di Chiara Baù
(pubblicato su imperialbulldog.com l’11 febbraio 2020)
Fotografie di Chiara Baù
Passo di Lavazè, Trentino Alto Adige. Mi trovo su questo valico alpino, a 1800 metri di quota, nel territorio del comune di Varena in provincia di Trento.
Lo scenario è quello di una favola, i protagonisti anche. Un altipiano ancora in parte sconosciuto al ciclone turistico che contamina le piste da sci nella stagione invernale. Le uniche forme di turismo presenti sono quelle dello sci da fondo e delle racchette da neve, sport che armonizzano perfettamente il silenzio interiore con quello della natura circostante.
I massicci dello Sciliar, del Latemàr e del Catinaccio sono i gruppi montuosi Dolomitici che fanno da cornice a questo esteso altipiano, la cui suggestiva bellezza riporta ai paesaggi sconfinati del Canada e dell´Alaska.
In agosto il profondo silenzio di questo vasto pianoro è stato interrotto dal clamore suscitato dalla presenza dell´orso più famoso d´Italia, codice M49, fuggito dal recinto elettrificato del Castellier in Val Rendena. Il ricercato numero uno del Trentino era stato catturatodal personale forestale della Provincia Autonoma di Trento, alle porte della Val Rendena, con un’apposita trappola-tubo, ma una volta trasferito, è stato protagonista di un’inarrestabile fuga.
Al Ministero dell’Ambiente lo chiamano Papillon perché, come il protagonista del film omonimo, ricorda un personaggio che affrontando numerosi tentativi di fuga, mira soltanto a riconquistare la libertà. Esplorando questi luoghi si può capire come mai Papillon abbia deciso di girovagare qualche giorno nei boschi del Passo di Lavazè. La ricerca di libertà si concilia con l´atmosfera incontaminata che qui si respira. Il passaggio dell´orso conferisce al territorio un valore che mi piace definire quasi sacro come se la sua presenza, pur temporanea, rendesse quel bosco immune al tempo.
Ma forse il suo passaggio in questa zona assume anche un altro significato. I boschi che M49 ha percorso sono stati feriti dalla tempesta Vaia che un anno fa ha distrutto con la potenza del vento buona parte delle foreste del Nord Italia. Quel giorno i boschi sono stati abbattuti da un vento che soffiava e turbinava quasi alla velocità di 200 km orari. Tutto è stato stravolto.
Ad un anno dalla tempesta, molti alberi giacciono stesi sul terreno, nonostante l´impegno assiduo della comunità forestale per salvaguardare l´economia di valle basata sull’attività boschiva di produzione del legname.
Come stuzzicadenti o birilli stesi sul terreno giacciono migliaia di alberi: un´immagine che suscita un´immensa tristezza, una malinconia inaudita. Gli alberi sono per antonomasia simboli di forza e regalità. Vederli accasciati sul terreno è impressionante. Parlo con i pochi abitanti del luogo ancora scioccati da questa catastrofe naturale. Eventi di tale imponenza hanno imposto un nuovo dialogo con la natura.
Tutto ciò mi rimanda alla devastazione di Chernobyl. Sono trascorsi trent´anni dal maggior disastro nucleare della storia e la zona altamente contaminata si è trasformata in una riserva di animali selvatici. L´ingegnere capo della zona di esclusione, Denis Vishnevskij, spiega che da quando la gente ha abbandonato la località, la natura è tornata. Un´incredibile biodiversità si è ricostituita. Probabilmente gli animali hanno un´aspettativa di vita inferiore e un tasso di riproduzione ridotto per gli effetti delle radiazioni, ma il loro numero e la loro varietà sono aumentati a un ritmo senza precedenti. Alcune specie, come i piccioni, legate ai rifiuti abbandonati dall’uomo, sono sparite, ma nel contempo sono ricomparse specie indigene che avevano arricchito la flora lussureggiante prima della catastrofe, come lupi, orsi e linci. La natura è più forte dell´uomo e sa ridare poesia a un luogo di dolore.
Anche al Passo di Lavazè il paesaggio è mutato. L’incontro con alberi riversi considerati ormai morti si rivela poetico. Sono ancora creature del bosco. Nonostante l´aspetto tragico e inumano, tento di trovare un accenno di bellezza in questo spettacolo. Nasce una specie di pura condivisione con il dolore provocato dalla furia della tempesta. Una condivisone tra me e i restanti alberi del bosco, mentre sugli sci da fondo percorro in silenzio, sulla coltre bianca, le lunghe tracce della pista costituite da due semplici binari, null´altro. Una sorta di arteria che con delicatezza attraversa le distese infinite di boschi secolari.
Ma la vita nella penombra del bosco si sta già riorganizzando, proprio come a Chernobyl.
Ogni tronco abbattuto sembra dormire. La maestosità che caratterizza ogni singolo albero si è trasformata in uno stato latente che dalla sensazione di morte si traduce in dolcezza apparente.
Il Corpo Forestale sta a fatica lavorando per liberare il bosco da tutti questi alberi dormienti, impilandoli con gran rigore e meticolosità. Così mentre proseguo il percorso con gli sci sulla distesa innevata scorgo a destra e a sinistra cumuli di tronchi pronti a essere trasportati lontano per trasformarsi in mobili preziosi, legna da ardere o chissà forse a ridare vita a tanti giocattoli, burattini, forse tanti pinocchio.
Ammassi di tronchi riversi sul terreno gelato, come me osservatori dei tempi e dell’evolversi della natura, ma mentre io mi sposto sugli sci, loro rimangono spettatori immobili come se un loro cuore di legno non cessasse di battere. Cumuli di tronchi che prima di essere trasferiti a valle assistono alle luci del mattino e a quelle del tramonto, percepiscono la voce del vento, la morbidezza della neve, ogni tronco una storia. Pare vogliano assorbire nelle viscere spezzate tutto il silenzio che avvolge il Passo di Lavazè e le montagne intorno che con discrezione abbracciano quelle innumerevoli maestose cataste di legno.
Ritrovo un´insolita bellezza anche nella forza dei pochi pini, abeti, larici sopravvissuti che con grande dignità svettano contro il cielo. Ogni albero ha una resistenza diversa, sia per le radici più profonde, la qualità del legno, l´età. Diversi fattori, la cui combinazione ha consentito di sopravvivere. Li osservo con curiosità: sembrano guardare con affetto gli alberi riversi sul terreno in una continua condivisione tra morte e bellezza.
Proseguo a sciare sulla pista, adeguando il respiro a quello del bosco, tutto sembra uniformarsi. Con occhi diversi scruto la ripresa della vita nella foresta. Il biancore della neve dà risalto ai chiaroscuri dei tronchi.
Ai margini della pista l´albero più diffuso è l´abete rosso e sono proprio i fragili alberelli nati da poco ad abbracciare in perfetto contorno la traccia che sto percorrendo. Il punto debole delle conifere purtroppo è costituito dagli aghi. L’inverno, quest’anno, è iniziato in modo difficoltoso per le foreste della regione dolomitica. Una consistente nevicata ha sorpreso in autunno la natura con un’imprevista e copiosa abbondanza di neve.
Il Corpo Forestale ha dovuto persino ricorrere all´impiego degli elicotteri che col movimento rotatorio delle pale ha potuto rimuovere l’ingente quantità di neve accumulata sui rami degli alberi, evitando che si spezzassero per il troppo peso. E se da un lato è vero che la natura ci aiuta, anche noi abbiamo il dovere di aiutarla a sopravvivere.
L´abete rosso può vivere fino a 500 anni, non ha fretta di diventare grande, e raggiunge l’altezza di una cinquantina di metri, massima elevazione per quest´albero, in pratica paragonabile a quella di un palazzo di 15 piani.
Il primo anno, spiegano i forestali, la crescita dell´abete si arresta a cinque centimetri, tanto che i suoi nemici più pericolosi, oltre al gelo invernale, sono le masse di fili d´erba che possono fargli ombra eccessiva e soffocarlo. Il secondo anno l´abete rosso può arrivare a dieci centimetri, ma la sua esistenza è sempre precaria in quanto dotato ancora di piccole radici.
Il suo accrescimento è lento e lo osservo con ammirazione mentre mi godo l´atmosfera del bosco ferito, ma non privo d’incanto.
Sono al quarantesimo chilometro di percorso sugli sci. Diverse sensazioni si susseguono con lo scorrere del tempo. Mi sembra doveroso far fatica in un bosco tanto segnato dalla tempesta, ma è pur sempre un privilegio attraversarlo e posso ripagare tanta bellezza solo con il sudore e il silenzio. Una sorta di dovere alla memoria. Una favola d´inverno dove morte e bellezza sono protagonisti inseparabili.
Il bosco sembra pietrificato. Mi fermo qualche attimo per riprendere le forze. Le briciole del panino sfilato dallo zaino richiamano un gruppo di cinciallegre che a tempo zero si avvicinano. Per qualche istante la voce silenziosa del bosco riacquista nuova vita con quel gioioso cinguettio. La presenza delle cince, uccellini tanto minuti quanto forti e resistenti, nel breve contatto con l´uomo trovano sostegno in poche briciole, cadute casualmente da un pezzo di pane. E´ tutto il giorno che scio sola sull’altipiano del Lavazè e mi fa piacere incontrare dei piccoli amici che col loro cinguettio riempiono la mia solitudine e infondono vivacità e allegria al bosco silenzioso.
Nonostante l´ingegner Vishnevskij di Chernobyl, esperto zoologo, sostenga che la presenza umana sia più dannosa per gli animali selvatici che non l’effetto delle radiazioni, l’incontro con le cince, come del resto quelli precedenti con l’orso, mi fa ben sperare, considerando positivo nel controverso rapporto uomo-natura il sostegno di un pugno di briciole ad uccellini che potrebbero morire di fame.
Consumate le briciole, questi vivaci uccellini si piroettano verso il bosco di conifere, dove possono scovare minuscoli insetti che svernano tra le crepe della corteccia, negli anfratti di larici e pini.
Le cince appartengono alla famiglia dei paridi, uccelli passeriformi di piccole dimensioni, insettivori, che non pesano più di 30 g e nidificano per lo più negli incavi degli alberi. La loro socialità è proverbiale, oltre che con specie di cince diverse si associano anche con regoli, picchi muratori, rampichini alpestri. Nonostante l’aspetto leggero e gentile, un tratto inconfondibile di questa specie è la spiccata voracità; la cincia, infatti, si ciba prevalentemente d’insetti, ma continua ad ucciderne anche quando è sazia rivelando abitudini predatorie del tutto particolari. E’ comunque anche un uccello previdente e quando il cibo abbonda, lo accantona in riserve speciali per i giorni di magra.
Nella gelida foresta boreale del Canada è una piccola cincia(Parus atricapillus) che a una temperatura inferiore a 30 gradi cessa di alzarsi in volo e alimentarsi, poiché la ricerca del nutrimento potrebbe comportare un consumo di energia superiore a quella generata dal cibo ingerito. In condizioni di freddo estremo questo piccolo passeriforme si tuffa nella neve fresca, creando un’intercapedine in grado di generare una temperatura relativamente più elevata e assicurando in tal modo la sopravvivenza ai rigori invernali.
Alcuni uccelli invece, come il pettirosso, arrivano a rabbrividire soprattutto durante la notte per aumentare il calore del corpo. Il tremore causato dal brivido di freddo accelera il metabolismo e genera spontaneamente calore. Purtroppo non è questa una strategia che funziona a lungo e soprattutto richiede l’apporto di molte calorie che vanno reintegrate col cibo.
Questo genere di tremore è quello che noi chiamiamo comunemente pelle d´oca, uno stratagemma che anche il nostro corpo possiede quale accorgimento per combattere il freddo. Infatti quando si ha freddo i muscoli erettori della pelle fanno alzare i peli e contemporaneamente le ghiandole sudorifere e i vasi sanguigni si rimpiccioliscono al massimo per non disperdere calore.
Fortunatamente le temperature nei boschi del Passo di Lavazè non sono così rigide, dandomi la possibilità di godere per qualche tempo della compagnia e vivacità di questi amabili uccellini. Sembrano essere gli unici abitanti del bosco. Più silenziosi e nascosti le pernici e i caprioli, di cui si scorgono comunque chiare tracce sul manto nevoso.
Avanzo sciando nel modo più silenzioso possibile, secondo la tecnica classica dello sci da fondo, non uno sport ma un´arte da riscoprire, con un proprio codice, che prevede movimenti ben coordinati in base a una sorta di protocollo per risparmiare energia proprio come gli animali d´inverno. Si tratta di uno dei primi mezzi di deambulazione utilizzato dall´uomo per spostarsi sulle distese di neve e ghiaccio. Sembra incredibile, ma non dimentichiamoci che gli sci sono stati inventati almeno un migliaio di anni prima della ruota, addirittura pare che in Lapponia siano stati impiegati attorno all’anno 5000 a. C.
Le cince si sono allontanate con volteggi e piroette verso larici e pini. I caprioli incuranti della mia presenza stanno probabilmente raggiungendo la greppia collocata dai boscaioli in un’apposita radura dove potranno trovare fieno abbondante per rifocillarsi.
Il passaggio sull’altipiano dell’orso impegnato come i pochi alberi rimasti a lottare più accanitamente per la vita, ha conferito un significato più profondo alla sopravvivenza della foresta. Ancora una volta la strada dell´orso si è incrociata con la mia. Non ci siamo incontrati, ma abbiamo condiviso lo stesso territorio ferito. Seguire il suo passaggio mi ha dato la possibilità di scoprire nuovi segreti nell’imperscrutabile mondo della natura. Non potevo chiedere di meglio che vivere una favola d’inverno.