, sul “senza cervello” mi pare che ci siamo, se no mica mi troverei qui per scelta.
Ogni volta mi faccio fregare.
Prima di tutto da me stesso e poi dall’entusiasmo di Pierre che riesce sempre a travolgermi, istillandomi energie che dopo non mi ritrovo sia nei muscoli e men che meno nella mente.
Sono davvero un coglione!
Quest’anno non avevo voglia di impegolarmi in una salita d’altri tempi, quelle che la Vallot volume II dedicato alle Aiguilles di Chamonix definisce come una “gran classica” di quarto grado… quarto grado un par di balle.
Roba da Monte Bianco…..dove c’è tutto e di più di tutto, sebbene questo tutto significhi solitamente lunghi e complicati avvicinamenti, partenze antelucane, discese infinite e zaino pesante.
Ah già, dimenticavo le consuete pietre che fischiano e che mi fanno sentire come un cambogiano in territorio vietnamita.

Davide Scaricabarozzi

Alla fine degli anni Settanta e nei primissimi anni ottanta l’unica guida completa e affidabile che trattava del Monte Bianco era la Vallot, divisa in 4 tomi rilegati in brossura verde che costavano un occhio della testa.
Parliamo di un’opera colossale che metteva insieme tutta la vastità di una catena montuosa lunga decine di chilometri, larga quasi venti, con un’infinità di cime e “cimette”, scritta quando non esisteva il web e ogni informazione andava trovata con un lungo lavoro di ricerca anche direttamente sulla montagna.
Non c’erano foto ma solo disegni a china, quelli più belli e precisi erano del Buscaini che doveva averci lavorato come un miniatore benedettino tanto erano rifiniti.
Anche le relazioni erano molto precise e tutte precedute da una nota storica dove venivano citati i primi salitori, le prime ripetizioni, la prima solitaria, la prima invernale, tutte le date, spesso incisi biografici e una piccola aneddotica che faceva della vera e propria cultura alpinistica.
Banalmente veniva definita la Bibbia del Massiccio.
Assolutamente vero.
Il “problema” della Vallot erano i gradi, soprattutto quelli che venivano definiti classici: tipo il IV.
I quarti della Vallot sono punitivi e antichi, sanciti quando la scala francese era ben là da venire e quando tutto finiva col VI+
Basta prendere in mano un qualsiasi volume della guida per rendersi conto di quanto quarto grado ci sia in quei tomi, praticamente i due terzi delle salite su roccia stanno entro questo range, al massimo si trova un po’ di quinto, poco quinto più, un nulla di sesto e difficoltà in artificiale che si fermano all’A2.
Gli autori sono stati Lucien Devies, in qualche occasione compagno di Gervasutti, e Pierre Henry.
Fuoriclasse indiscussi dell’alpinismo occidentale, apritori di alcune delle vie  descritte nella guida e il parametro di riferimento era direttamente (o inversamente) proporzionale al loro livello.
Le vere e proprie magagne si potevano prevedere leggendo termini come: râteau de chèvre, fissure bien chamoniarde, laminoir o surplombe très fatigant.Tutti ostacoli temibili, difficili da proteggere (se non impossibile), faticosi, aleatori… nonostante il quarto grado proposto dagli autori.
Mi viene in mente il râteau de chèvre sulla via Allain al Dru, anche questa definita come una gran classica e di fatto lo è non fosse altro che per il suo straordinario carattere, dove a un certo punto ci si trova davanti a una placca bombata dall’aspetto quasi bonario, abbastanza lontana dalla verticale e sufficientemente povera di appigli e appoggi come giustamente dovrebbe essere una placca.
Sulla sinistra è separata dalla parete da un bel fessurone largo una trentina di centimetri che invita ad incastrarci dentro almeno lo scarpone costringendo ad una scalata faticosissima che della leggerezza tipica “placcosa” non ha un bel niente.
A questo va aggiunto il fatto che sta roba spesso è coperta da un sottile strato di vetrato (siamo su un versante nord) che mette il giusto pepe al culo, ma soprattutto non si può proteggere per parecchi metri giusto sopra la sosta.
Io sono uno scarso che sul quarto grado se la cava discretamente con o senza scarponi… nel caso del râteau de chèvre sul Dru di questo benedetto quarto grado non ne ho visto e sono riuscito a salire solo per un fortunato mix di fortuna e incoscienza cristonando senza tregua alla volta dei redattori.
Lo stesso vale per il laminoir che è analogo alla fissure bien chamoniarde, una cosa tipo off width che magari risulta più comprensibile a tutti quelli che poco hanno a che fare con il Massiccio.
Questi due “soggetti” difficilmente venivano dati più di quarto grado, al massimo un quarto sostenuto che però faceva soffrire da bestia.
A tutto ciò va aggiunta la quota che fa sbanfare come un mantice, magari un tantino di freddo e per finire l’ambiente che fa la sua parte rendendo tutti più umili e ragionevoli.

Pierre l’ho conosciuto in uno sfolgorante tardo pomeriggio di luglio in Val Ferret sotto il “sasso” che faceva livello con i suoi passaggi a tre centimetri da terra su appigli piccoli e rognosi.
Un bel macignone alto poco meno di cinque metri di un bel granito grigio e rassicurante immerso nella pineta che stava nel mezzo tra Pra Sec e Tronchey.
Era di qualche anno maggiore di me ma sembrava molto più vecchio per via della sua aria matura, un poco seriosa e la fronte con le rughe.
Ci siamo scambiati poche parole, di quelle che servono per fare i simpatici a prescindere nonostante il reciproco scrutare nelle pieghe del volto altrui che somiglia molto a quello che fanno i cani annusandosi il culo.
Resta il fatto che ci siamo capiti da subito e tanto è bastato.
Infatti due o tre giorni dopo questo interludio ci siamo trovati alle funivie per andare allo Sperone della Brenva.
C’è da dire che erano anni speciali, dove tutto sembrava possibile grazie alla pompa giovanile e dove le condizioni restavano buone fino a tarda estate, fatto salvo l’imprevedibile spingere dei seracchi.
La nostra salita lungo l’interminabile Brenva fu un viaggio psichedelico che chiudemmo in poco più di sei ore dal Ghiglione alla cima del Monte Bianco.
Manco riesco a descrivere la meraviglia dell’alba poco sotto la cima, ancor oggi che sono passate due ere geologiche da quei momenti porto dentro di me il freddo, il rumore del sorgere del sole e la neve che sembrava appartenere a Marte.
Attimi inimmaginabili e gloriosi.
A quella salita ne seguirono altre nello stesso stile, dopotutto il Monte Bianco è il regno del misto e del ghiaccio.
Così andammo alla Major e alla Sentinella Rossa nell’arco della stessa settimana ma l’estate dopo quella dello Sperone, quindi era il 1979.
Girammo in lungo e in largo il Massiccio, dal Pilier d’Angle all’Argentiere segnando il territorio con una bella dose di fortuna.
Pierre sul misto soffriva un po’, si esprimeva meglio sulla roccia dove si muoveva con una singolare grazia fatta di calma e repentini scatti.
Un bel mix che manifestava una certa irrequietudine interiore ma non per questo sgradevole, anzi trasmetteva una sicurezza che non ho mai capito quanto fosse vera o spocchiosamente ostentata.
Fatto sta che ci sapeva fare.

Adesso che ci penso noi due eravamo già vecchi, nei nostri zaini avevamo una bella insalatiera capiente condita con l’inarrivabile epopea bonattiana, un niente di iconoclastia del grande Desmaison, quanto basta della visionarietà di Cecchinel e Nominè, per finire con una spolverata del senso estetico di Cordier.
In ambito commerciale avremmo potuto essere paragonati a dei buoni gestori di clientela ma non certamente dei venditori di assalto.
Magari Pierre era più sciallo e disincantato, più propenso a guardare avanti mentre io ero maggiormente conservatore, non avevo la sua motivazione che gli impediva di fermarsi anche se si stava cagando in mano.
Quella roba lì mi faceva paura e mi metteva l’urgenza di andare al gabinetto con le ginocchia tremanti.
In quegli anni il senso d’immortalità giovanile che mi pervadeva ha fatto la sua parte e mi consentiva di mascherare con finta sicurezza una strizza che oggi manco riesco ad immaginare di poter controllare, ma di certo non era quella strutturale di Pierre.
Lui aveva ben altro fuoco interiore.

Aiguilles de Chamonix

Ci ho messo un po’ a capire che le sere in rifugio mi facevano male.
Facevo fatica a prendere sonno, se sentivo una pietra cadere ero io a precipitare rimbalzando dentro qualche minchia di canale gelato e mi svegliavo di soprassalto con il cuore che mi schizzava fuori dal petto.
Allora cominciava la litania interiore della meteo.
Speravo, anzi contavo, sul fatto che la sveglia suonasse nel bel mezzo di una nevicata così avrei avuto la ragionevole scusa di tornare indietro ancor prima di cominciare.
Il freddo era sempre troppo freddo e il rigelo non era mai abbastanza rigelo… ma Pierre manco mi ascoltava sapendo bene della mia coniglite cronica.
Finiva così che uscivo dal rifugio caracollante, quasi come un cane tirato per il guinzaglio che vuole fare la cacca a destra invece il padrone lo tira a sinistra.
Per fortuna somigliavo davvero a un cane che in un nanosecondo si dimentica della parte da cui vuole andare e l’azione mi metteva di buon umore.

Una delle caratteristiche dell’alpinismo occidentale sono le partenze prima della mezzanotte per le grandi vie di misto e tutta la salita si svolge nel confortante buio che livella ogni cosa regalando una straordinaria serenità.
Azzera idealmente i dislivelli e cancella ogni fatica; si tratta di un modo di procedere magico sebbene non adatto a tutti.
La grandezza del buio risiede nel fatto che arriverà un’alba e questa rappresenta di per sé una vera e propria speranza: l’uscita dal tunnel, il ritorno alla civiltà, alla vita… nella luce.
Siccome sono lento nell’assimilazione degli stati d’animo anche in questo caso ci ho messo un po’ per capire che mi piaceva provare paura la sera perché poi avrei trovato gioia nell’alba.
Guardate che non è come dirlo eh?
In vita mia le albe vissute in quelle alte regioni hanno rappresentato ogni meraviglia.
Ci sono state albe in cui ho appoggiato la testa sul ghiaccio liscio stroncato dalla commozione.
Bisognerebbe provare per comprendere questa faccenda.
Non ho mai capito cosa rappresentassero queste albe inarrivabili per Pierre, era sempre così pragmatico e asciutto in ogni sua sottospecie di manifestazione emotiva.
In questo era imperscrutabile, quasi gli seccasse esprimere anche solo con un’alzata di sopracciglio l’emozione di fronte a un evento scontato quanto sconvolgente come l’alba là in alto, dopo una nottata a picchiare le punte dei ramponi nel ghiaccio duro.
Pierre era così: apparentemente ruvido come il granito che gli piaceva tanto.
Per la verità questa sua riservatezza emozionale mi faceva sentire un pirla, quasi un debole sentimentale, ma non ho mai avuto il coraggio di affrontare questo argomento a viso aperto con lui.
Mi pareva di essere fuori luogo mescolando la mia meraviglia con la sua fermezza.

Io fumavo, Pierre non fumava.
Io bevevo, Pierre non beveva.
Io mi innamoravo, Pierre non si innamorava.
Io andavo veloce in auto, Pierre andava adagio.
Io bestemmiavo, Pierre non diceva manco una parolaccia.
Io ero estroverso, Pierre era introverso.
Io ero Davide e lui Pierre.
Un equilibrio squilibrato ci teneva legati alla stessa corda; tutto cominciava e finiva ai capi della corda.
Potremmo definirla una specie di raccapricciante cordata perfetta, dove ognuno di noi esprimeva se stesso dall’altro capo della corda, così vicini ma così lontani uno dall’altro.
Io ero più forte sul ghiaccio e stavo davanti, lui sulla roccia difficile e stava davanti.
Diametralmente opposti ma accomunati dal bulino.

Sono sempre stato attratto dalle bettole, più erano sgangherate e più mi piacevano, frequentarle era poco impegnativo e rilassante, non provavo l’ansia dell’inadeguatezza che mi prendeva nei posti che facevano tendenza, quei locali dove ci si conosce ed è quasi giocoforza tenere il palcoscenico.
Parlo di cose da giovani galletti sboroni, ambiziosi ed egocentrici malati di protagonismo: il giusto protagonismo sfacciato che appartiene all’indistruttibilità dei ventenni.
Ecco, effettivamente appartenevo a quella razza lì sebbene mal sopportassi l’inevitabile competizione tra noi coetanei che si manifestava nella tipica logorante schermaglia fatta di sguardi obliqui sfidanti che stavano al pari delle piume del gallo cedrone quando va in estro.
Quindi preferivo andare in quei posti coi tavolacci appiccicosi e le sedie di legno come quelle che c’erano in tutte le chiese di periferia o di paese.
Me ne viene in mente specialmente uno a Prè Saint Didier, ci andavamo perché dietro il bancone tutto ammaccato c’era la figlia del proprietario, una ragazza coi capelli biondi che arrivavano appena sotto le orecchie e che somigliavano straordinariamente alla saggina.
Era di lineamenti duri, occhi celesti sbiaditi, bocca difficilmente incline al sorriso e quelle poche volte che si piegava in quel senso lasciava scoperta una fila di incisivi storti e trascurati.
Talvolta si lasciava andare in una sghignazzata sguaiata e chiassosa, accompagnata per sovraprezzo da una “buttata” indietro della testa, roba da colpo di frusta.
Eppure tutta quella sua sconfinata rozzezza lasciava trasparire una specie di fascino sordido e perverso che accendeva la nostra fantasia priapea mai paga.
Ci dicevamo che una così brutta poteva essere solo una gran maiala e tutto questo sedicente maialismo ce la faceva vedere quasi piacente.
Si beveva un vino rosso sfuso orribile, in genere ne ordinavamo un litro che bevevo quasi tutto; ce lo portava in quei boccacci graduati che teneva, tutti pieni di condensa, testa in giù dietro il bancone e giusto sotto lo scaffale in vetro dove faceva bella vista l’Ebo Lebo.
Quasi non si poteva bere tanto era brusco e volgare, facevo finta che mi piacesse perché tutti quelli attorno a me lo trangugiavano con gusto.
Per dirla tutta mi faceva cagare ma in qualche maniera dovevo sostenere la parte e ci riuscivo perfettamente tra un rutto e l’altro.
Quella sera faceva freddo, aveva piovuto tutto il pomeriggio e si era alzata un’aria tesa dai connotati autunnali.
Sarà stata per questa ragione che le tette della bionda di saggina erano più in vista del solito, una “capezzolata” prepotente pigiava contro la maglietta Fruit of the loom, alimentata di sicuro dal refolo gelato che entrava dalla porta con la molla rotta, che non si chiudeva mai bene a meno che di non darle una botta da far venire giù i vetri.
E sarà stato proprio per via della “capezzolata” che Pierre tirò giù ben due tazze del rosso fatto con le polverine e cominciò a parlare di progetti piuttosto audaci, alcuni fuori dalla nostra portata… altri al limite.
Al supposto limite delle nostre possibilità venne fuori il Dru… mica per la ovest, tipo la diretta americana, ma per la via “classica” Allain, una nord che a leggere la Vallot era piena di quarto grado ad esclusione della fessura Allain (un bel VI cit. Vallot) che poteva essere evitata a destra lungo la fessura Martinetti di un grado più facile.
Si tratta di una cosa di ottocento e passa metri abbastanza complicata, fredda con un bel misto ripido nell’ultimo quinto della via.
Tra le tette coi capezzoli turgidi, il vento allegro e il vino adulterato il progetto ci parve assolutamente realizzabile… dopotutto al nostro attivo avevamo vie tecnicamente più impegnative, ma molto più corte, fatte sui satelliti del Tacul e svariati vioni di misto, quindi tutto questo ci parve ragionevolmente sufficiente per affrontare una salita prevalentemente di quarto, con qualche passaggio di quinto, una lunghezza di sesto evitabile e un tantino di misto rognoso alla fine.

Sbagliammo subito tutto già decidendo di partire dal Montenvers per andare al rognon dei Dru dove avremmo bivaccato.
Fu una marcia di avvicinamento estenuante sotto una canicola da fall-out radioattivo, con gli zaini pesantissimi e il morale che se ne andava a farsi benedire passo dopo passo.
Al rognon, dove giungemmo nel tardo pomeriggio sfiatati come zampogne, c’era solo una coppia di polacchi che sarebbe andata alla diretta americana, due soggetti seri e compunti, tristi come il porto di Danzica in gennaio.
Il mattino presto i polacchi decisero di cambiare meta schiacciati dal peso della montagna che dal basso aveva perso ogni slancio portandosi via pure il loro; il cambio di destinazione consisteva nel tornare a Chamonix con un colpetto all’orgoglio ma il cuore sereno.
Noi proseguimmo per la nostra strada di malavoglia, invidiando segretamente la loro scelta e inciampando mezzi rincoglioniti tra i pietroni.
Arrancammo sulla montagna per due giorni, a tratti mossi da un delirio di onnipotenza alpinistica e a tratti spaventati dalle pietre che cadevano, sconvolti dal quarto grado fetente del râteau de chèvre mezzo gelato, dalla fessura Martinetti che di quinto meno non aveva nulla e dai ripidi camini terminali ghiacciati.
In cima al Dru mi soffermai a guardare la testa della Madonnina di metallo bucherellata dai fulmini e non so perché mi vennero in mente i capezzoli della barista sotto la logora T-shirt Fruit of the loom.
Lo dissi a Pierre perché mi pareva buffa sta cosa, lui mi guardò di sbieco dicendomi solo che in quel posto servivano un vino di merda.
L’unica mia certezza era quella che i numeri su una relazione alpinistica non contano un cazzo, una salita è una salita e le cifre romane che sanciscono le difficoltà perdono di significato tra un lastrone di granito ghiacciato e l’altro, tra una fessura scomoda e l’altra… tra tutto quello che c’è su una montagna vera, paura compresa.
Questa salita segnò un preciso confine tra quello che mi sarebbe piaciuto fare e quello che sarei stato in grado di fare con serenità.
Basta!
Per quell’estate ne avevo abbastanza, lo dissi a Pierre quasi con rabbia, ne avevo pieni i coglioni di morene, ghiacciai, neve, sassi, fiatone, ansie inframmezzate da gioie e chissà che altro.
Che ci andasse lui dove gli sarebbe piaciuto andare!
Mica vivevo per ste cazzo di montagne io!
Passai quel poco che rimaneva dell’estate tra cosce calde, labbra esigenti, lunghe notti innaffiate di vino e un’infinità di Camel filtro nel pacchetto rigorosamente morbido.
Attimi di gloria vera, dimentico delle montagne che stavano là in fondo in controluce nel pomeriggio senza che mi ammonissero.
Le guardavo tanto per capire il progressivo degrado delle condizioni, sicuramente felice di vederle tanto secche: un vero alibi per la mia lascivia e anche questa volta la mia coscienza era a posto.

Gli inverni milanesi hanno un fascino che solo un milanese può comprendere sino in fondo.
E’ vero che la nebbia rompe i coglioni però ha la proprietà, o il dono, di rendere ogni cosa ovattata, mica solo la visuale, anche i suoni.
Tutto arriva alle orecchie come una tromba suonata con la sordina, i marciapiedi sono perennemente bagnati e nei viali le foglie di platano si spiaccicano gradevolmente sul pavé: un’immagine di malinconico degrado consolatorio che lascia un sapore d’intimità potenziale riservata agli animi più sensibili o minimalisti.
Ricordo un inverno in cui la nebbia arrivò il giorno di Natale e se ne andò esattamente il mese successivo, sempre al 25.
Abitavo in periferia nella nebbia più fitta, le piante erano coperte di galaverna, le auto corazzate di ghiaccio e le rare aiuole erano cristallizzate in un buco spazio-temporale degno di Star Trek.
In quelle giornate pensavo spesso al Dottor Zivago, il film l’avevo visto da bambino con i miei al cinema nel giorno di S. Ambrogio, mi era rimasta nel cuore la scena in cui Zivago e famiglia raggiungevano dopo giorni di viaggio la loro isba imprigionata nel ghiaccio dell’inverno russo, così come mi era rimasta impressa a fuoco l’immagine di Zivago perso nella tormenta, attorno a lui non c’era nulla, molto ma molto peggio del witheout antartico di Reinhold Messner, almeno lui non aveva attorno cadaveri mimetizzati nella furia degli elementi.
Ma tra tutte le immagini di quel film infinito (in tutti i sensi infinito) ho in mente quella di Lara…
Ero giovane e quelli erano anni in cui ogni soffio di vento sembrava una bufera, dove ogni albero faceva un’ombra esagerata, anni speciali.
Anni in cui l’inverno nebbioso mi regalava uno straordinario senso d’intimità e di calore, ancor oggi provo la stessa confortevole e gratificante sensazione.

Non sentivo Pierre da settimane ma non mi mancava, come non mi mancava il suo alpinistico fanatismo talebano, non mi piaceva più l’idea di dover fare qualcosa a tutti i costi su qualche montagna, io avevo voglia di fare quello che mi andava di fare.
Le cime dovevano essere un piacere, sebbene faticoso e talvolta ansiogeno, ma pur sempre un piacere.
Avevo bisogno di tutte le esperienze che mi si offrivano nel mondo normale e nessuna avrebbe potuto essere seconda a qualcos’altro, montagne comprese.
Per cui vaffanculo all’allenamento e vaffanculo Pierre!

Una bella prerogativa che più o meno abbiamo tutti è che il corpo dimentica quello che la mente vuol fargli dimenticare e questo vale anche per le sconfinate morene del Monte Bianco, i ghiacciai, la neve, i sassi, il fiatone e tutte le ansie che mi logoravano durante le salite.
Per me era una bella garanzia di continuità.
Finiva che mi mancavano disperatamente l’odore del granito bagnato, dell’erba pestata dagli scarponi, della neve sulle cenge.
Mi mancavano le pietre sghimbesce che mi scappavano da sotto i piedi sui ghiaioni, mi mancavano tutti i rumori franchi e inequivocabili delle montagne, mi mancavano le paure, le gioie e gli affanni.
Mi mancavano da morire la spossatezza e la gratificazione del ritorno a valle, così come mi mancavano le sere d’attesa prima della partenza e le marce nel buio.
Mi mancava tutta questa ripugnante meraviglia.
Tornavo a sognare, a progettare, a riempire di note il taccuino dei desideri, alcuni ambiziosi e irrealizzabili, altri più ragionevoli e umani.
Si chiudeva così un cerchio mai chiuso, che seguendo una perversa geometria piana, innescava una reazione a catena che non potevo fermare… e tutto ricominciava più forte di prima.

A Pasqua andammo per la prima volta ad arrampicare a Finale perché avevamo sentito che da quelle parti c’era una roccia bellissima e le vie erano tutte splendide.
Oltretutto avevamo un amico che aveva una casa a Final Pia, ce la mise a disposizione per i cinque giorni che avevamo pensato di dedicare a questa bella novità ligure.
Finale è proprio un bel posto, c’ero stato solo una volta da bambino quando con i nonni facevo i quindici giorni canonici di mare nel mese di giugno in una pensioncina a Pietra Ligure.
Non sapevamo nulla di dove si arrampicasse e quali fossero le vie, a parte il “sentito dire” e qualche informazione raffazzonata qua e là tutto restava più o meno avvolto nel mistero.
Avevamo saputo che c’era una cartoleria che faceva le fotocopie di una specie di guida che riassumeva in qualche modo lo scibile delle varie strutture sparpagliate nell’entroterra finalese.
La cartolaia, una donnetta secca secca, ci fece pagare le fotocopie come un tomo miniato dai frati cistercensi, ma almeno avremmo finalmente potuto erudirci in materia scalatoria ligure.
Le strutture, che io ancora chiamavo palestre….manco falesie, erano diverse: Monte Cucco, Bric Pianarella, Rocca di Perti, Rocca di Corno e forse, non ricordo con precisione, Bric del Frate.
Scegliemmo immediatamente Monte Cucco, vuoi per la comodità e vuoi perché all’uscita autostradale di Feglino ci era parsa particolarmente appetibile.
Per la verità fuori dall’autostrada avevamo notato la bella falesia ma ancora non sapevamo come si chiamasse, ecco quindi come in un nanosecondo abbiamo rivalutato la vecchia secca secca e l’esborso astronomico per le fotocopie: la conoscenza non ha prezzo, quello era Monte Cucco e noi ora lo sapevamo… bestiale eh?
Prendemmo subito quattro cazzotti potenti su difficoltà risibili che fratturarono la nostra fiera mascella volitiva da occidentalisti consumati.
Ci facemmo medicare le ossa rotte dalla dura lotta contro il calcare ligure in una birreria di Finalborgo.
Siccome le ferite avevano la tendenza a rimarginarsi con grande difficoltà preferii essere più realista del re e alle birre feci seguire svariate grappe, solo dopo questa terapia intensiva provai del vero e proprio sollievo.
Il giorno seguente andammo a Rocca di Perti alcoolicamente provati ma con una diversa consapevolezza e le cose andarono molto meglio.
Davanti a noi c’era una cordata di due tizi che arrampicavano con gli scarponi, si muovevano davvero bene anche se mi veniva il mal di pancia al pensiero che quel calcare all’apparenza così fragile potesse essere pestato dai rigidones.
Mi aspettavo che da un momento all’altro schizzassero schegge di pietra dappertutto.
Non schizzò nessuna scheggia e quei due erano i fratelli Vaccari che, per onor del vero, conoscevo di nome per le loro salite sul Monte Bianco, manco sapevo che nel finalese avessero lasciato impronte profonde.
Comunque dopo quella Pasqua tornammo a Finale negli anni a venire, da novembre ad aprile quasi tutte le domeniche, sorbendoci le code interminabili al ritorno fino allo svincolo per il passo del Turchino.

Quell’estate in montagna Pierre si trovò miracolosamente una ragazza che lo distolse dalle tentazioni del demone alpestre per risvegliare quelle del demone mediano.
Per me portare la fidanzata in vacanza era come bestemmiare a S. Pietro nella solenne messa di mezzanotte a Natale.
La vacanza è vacanza, un momento da dedicare alle proprie sfacciate necessità: settimane di estremo e barbaro egoismo atto a soddisfare le necessità del fisico e della mente.
Fisico e mente potevano solo ritemprarsi attraverso una ferrea disciplina fatta di dure sregolatezze, difficili da perseguire senza l’energia e la tracotanza giovanile.
In questo ero un vero maestro, ferocemente convinto della mia invulnerabilità, esattamente come Highlander.
Pierre invece era uno tutto di un pezzo: o questo o quello.
Non lo invidiavo ma sotto sotto provavo stima per quel ragazzone così determinato in ogni cosa che faceva.
Io ero uno di quelli che poteva resistere a tutto tranne alle tentazioni, lui invece era come Gesùcristo nel suo peregrinare di quaranta giorni nel deserto, con Satana alle calcagna che gli proponeva ogni meravigliosa porcheria… ma lui no, lui non cedeva e proseguiva determinato per la strada che si era prefissato.
Non posso svelare il nome della sua ragazza di quell’estate (l’unica con la quale lo si sia mai visto), noi crudeli dissacratori da bar Pineta la chiamavamo Topax, la cui radice non trova origine nella preziosa pietra dura di un gradevole giallo fumé, bensì da topo, sorcio, ratto, roditore in genere
Effettivamente Topax era orribile, lo so che non è garbato dire così, purtroppo mi viene difficile usare una forma meno truculenta.
Avevamo coniato il neologismo “cessitudine” e Topax, sulla falsa riga dei super eroi di Stan Lee, era la super eroina che racchiudeva in sé la quintessenza dell’inguardabilità.
Tra le altre cose nessuno di noi è mai riuscito a capire se avesse la vita straordinariamente alta o il culo terribilmente basso, fatto sta che l’insieme era sconcertante.
Pierre impazziva per lei, e al confronto la barista di Prè Saint Didier sembrava Ursula Andress in “Licenza di uccidere”.
La sera si faceva vedere al bar dove tutti ci trovavamo, solo per pochi minuti, giusto il tempo di un caffè e due chiacchiere di circostanza con gli amici, poi quasi facendo finta di niente saliva sulla sua cinquecento gialla per andare a prendere Topax che stava a un paio di chilometri da noi.
Il controspionaggio, sempre puntualissimo in questi frangenti, aveva individuato il luogo dove i due si appartavano praticamente ogni sera.
Ovviamente si pensava andassero in qualche stradetta nei boschi piuttosto che nel piazzale della cava vicino alla Dora che era bello grande, totalmente al buio e abbastanza frequentato dai camporellisti di professione, oltretutto nelle notti di luna si vedeva il Monte Bianco illuminato a giorno: un vero spettacolo nello spettacolo.
Mi sono sempre piaciuti all’inverosimile i romanzi sudamericani, ne avrò letti a decine, alcuni spettacolari altri meno ma tutti rigorosamente iperbolici, spesso surreali, crudi e contraddittoriamente reali.
Ed ora vivevo dentro un libro che avrebbe potuto scrivere Marquez: Pierre e Topax perpetravano la loro lussuria in una chiesetta!!
A dire il vero non era consacrata perché ancora in costruzione, diciamo che mancavano solo le porte e le panche, per il resto era tutto in ordine, altare compreso: una bella lastra di granito pesante come una portaerei appoggiata su tronchi di larice.
Ed era proprio sulla materia minerale tanto cara a Pierre che i due davano libero sfogo a tutte le loro più sfrenate fantasie.
Mioddio, mioddio che visione terribile quella delle chiappe di Topax appoggiate sulla fredda pietra, gemente e avvinghiata a Pierre.
L’orrore non era riferito alla profanazione bensì al totale annullamento di senso estetico, Topax aveva anche una brutta voce, di conseguenza anche i suoi gemiti avrebbero seguito il trend, oltretutto puzzava… terribile, semplicemente terribile.
L’estate delle copule sacrileghe di sacrilego aveva pure la meteo orrenda, pioveva per giorni a fila e quando non pioveva tirava un’aria improponibile.
Al mattino aprivo le imposte della mia camera e le nuvole erano impigliate sui pini appena sopra casa, alla lunga era deprimente, diventava difficile riempire le giornate in maniera accettabile.
Anche le poche falesie, che conoscevamo a memoria, erano fradice e tanto valeva che le giornate di vacanze restanti si spegnessero nella lascivia più totale, così, senza nessuna remora e rumore.

“Per un alpinista è più difficile dover rinunciare che proseguire”
Ecco una delle frasi più idiote che abbia mai letto riguardanti l’alpinismo.
Se faccio mente locale il nostro alpinismo, intendo quello di Pierre e il mio, è stato costellato di rinunce, ripieghi, cambi di meta.
Potrei dire che siamo tornati indietro di lì e poi da là e ancora da questa parte e poi dall’altra, insomma di retromarce ce ne sono state tante e poche di queste attribuibili a un cambio repentino della meteo piuttosto che dalle condizioni della montagna sfavorevoli.
Le rinunce sono un questione conigliesca e quindi, in linea di massima, fatte salve alcune eccezioni, rinunciare l’ho sempre trovato molto più facile che proseguire a tutti i costi.
Il calo motivazionale subiva un tracollo inusitato di fronte all’ansia e all’inevitabile cagotto che provavo ogni qual volta ci si apprestava a fare una cosa impegnativa.
Quindi la nuvoletta all’orizzonte era destinata a tramutarsi in una bufera degna della miglior prosa bonattiana, il pendio di ghiaccio era troppo di ghiaccio e il ghiacciaio sempre troppo ghiacciaio.
La vera sfida stava nel superare questi momenti, attimi in cui sarebbe bastato voltarsi dall’altra parte della montagna per sentirsi sereni, mandando affanculo all’orgoglio occidentalista.
Il gioco delle parti imponeva ai nostri volti espressioni machiste, facevamo a chi ce l’aveva più duro e qui perdevo in partenza: Pierre ce l’aveva fatta con Topax e tanto bastava.

Le previsioni del tempo esposte in bella mostra ogni giorno fuori dalla Società delle Guide di Courmayeur erano sempre piuttosto affidabili, ogni tanto prendevano qualche cantonata inspiegabile, ma in genere ci azzeccavano con buona precisione, per cui le sorprese meteorologiche che avrebbero potuto costringere a un’improvvisa rinuncia in corso d’opera, statisticamente erano pochissime, anzi direi che forse ci è capitato un paio di volte, non di più.
Un’altra cosa invece sono le “famose” condizioni che nelle salite occidentali, in particolar modo sul massiccio del Bianco, potevano fare la differenza.
Le condizioni hanno talmente condizionato gli alpinisti, anche i più famosi e forti, al punto tale da far perdere loro occasioni uniche.
Uno dei casi più eclatanti di “occasioni perdute condizionalmente” è toccato ad Armand Charlet durante la corsa per la prima salita della parete nord delle Grandes Jorasses, una delle tre grandi nord, (le altre due erano la nord del Cervino e la nord dell’Eiger) che nell’epoca dell’alpinismo di conquista era presa d’assalto dalle cordate più forti di quegli anni.
Per chi non lo sapesse Armand Charlet era un fenomeno sul ghiaccio, si difendeva egregiamente anche sulla roccia, ma il misto e appunto il ghiaccio erano il suo terreno congeniale.
Ai suoi anni i ramponi non avevano ancora le punte frontali ed era giocoforza intagliare centinaia di gradini nel ghiaccio per poter proseguire la salita.
Charlet era uno di quelli che di gradini ne tagliava pochi, aveva le caviglie particolarmente snodate e di acciaio inox 18-10, a lui si devono antiche forme di progressione su ghiaccio ripido come il piolet ancre che veniva utilizzato specie in discesa o in traversata.
Era capace di scendere lungo pendii ghiacciati di cinquanta gradi con la faccia a valle…
E’ stato presidente delle Guide di Chamonix per moltissimi anni e indossava rigorosamente la divisa da Guida sempre e in ogni occasione, si racconta che nessuno lo abbia mai visto vestito diversamente.
Era un uomo tutto di un pezzo, poco incline al sorriso, severo con se stesso e ancor di più con gli allievi dei corsi guida.
Il grande René Desmaison lo ebbe come istruttore e non furono poche le ragioni di attrito tra di loro; effettivamente Desmaison era un tantino ribelle sebbene a ragion veduta.
Charlet era l’uomo dell’Aig. Verte che aveva salito decine e decine di volte, aprendovi anche diverse vie lungo i suoi versanti quasi chilometrici e complicati.
Comunque, durante i suoi svariati tentativi lungo lo sperone Croz sulla nord delle Jorasses, era salito molto in alto ma fu sempre costretto a battere in ritirata, vuoi per il maltempo, vuoi per la mancanza di rigelo, vuoi per la gragnuola di sassi che da quelle parti non manca mai.
A un bel momento la fitta concorrenza che assediava la montagna aveva già attaccato la parete, la notizia raggiunse Chamonix e Charlet partì in fretta e furia raggiungendo e superando la cordata di testa sorpresa dall’incursione chamoniarda alle prime luci del mattino mentre ancora bivaccava.
Questa la dice lunga sulla velocità e la conoscenza del terreno di Charlet.
Ed ecco che scatta il meccanismo perverso delle condizioni, la parete era parecchio innevata e faceva un gran freddo, questo garantiva una progressione rapida sul ghiaccio e una relativa certezza che le scariche di sassi, così frequenti su quel versante della montagna, avrebbero concesso una certa tregua; per contro i tratti rocciosi sarebbero stati coperti di vetrato o addirittura di ghiaccio rendendo così la salita decisamente più impegnativa.
Charlet, una volta arrivato ai piedi della sezione rocciosa difficile e certo che nessuno oltre a lui sarebbe stato in grado di procedere su quel terreno così insidioso, guardò verso l’alto con aria decisa ed emise una sentenza inequivocabile come una mannaia: “Rien à faire est tout en glace”
Così girò i tacchi, anzi i ramponi, e scese dalla parete che a suo giudizio non era in condizioni.
Peccato, perché la cordata tedesca sorpresa nel torpore del bivacco, salì lo sperone Croz sulla nord delle Jorasses soffiandola al vecchio Armand e idealmente alla totalità dei locals chamoniardi, tutto questo alla faccia delle condizioni.

Sebbene Pierre ed io messi insieme non valessimo nemmeno l’unghia del mignolo del piede sinistro (in tempi recenti grazie al web ho saputo che non si chiama mignolo ma mellino N.d.A.) di Charlet eravamo condizionati dalle condizioni: troppo secco, troppo ghiaccio, troppa neve, troppi sassi, poco ghiaccio, poca neve, troppi sassi.
Devo dire che di cantonate ne abbiamo prese svariate, abbiamo mancato qualche bella salita in condizioni perfette e fatte altre in condizioni pessime o al limite dell’accettabile, esponendoci a tutti i rischi del caso e dilatando i tempi di salita all’inverosimile.
Abbiamo commesso tutti gli errori possibili e immaginabili, tutelati dal nostro angelo custode che non aveva ali ma un fondoschiena di notevoli proporzioni.

Aiguilles de Chamonix

Se c’è una cosa che mi pesa è proprio quello dei ricordi, già da bambino, che quasi non ne avevo, mi pesavano inverosimilmente.
Ogni attimo vissuto è un atomo della nostra esistenza che se n’è andato da qualche altra parte ed è possibile solo ricordarlo.
Per tenerlo dentro di noi compiutamente avremmo bisogno delle nostre percezioni, imprigionate nei cinque sensi messici a disposizione da Madre Natura.
Mi accorgo che non mi bastano le immagini che la mente ogni tanto mi ripropone, avrei bisogno di sentire gli odori, i suoni e rivedere le luci.
E’ un bel limite questo.
Il mio limite.
Ed è proprio in questo limite che trovo una sconfinata malinconia, un senso di ineffabilità talmente profondo da lasciarmi sfinito ma potentissimamente vivo.

Avevo un carissimo amico poco più grande di me del quale ho perso le tracce da quando è finito in una galera marocchina tanti anni fa.
Era un ragazzo cresciuto per le strade del quartiere Gallaratese, uno di quei rioni della periferia milanese spuntato come un fungo dall’oggi al domani, un posto dai grandi casermoni messi in strade tutte uguali e indistinguibili tra loro.
Aurelio aveva molte qualità e un animo nobile, sfortunatamente la vita con lui non era stata cortese, anzi lo aveva tritato per benino, non tutti nasciamo sotto una buona stella e la sua doveva essere stata una supernova.
Un giorno ha deciso di rischiare e gli è andata male.
Per un breve periodo ci siamo scritti, le sue lettere mi arrivavano con intere frasi cancellate da una pennarellata indelebile nera e ogni volta provavo una stretta al cuore che nel tempo non sono stato più in grado di sostenere.
Non so se sia ancora vivo.
Abbiamo trascorso molte serate assieme in qualche trattoria periferica o stravaccati sulle panchine del parco di Trenno, erano serate speciali e sicuramente psichedeliche nelle quali mi parlava spesso del “muretto”.
Identificava in questo iconico muretto i nostri limiti, poteva essere vicino o lontano, alto o basso, di pietra o di argilla, ma pur sempre un muretto che toglieva parte della visuale, del panorama.
Un ostacolo diametralmente opposto alla siepe tanto cara a Leopardi, sto cazzo di muretto non mi è caro perchè l’orizzonte per me è tutto e non voglio esserne privato.

Da ragazzino andavo a fare lunghe camminate con un manipolo di coetanei e al ritorno mi piaceva essere l’ultimo della fila, adoravo camminare sopra il limite della vegetazione mentre il sole era sceso dietro qualche crinale e tutto precipitava in una luce che quasi cambiava i suoni.
In pochi istanti mutava ogni cosa, le montagne diventavano autorevoli e austere, l’aria improvvisamente si faceva fredda e una specie di silenzio immaginario si impadroniva del panorama.
Essere l’ultimo della fila mi consentiva ancora per un fugace istante di essere parte di quel orizzonte al quale ero appartenuto sino al passo precedente, sbirciavo dietro le spalle facendo attenzione a non inciampare. intravvedevo le cinghie dello zaino pieno di niente se non del giovanissimo me stesso, che forse da grande, avrebbe nuovamente camminato per quei sentieri e ritornando in un futuribile futuro sui medesimi passi si sarebbe rivisto come cristallizzato in quel attimo preciso: diverso nelle sembianze ma immutato nell’animo, indipendentemente da tutte le prove alle quali la vita lo avrebbe sottoposto.
Spudoratamente, dopo così tanto tempo e dopo tutte quelle prove mi sento di dire che è proprio così.

Quel giorno in cui avrei voluto essere un lichene veniva dopo tanti anni che non vedevo Pierre, le nostre strade erano state in qualche modo separate dagli accadimenti della vita.
Eravamo sulla cresta Rayan all’Aig. Du Plan, andatevi a leggere la relazione fatta di quarti gradi chamoniardi.
Mi sembrava di essere lì da secoli, la cima non arrivava mai, la scalata rude e faticosa mi aveva spossato e pensavo a chissà che ora saremmo riusciti a scendere per il complicato ghiacciaio dell’Enverse du Plan.
Gli anni si facevano sentire, non è vero che il tempo è galantuomo, il tempo è il tempo e basta, lascia i suoi segni, anche se per autodifesa ci fa comodo far finta di niente, ma alla fine ti presenta sempre il conto.
E’ potentissimo.

Arrivo da Pierre in sosta, sopra c’è una lunga fessura in mezzo a una specie di diedro grigio: la “fissure del la grand mère”…..anche questa secondo lo stile chamoniardo di quarto grado.
Mi guarda con occhi incoraggianti porgendomi la corda.
Vado.
Vorrei che andasse lui.
Gli occhi sono sempre più incoraggianti.
Sono scoraggiato ma parto.

Il sole ci sta lasciando quando Pierre mi raggiunge.
– Très jolie passage Davide!
Il suo volto raggiante, la sua voce spezzata dal fiatone, la luce di quel preciso istante per qualche ragione hanno rappresentato ogni appiglio stretto, ogni ramponata, ogni passo, ogni ansia e ogni gioia condivisa sulle montagne della nostra vita.
Nulla di più inutile, ma altrettanto inutilmente indispensabile.
Talvolta ci nutriamo di inutilità, ne abbiamo bisogno.

Siamo come la creatura del dottor Frankenstein, fatti di tanti pezzi di vita messi assieme: la nostra e quella di tutti coloro che abbiamo incontrato.
Quindi il mostro non esiste e anche se ci fosse sarebbe bellissimo.
Siamo tutti bellissimi.

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