Alpinismo e giornalismo in Italia – 1

Alpinismo e giornalismo in Italia – 1
di Sofia Parisi
(Tesi di laurea di Sofia Parisi, Matricola 871338, Anno Accademico 2016–2017, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Studi Umanistici, Corso di Laurea in Lettere Moderne. Relatore: Prof.ssa Ada Gigli Marchetti; correlatore: Prof.ssa Maria Luisa Betri)

Introduzione
L’alpinismo, per definizione, è l’attività che prevede l’ascesa delle montagne da parte di uomini e donne. Tale definizione è però estremamente essenziale e non riesce a comprendere tutte quelle sfaccettature che l’attività alpinistica sa esprimere. Si dovrebbe iniziare dall’obiettivo che perseguono queste persone: raggiungere una vetta a che scopo? Si potrebbe continuare con le modalità attraverso cui viene praticato l’alpinismo: se, come, e perché attrezzarsi per l’impresa? Si scoprirebbe così che dietro alla mera scalata di una montagna, esiste un’infinità di questioni concrete sì, ma anche astratte, filosofiche ed etiche, che fanno dell’alpinismo una delle attività apparentemente ludiche che più rappresenta la specie umana nei propri istinti e nelle proprie tensioni, mediati dalla ragione, dal pensiero e dalla capacità di organizzarsi con il desiderio di raggiungere un obiettivo, in questo caso appunto, una vetta. Bisogna inoltre osservare che l’attività della scalata rappresenta da sempre un’esperienza intensa, sia per l’aspetto della difficoltà fisica, che costringe l’uomo a conoscersi nel profondo e a superarsi, sia per le caratteristiche dell’ambiente in cui si svolge, uno scenario selvaggio, severo e maestoso al tempo stesso, in cui vengono destati pensieri ed emozioni di grande intensità.

Proprio questa capacità dell’alpinismo di stimolare in modo estremo alcuni aspetti umani ha fatto sì che le imprese alpinistiche e gli uomini che ne sono stati protagonisti da sempre hanno sentito il bisogno raccontarsi ed essere raccontati, non solo dal punto di vista delle avventure personali, né esclusivamente da quello delle conquiste dell’intero genere umano, ma soprattutto da quello della crescita spirituale, culturale e umana. È per questo che accanto ad una storia dell’alpinismo, si può tracciare una storia di come quest’attività, sport o passione, che dir si voglia, sia stata raccontata ad un pubblico. Una storia del giornalismo che si è occupato di alpinismo non può prescindere dalla storia stessa dell’alpinismo, che verrà esposta nella premessa storica di questa tesi. Nel corpo centrale dell’elaborato viene presentata una panoramica storica delle testate che si sono occupate di alpinismo e di montagna.

I periodici analizzati sono stati selezionati in base alla loro specializzazione nel campo dell’informazione sulla montagna intesa come terreno di ascesa, impresa, scoperta, avventura. Sono perciò state evitate le riviste che si sono dedicate esplicitamente ad altri aspetti della montagna (antropologici, politico-economici, turistici). Non sono state oggetto della ricerca le pagine dei quotidiani dedicate alla montagna, né le presenze sporadiche dell’argomento alpinistico sui giornali generalisti. Una parte importante del materiale da me elaborato per la tesi è derivato da una serie di interviste effettuate personalmente a persone che hanno fatto parte o tutt’ora sono inseriti, con ruoli diversi, nel mondo del giornalismo di alpinismo e di montagna.

Nel primo capitolo dell’elaborato vengono presentate le testate pubblicate dalla fine dell’Ottocento al Secondo Dopoguerra: la prima ad essere analizzata è la stampa sociale del Club Alpino Italiano, la cui storia inizia nel 1864 e prosegue fino ad oggi. Successivamente sono esaminate altre riviste pubblicate tra l’inizio del Novecento e gli anni Cinquanta. Queste riviste, di cui sfortunatamente non si sono conservati che alcuni esempi, hanno, tra le altre caratteristiche, la particolarità di testimoniare le influenze che ebbe il regime fascista in questo settore del giornalismo, sul giornalismo in generale e sul mondo dello sport.

Il secondo capitolo della mia tesi presenta la nascita e lo sviluppo delle riviste che sono sorte dagli anni Sessanta agli anni Ottanta: in questo periodo, l’aumento del pubblico interessato alle discipline legate alla montagna, e i movimenti del Sessantotto, portatori di un nuovo clima di indipendenza ed intraprendenza del mondo giovanile, hanno favorito la nascita di due riviste in particolare. La prima è stata «Rassegna Alpina», edita a Milano dal 1967 al 1974. La successiva e più fortunata è stata invece «La Rivista della Montagna», nata nel 1970 e destinata a pubblicare fino agli anni Duemila, per poi essere assorbita da una rivista più giovane nata nel 1895, «ALP». Risultato del lavoro di gruppi di giovani intellettuali e amanti della montagna in tutte le sue forme, «Rassegna Alpina», «La Rivista della Montagna» e «ALP» hanno rappresentato la prima stampa specializzata dedicata a questo mondo, e la loro storia ci porta dal periodo di massima diffusione delle riviste, fino al cambiamento avvenuto alla fine degli anni Novanta, con l’avvento dell’on-line e la crisi di quasi tutto il settore della carta stampata.

Nel terzo capitolo dell’elaborato, l’analisi si è concentrata sul panorama attuale: all’interno di una generale tensione alla settorializzazione del mondo della montagna, e alla conseguente specializzazione nel giornalismo che se ne occupa, si è osservata l’esistenza di alcune riviste cartacee, dalle identità ben definite, grazie alle peculiari caratteristiche e scelte editoriali di ciascuna. Dall’altra parte si è analizzato il mondo delle testate on-line, che ha iniziato la propria ascesa a metà degli anni Novanta, e nel corso di pochi decenni ha subito molti cambiamenti, in particolar modo negli ultimi cinque anni, con l’avvento di social network e smartphone, portatori di un vero e proprio stravolgimento nel mondo dell’informazione in generale.

Figura 1 «Peaks, Passes and Glaciers», volume I, 1859.

Premessa
Le origini dell’alpinismo
È profondamente insito nella natura dell’uomo il desiderio non solo di esplorare il territorio che lo circonda, ma ancora più di conoscerlo così bene da poterlo dominare e gestire, senza alcuna paura. La paura è anch’essa alla base degli istinti umani, ed è provocata dalla mancanza di conoscenza, dalla sensazione di non avere ogni cosa perfettamente sotto controllo. È l’alternarsi di queste due tensioni dell’essere che porta l’uomo alla scoperta di aree territoriali ignote, con il desiderio di scoprire, insieme al timore di non essere sufficientemente pronto ad affrontare quel qualcosa che non conosce. L’attività di esplorazione, superato il timore iniziale, dà all’essere umano la possibilità di mettersi alla prova e di vincere i propri limiti, di sentirsi più forte e soddisfatto della propria impresa: piccola o grande che sia si tratterà sempre, in ogni epoca e in ogni luogo, di un proprio personale passo in avanti.

Escludendo le esperienze di ascesa con finalità militari o di accessibilità e ricerca di valichi per il transito di merci e persone già dell’epoca antica greco-romana, si arriva rapidamente ad alcuni episodi storici che, nonostante siano considerati estranei all’esperienza alpinistica perché mancanti di consapevolezza ed intenzione, vengono raccontati ed inseriti in ogni trattazione storica relativa all’attività alpinistica. Sono casi che precedono il vero alpinismo ma che ne esprimono già alcune caratteristiche: in particolare, come scalata effettuata per puro piacere e con cosciente e forte sentimento, viene citata l’ascesa di Francesco Petrarca al Mont Ventoux 1912 m datata 1336. L’esperienza del poeta, fatta insieme al fratello, viene raccontata in una lettera, in latino, indirizzata all’amico Dionigi di Borgo San Sepolcro, ed è raccolta nelle lettere “Familiares”. Nel 1358 è invece Bonifacio Rotario d’Asti a raggiungere la vetta del monte Rocciamelone 3557 m: da crociato era infatti stato rapito dai turchi, e aveva invocato la Madonna per la sua liberazione, promettendo che avrebbe portando in cima al monte più alto delle Alpi un trittico della Vergine, e così pensò di fare. Altra scalata che precede in modo emblematico la stagione del vero alpinismo è considerata quella effettuata da Antoine de la Ville nel 1492, per riuscire a dominare il Mont Aiguille, “torre rocciosa di aspetto vertiginoso e tipicamente dolomitico” (1) nel massiccio calcareo del Vercors, su ordine di re Carlo VIII. Per questa impresa vennero utilizzate delle attrezzature simili a quelle usate negli assedi militari (corde, scale, arpioni), e fu coinvolto un ingente numero di persone.

Oltre a questi casi emblematici ma sporadici, e a tratti leggendari, le montagne furono anche e soprattutto il territorio di chi vi nasceva e cresceva, di chi vi sapeva vivere durante tutto l’anno, e di chi le esplorava per sopravvivere cacciando, o cercando cristalli. Furono i valligiani coloro che sicuramente più degli altri frequentarono le valli e si avvicinarono significativamente alle quote più alte, senza però mai sentire la necessità di raggiungere le vette. Non c’era alcun motivo che spingeva costoro a portarsi oltre, rischiando la propria vita e consci del fatto non avrebbero trovato nulla di utile. Fu il Settecento, con l’Illuminismo e il sorgere di un bisogno di ricerca e di conoscenza, a smuovere l’interesse degli intellettuali e degli studiosi verso le montagne.
Forte del suo pensiero razionale, logico e matematico, l’uomo di studio dell’epoca si sente in grado di avventurarsi in ogni ramo del sapere, senza stupide paure inconsce e senza inibizioni di sorta (…). L’uomo del diciottesimo secolo poteva anche accingersi alla scoperta e conquista delle Alpi (2)”.

(1) Motti G.P. “La storia dell’alpinismo. Introduzione e aggiornamento di Enrico Camanni”. Scarmagno, Priuli & Verlucca, 2013, p. 46.
(2) Motti G.P. “La storia dell’alpinismo. Introduzione e aggiornamento di Enrico Camanni”. Scarmagno, Priuli & Verlucca, 2013, p. 47.

Precursori culturali dello spirito alpinistico, che prevede oltre alla fatica anche il piacere di scalare e di esplorare valli e monti, furono personaggi come Conrad Gesner (Zurigo, 1516 – Zurigo, 1565), scienziato svizzero, studioso di scienze naturali che attorno al 1550 nel suo scritto “De montium admiratione” tratta dell’ambiente montano come di un luogo adatto sia alla “soddisfazione di un ottimo esercizio fisico e di un arricchimento spirituale” (3). Successivo a Conrad Gesner, a lui vicino per la passione per l’escursionismo finalizzata a ricerche naturalistiche di cristalli e fossili, fu lo svizzero Johan Jakob Scheuchzer (Zurigo, 1672 – Zurigo, 1733). Tramite i resoconti e i racconti di uomini di scienze come costoro, l’interesse per l’ambiente alpino aumentò notevolmente, stimolando nuovi frequentatori delle Alpi mossi dal desiderio di scoprirle e studiarle scientificamente, per poi giungere successivamente ad un puro interesse e piacere personale di esplorazione.

(3) Motti G.P. “La storia dell’alpinismo. Introduzione e aggiornamento di Enrico Camanni”. Scarmagno, Priuli & Verlucca, 2013, p. 68.

L’ascensione che unanimemente è considerata all’origine dell’alpinismo è quella del monte più alto d’Europa, il Monte Bianco (4.810 metri), situato tra Francia, Italia e Svizzera: fu proprio il desiderio di compiere studi ed esperimenti, principalmente su pressione e temperatura, a spingere il ginevrino Horace-Bénédict de Saussure, professore universitario, intellettuale e naturalista, a recarsi a Chamonix e a mettere in palio una grossa somma di denaro per chi fosse stato in grado di trovare una via per raggiungere la vetta del Monte Bianco. Dal 1760 al 1796 vari furono i tentativi, finché l’8 agosto 1796 dopo quattordici ore di escursione, il giovane medico Michel Gabriel Paccard e Jacques Balmat, cacciatore e cercatore di cristalli, entrambi di Chamonix, riuscirono a raggiungere la quota di 4.810 metri sul livello del mare, e a tornare in paese.

Il periodo compreso tra il 1796 e il 1865, anno in cui le due cordate, una da Valtournanche, guidata dall’abate Carrel, l’altra da Zermatt, guidata dall’alpinista inglese Whymper, raggiungono a distanza di due giorni l’una dall’alta la vetta del Cervino, viene considerato l’epoca d’oro della conquista: si tratta infatti del periodo in cui i primi alpinisti e le prime guide s’impegnarono incessantemente e con un nuovo spirito meno scientifico e più d’avventura per raggiungere tutte le maggiori vette delle Alpi.

Ad organizzare le imprese con entusiasmo furono principalmente gli stranieri e in particolare gli inglesi, i quali, grazie alle agiate condizioni economiche del loro paese tra fine Settecento e inizio Ottocento erano gli unici a potersi permettere lunghi soggiorni sulle Alpi, e a poter pagare portatori e guide del posto per avere maggior sicurezza e conoscenza del territorio.

È proprio in questo periodo che nacque il binomio alpinista-guida, dapprima nei termini di un rapporto di clientela, poi sempre più come volontaria unione di diverse forze con un obiettivo comune: è infatti la mentalità “cittadina” a sentire per prima il desiderio di scoprire e raggiungere le terre alte inesplorate. Ma senza il supporto e il sapere pratico di chi tra le montagne era nato e cresciuto, e conosceva alla perfezione le proprie valli, sarebbe stato impossibile, certo molto più complicato e rischioso, muoversi in quei territori tanto affascinanti quanto insidiosi.

Ma appunto, furono i nobili e i borghesi inglesi ad appassionarsi tanto alle Alpi, da dedicare alla loro esplorazione risorse ed energie: i cognomi delle nobili famiglie inglesi coinvolte furono “i Freshfield, i Tuckett, i Moore, i Walker, i Matthews” (4). I nomi delle guide più importanti che accompagnarono gli alpinisti inglesi furono Michel August Croz di Chamonix, Melchior Anderegg di Grimsel e gli Almer di Grindelwald.

(4) Motti G.P. “La storia dell’alpinismo. Introduzione e aggiornamento di Enrico Camanni”. Scarmagno, Priuli & Verlucca, 2013, pp. 91-92.

Tra tutti gli alpinisti inglesi che si dedicarono alla scalata delle vette in questo primo periodo la figura di maggior spicco fu certamente quella di Edward Whymper, protagonista di numerose prime scalate: non ancora venticinquenne infatti era già riuscito a raggiungere la vetta della Barre des Écrins 4102 m, nel Delfinato, e a conquistare una delle punte delle Grandes Jorasses, chiamata poi Punta Whymper 4184 m e l’Aiguille Verte 4121 m. Coronò la sua carriera alpinistica nel 1865 raggiungendo l’inviolata vetta del Cervino: questa ascesa è celebre soprattutto per la corsa alla vetta, contesa dalla cordata di Whymper e da quella italiana capitanata da Jean-Antoine Carrel di Valtournanche. Il successo della cordata dell’alpinista inglese fu però oscurato dalla tragedia che seguì l’arrivo in vetta: per un incidente in cui si spezzò la corda, quattro dei sette elementi che componevano in gruppo persero la vita proprio tra i dirupi di quel Cervino che avevano appena scalato.

Questo costante e frequente movimento di ascese e conquiste, ma soprattutto la risonanza che ebbero incidenti e tragedie come quella del Cervino, con le relative polemiche contro il gusto del rischio di questi appassionati d’alpinismo, non fecero altro che rendere la pratica più conosciuta e sempre più diffusa in tutta Europa.

La nascita dei club alpini
Il 22 dicembre 1857 nacque l’Alpine Club di Londra, primo club alpino nel mondo, fondato da alpinisti inglesi. Conseguentemente alla comparsa dei sodalizi, è possibile iniziare a parlare della nascita delle prime pubblicazioni che si occupavano esclusivamente di alpinismo e più genericamente di montagna. Infatti, prima dell’avvento dei club non si ha testimonianza di alcuna rivista o pagina dedicata alla montagna. Gli avvenimenti che si verificavano nelle “terre alte” venivano certamente raccontati sulle pagine dei quotidiani, specialmente quando si trattava di tragedie o di conquiste importanti. L’esistenza di un ente riconosciuto, con un gruppo di soci ufficialmente iscritti che ne facevano parte, portò alla necessità di pubblicare una rivista che periodicamente aggiornasse gli appartenenti al Club riguardo alle nuove ascensioni effettuate, a eventi e riunioni programmati, all’andamento e agli sviluppi dei progetti del Club, e che inoltre fungesse da guida per scalate ed escursioni da scegliere ed effettuare su indicazione dei membri del Club.

Le associazioni alpinistiche come il Club Alpino Italiano ebbero il ruolo di socializzare la pratica alpinistica e, complice l’avanzata del nazionalismo alla fine del XIX secolo, di trasformarla in un’attività di massa (5)”.

(5) Zannini A. “Prima dei Club” in Aldo Audisio e Alessandro Pastore (a cura di) “CAI 150, 1863-2013: il libro.” Torino, Club Alpino Italiano, 2013, p. 153.

L’Alpine Club uscì già nel 1857 con la rivista «Peaks, Passes and Glaciers», che dal marzo 1863 si trasformò nell’«Alpine Journal»: si trattò sicuramente della prima rivista specializzata d’alpinismo, scritta da alcuni soci del Club per gli altri soci, e in cui fosse possibile trovare non solo racconti di escursioni e spedizioni, ma anche mappe e tabelle meteorologiche.

Fu a questo club e a questa rivista che probabilmente si ispirarono negli anni successivi i club degli altri paesi europei: il 19 novembre 1862 nacque quello austriaco, l’Österreichischer Alpenverein e, l’anno seguente, lo svizzero, lo Schweizer Alpen-Club, fondato a Olten il 19 aprile 1863, ed il Club Alpino Italiano.

A Londra si è fatto un Club Alpino, cioè di persone che spendono qualche settimana dell’anno a salire le Alpi, le nostre Alpi! Ivi si hanno tutti i libri e le memorie desiderabili; ivi strumenti tra di loro paragonati con cui si possono fare sulle nostre cime delle osservazioni comparabili: ivi si leggono descrizioni di ogni salita; ivi si conviene per parlare della bellezza incomparabile dei nostri monti e per ragionare sulle osservazioni scientifiche che furono fatte o sono a farsi […]; ivi si ha insomma potentissimo incentivo non solo al tentare nuove salite, al superare difficoltà non ancora vinte, ma all’osservare quei fatti di cui la scienza difetti. […] Ora non si potrebbe fare qualcosa di simile da noi?” (6)

La data ufficiale della fondazione del Club Alpino Italiano è il 23 ottobre 1863, ma la storia che precede questo momento è quella della prima ascesa al Monviso da parte di una cordata di alpinisti italiani: ideata e compiuta da Quintino Sella insieme ai fratelli Paolo e Giacomo di Saint Robert, e a Giovanni Baracco il 12 agosto 1863, la conquista della montagna simbolo della città di Torino generò un entusiasmo tale da portare alla fondazione del Club.

È istituita in Torino una Società sotto il titolo di Club Alpino. Il Club Alpino ha per iscopo di far conoscere le Montagne più specialmente le italiane, e di agevolarvi le escursioni, e salite, e le esplorazioni scientifiche (7)”.

(6) Sella Q. “Lettera del comm. Q. Sella a B. Gastaldi” in «Giornale delle Alpi», numero 1, anno 1864.
(7) Articoli 1 e 2 in “Statuto ed elenco dei soci”, Torino, 1863. Documento conservato alla Biblioteca Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi, Torino.

È una missione principalmente educativa ed etica quella che sta alla base delle idee e delle azioni di Quintino Sella (Sella di Mosso 1827 – Biella 1884), politico italiano appartenente all’organico del governo Sabaudo, ma anche scienziato e appassionato di mineralogia: di formazione scientifica, conseguì una prima laurea in ingegneria idraulica a Torino nel 1847; nel 1951 a Parigi portò a termine gli studi di mineralogia, e fu grazie a questi che poté maturare un’esperienza dell’ambiente montano tale da notare quanto questo potesse essere non solo terreno di scoperte scientifiche e studi, ma anche luogo di miglioramento fisico e mentale per l’uomo. Il concetto di montagna come scuola dello spirito e ambiente di formazione furono certamente centrali nella costituzione del CAI.

In un momento in cui politicamente si percepiva la necessità di sviluppare un sistema formativo valido per le generazioni italiane future, il gruppo di notabili, professori, politici ed intellettuali rappresentato da Quintino Sella vedeva nella frequentazione della montagna il luogo ideale per la formazione, attraverso l’allenamento della forza fisica e della resistenza, la ricerca scientifica, e l’educazione caratteriale. Ma oltre alla promozione della frequentazione della montagna per gli abitanti di città, pronti ad imparare e ricevere da essa, un’altra missione del neonato Club Alpino Italiano era rappresentata dall’impegno di ampliare la conoscenza di valli, passi e cime, di studiarli e mapparli, di creare del materiale utile poi a chi fosse stato interessato a frequentarli. Fu proprio l’obiettivo di diffondere informazioni ai soci, e non solo, che portò alla nascita della rivista del CAI.

Figura 2 «Alpine Journal», volume I, anno 1861.

Capitolo I. Le pubblicazioni dalla fine dell’Ottocento al secondo Dopoguerra
La rivista del CAI
La prima pubblicazione che apparve pochi mesi dopo la fondazione del Club Alpino Italiano fu il «Giornale delle Alpi, Appennini e Vulcani», edito dal 1864 al 1866, nato su iniziativa privata di G. T. Cimino, avvocato e membro della Direzione del CAI. Nonostante l’ambizione di diventare l’organo ufficiale del Club, questa pubblicazione rimase sempre autonoma e solo per un anno fu l’unica, cambiando nome nel 1866 da «Giornale delle Alpi, Appennini e Vulcani» a «Rivista delle Alpi, Appennini e Vulcani». All’interno del volume che raccoglie i fascicoli dell’anno 1864 si possono leggere testi di differente natura: da una prefazione sul rapporto tra gli uomini e le montagne, ad un excursus sulle imprese sul Monviso, fino alla storica lettera di Quintino Sella a Bartolomeo Gastaldi, contenente il racconto dell’ascesa al Monviso, corredata da tabelle, report barometrici e misurazioni delle temperature. Oltre a quelli di Quintino Sella e dei suoi compagni, vengono inseriti altri resoconti di ascensioni al Monviso, sempre con dati, rilevazioni scientifiche e tabelle. Non mancano articoli di contenuto vario, che spaziano dalle guide monografiche ad alcune valli italiane (Val Pellice, Valle del Po, Val Varaita), agli approfondimenti riguardanti luoghi esotici e allora misteriosi come il deserto del Sahara o i territori che circondano il fiume Nilo. Sono presenti brani di interesse generale, come quello sulle eccezionali basse temperature del periodo in questione, seguiti da pagine più istituzionali con approfondimenti sulla fondazione CAI, l’elenco dei soci, gli Atti delle riunioni del CAI. Vengono ripresi poi i risultati di alcune ricerche scientifiche riguardanti il periodo glaciale, seguite dai resoconti delle escursioni sul Cervino, dalle ascensioni al Monte Rosa, fino alla prima salita al Monte Bianco dal versante Italiano. Un insieme eterogeneo e non ordinato di contenuti, tutti in qualche modo inerenti al tema della montagna, della scoperta, e della scienza. Riassumendo si alternano relazioni di imprese, attuate da italiani o stranieri, raccontate nei dettagli dall’alpinista stesso, o riportate da terzi; guide a valli o territori italiani o esteri; ricerche di ambito scientifico su ghiacciai, vulcani, meteorologia, esposte in brani e corredate da tabelle barometriche, carte e mappature, disegni. Non mancano articoli non strettamente legati alla scalata, ma comunque inerenti all’esplorazione in generale. La lingua principale è l’italiano, ma alcuni brani sono riportati in francese, in quegli anni ancora lingua ufficiale della comunicazione internazionale.

Nell’agosto del 1865 il presidente del Club Bartolomeo Gastaldi pensò che fosse importante che il CAI avesse una pubblicazione propria, tramite la quale comunicare con i soci, e mantenere vivo il legame tra la sede centrale e le sezioni che andavano nascendo. Nominato presidente nell’ottobre del 1864, Gastaldi aveva già collaborato al «Giornale delle Alpi» di G.T. Cimino con le sue memorie scientifico-alpine, ed era fermamente convinto che l’obiettivo di divulgazione del Club andasse completato con una pubblicazione ufficiale del Club, perciò diede vita al primo «Bullettino Trimestrale», che uscì nella seconda metà del 1865. È interessante sottolineare come la vicenda della nascita del «Bullettino Trimestrale» sia legata alla storia d’Italia: infatti alla fine del 1864 la capitale del Regno era stata trasferita a Firenze, e molti dei soci del Club che abitavano a Torino erano stati costretti a trasferirsi altrove dopo aver perso il proprio lavoro. Poiché dalle origini di questa pubblicazione del Club, si voleva che il contributo maggiore arrivasse dai soci, i quali dovevano raccontare le proprie imprese alpinistiche, Gastaldi si trovò nel momento della nascita del «Bullettino Trimestrale» con pochissimi collaboratori presenti in città dai quali ricevere contenuti da pubblicare.

Non ebbe inizialmente collaboratori diretti, ma solo traduttori, primo tra tutti l’apostolo dell’alpinismo Budden. Gastaldi dovette logicamente ripiegare sulla traduzione delle pubblicazioni alpinistiche britanniche riportando le principali prime mietute dagli inglesi sulle Alpi nostre. Egli ricevette quindi, quasi completo, in peso redazionale su di sé (1)”.

(1) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p. 836.

Oltre al fatto di non poter contare né su una redazione né su collaborazioni fisse, Gastaldi fu costretto a restare senza una sede. Infatti, il Club si poté permettere di pagare un affitto solo dal maggio 1865. Il risparmio ottenuto nell’anno e mezzo in cui il Club rimase senza una sede fu impiegato proprio per la pubblicazione del «Bullettino».

Nonostante il «Bullettino» fosse nato come trimestrale, nel 1868 diventò semestrale, nel 1869 quadrimestrale e nei tre anni successivi le uscite furono irregolari, a causa della mancanza di contributi. L’apporto più regolare fu quello dei traduttori Cesati e Budden. Analizzando i primi numeri, si osserva che gli articoli sono di autori italiani, tra cui Farinetti, Carrel, Giordano, Gorret, ma tanta parte dei contenuti è riportata da testi stranieri. È possibile osservare, sul «Bullettino» numero Quattordici, del 1869, il brano “Excursion sur le glacier du Ruthor”, in francese. Segue la relazione di un’ascesa al Corno Bianco in Valsesia dell’Abate Antonio Carestia. Persiste la presenza dell’approfondimento didattico-scientifico, testimoniata, ad esempio dall’articolo “Osservazioni geodetiche sul Vesuvio”, accompagnato da tabelle e carte tecniche (come quella rappresentante i profili della vetta vesuviana). Continuando, sempre appartenente al campo scientifico, si trova un lungo approfondimento sul corso del fiume Piave, anche questo corredato da dati e tabelle. Alcune pagine del «Bollettino» sono lasciate anche al resoconto delle attività del sodalizio e delle varie sezioni. Chiudono ogni volume l’elenco dei nuovi soci, l’elenco dei doni ricevuti dal Club, i rendiconti della gestione economica.
Dal 1873 Gastaldi lasciò la carica di presidente e redattore.

Venti numeri formano i primi sei volumi del «Bollettino»: essi rappresentano il patrimonio materiale e spirituale lasciatoci in consegna dal primo redattore. La spesa sostenuta per questi primi sei volumi fu di L. 16.109,14. […] Il n.18 è del 1871, anno in cui i soci erano 500. Il n. 19 è del successivo 1872 con 600 soci: 500 soci, 650 copie, 150 in più; 600 soci, 750 copie, 150 in più. Esiste quindi il rapporto costante di 150 copie in più sicuramente necessarie per i cambi con le altre associazioni alpinistiche straniere, per gli abbonati non soci. […] ed infine la prima tiratura eccezionale di 1400 copie, dovuta all’altrettanto eccezionale raddoppio dei soci passati a 1200, a metà del 1873, ed a 1500 alla fine dello stesso anno (2)”.

(2) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p. 839.

Figura 3 «Giornale delle Alpi, Appenini e Vulcani», fascicoli I e II, anno 1864.

Come riporta Nino Daga Demaria nel volume pubblicato nel 1963 per il centenario del Club, il numero dei soci di anno in anno crebbe, e così anche il numero di copie stampate. Nel 1873 ad occuparsi della redazione fu un Comitato appositamente selezionato, che pubblicò il numero 21 del «Bollettino». Si può notare da questo numero in poi una tendenza a realizzare raccolte di articoli sempre più originali e non più riportati dalla stampa alpinistica internazionale. L’idea era quella di emulare le modalità moderne d’oltralpe, riportando però contenuti totalmente italiani.

Osservando infatti i successivi numeri del «Bollettino» si possono trovare diversi resoconti di ascese o di viaggi e spostamenti tra le valli alpine, di autori delle diverse sezioni, come il lungo racconto “La prima campagna d’un alpinista” del socio del Club G.L. Colli, che narra le proprie salite tra le valli di Gressoney e Valdobbia, fino ad Orta. O ancora un importante monografico sulle isole Eolie di F. Salino, accompagnato da un approfondimento sulle recenti eruzioni dell’isola di Vulcano. Troviamo anche dei “Ricordi Alpini del 1873” di quello che sarà il futuro redattore del «Bollettino», Martino Baretti. Fu proprio lui, dal 1874 al 1878, a seguire le sorti della pubblicazione. La novità di questo redattore fu prima di tutto la sua assunzione con contratto: Baretti fu infatti il primo a ricevere uno stipendio di 1.200 lire annue per la sua mansione di redattore. Il numero dei soci era infatti ulteriormente aumentato, insieme al numero delle succursali: nel 1874 i soci erano 2024, e divennero poi 3347 nel 1875. Le sezioni, sparse in tutta Italia erano 31 (3).

(3) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p.840.

La nuova dimensione ed importanza del CAI portò ad una maggior professionalità della redazione: primo obiettivo fu una cadenza più frequente delle pubblicazioni, pretesa dall’ormai ingente numero di soci del Club. Baretti propose per la prima volta l’idea di un periodico mensile, che non andasse a sostituire il «Bollettino», ma che si affiancasse a questo, con tempistiche e contenuti differenti. Il titolo del mensile sarebbe stato «L’Alpinista, Periodico Mensile del Club Alpino Italiano».

Il primo numero de «L’Alpinista» uscì in maggio, e riportò la prefazione del Redattore Segretario Baretti che spiegava il carattere ben distinto delle due pubblicazioni: il Bollettino doveva constare di due parti: nella prima le relazioni di studi o di escursioni, corredate da tavole o disegni; nella seconda i progressivi verbali delle Assemblee, le relazioni del Presidente e i resoconti dei Congressi. «L’Alpinista» doveva accogliere: gli articoli di piccola mole, le notizie di attualità o di minor importanza, le circolari e gli avvisi della Direzione alle sezioni ed ai soci onde tenere in continuo contatto la Sede Centrale con ogni membro del Club […] (4)”.

A causa della mancanza di collaborazione da parte di soci e alpinisti italiani nel raccontare le proprie imprese, dopo diversi avvisi e richieste da parte della rivista, alla fine del 1875 uscì l’ultimo numero de «L’Alpinista». Nonostante la brevità della sua esistenza fu importante in quanto primo esempio di rivista mensile d’alpinismo in Italia. Il «Bollettino» invece continuò ad essere pubblicato trimestralmente dal 1876 al 1878, nei quattro numeri trimestrali dal numero 25 al 36.

Dopo le dimissioni di Martino Baretti la Direzione Centrale diede il compito provvisorio di seguire la redazione del «Bollettino» al teologo Giuseppe Farinetti, assistito da Francesco Virgilio, dottore in scienze naturali, residente a Torino, già applicato di segreteria del Club, il quale a sua volta diventò redattore.

Fu durante il periodo in cui Virgilio fu redattore che il CAI si attivò per ammodernare la propria voce e dare un nuovo respiro alle proprie pubblicazioni. Dal 1879 al 1881 uscì regolarmente il «Bollettino», con i numeri dal 37 al 48, raccolti nei volumi fino al quindicesimo. Ma la svolta più significativa fu dopo l’Assemblea dei Delegati del dicembre 1881, durante la quale si accolse la ormai evidente necessità di un periodico di frequenza regolare, preferibilmente mensile, che non soltanto trasmettesse notizie, ma fosse anche di piacevole lettura. Ecco allora apparire per la prima volta la «Rivista Alpina» “compilata unicamente dal Redattore, contenente notizie di cronaca, atti, articoli di fondo e bibliografie (5)”. Il «Bollettino» divenne invece una pubblicazione annuale, contenente studi e memorie più importanti ed istituzionali.

(4) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p.840.
(5) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p. 843.

Oltre alla scelta di modificare il numero di pubblicazioni e la loro periodicità, si pensò per la nuova «Rivista Alpina» ad un formato diverso dal «Bollettino»: si stabilì un formato più esteso, di 21×29 cm, con il testo su due colonne, senza illustrazioni.

Importante cambiamento si ebbe anche nei contenuti: se l’obiettivo da perseguire era quello di avere una rivista per tutti i soci, che rappresentasse una lettura apprezzabile dalla maggior parte dei lettori, si pensò di ridurre le trattazioni meramente scientifiche, dando più spazio a notizie di argomento alpinistico o d’interesse più generico. Oltre al grande spazio dato alla “Cronaca del Club Alpino” che riportava le notizie dalle maggiori sezioni, come Torino, Milano, Roma, troviamo sul primo numero di gennaio 1882, articoli di contenuto alpinistico, ma anche brani d’interesse naturalistico come “Flora di Novembre”. La sezione bibliografica era curata da Richard Henry Budden, alpinista inglese che per molti anni collaborò attivamente con i CAI.

Nel 1883 però questi miglioramenti furono oggetto di accusa da parte di alcune sezioni, le quali vedevano in tali cambiamenti soltanto un utilizzo poco pratico dei fondi del CAI, mentre lamentavano la mancanza di sussidi per altre attività. Il professor Virgilio lasciò la carica di redattore della «Rivista Alpina» e del «Bollettino», e il Consiglio decise di assumersi l’incarico della redazione delle pubblicazioni del Club. Eliminata la figura di redattore, per un anno il Consiglio Direttivo si occupò delle pubblicazioni, facendo uscire il «Bollettino» numero 51 e la terza annata della «Rivista Alpina». Sul primo numero del 1884 è interessante leggere il nome dell’alpinista Guido Rey tra gli autori di racconti d’imprese alpinistiche “Salita sull’Uia di Ciamarella per parte meridionale”.

Nel 1884 morì il fondatore del Club Alpino Italiano, Quintino Sella, commemorato con numerosi brani sul numero terzo della «Rivista». Venne eletto presidente il commendatore Paolo Lioy. Durante l’assemblea in cui vennero eletti i nuovi presidente e vicepresidente, si decise di riadattare il formato della «Rivista Alpina» a quello del «Bollettino». Il nuovo responsabile per le pubblicazioni del CAI fu Scipione Cainer, che rimase in carica fino al 1892, e apportò da subito diverse modifiche: come prima cosa cambiò il nome da «Rivista Alpina» a «Rivista Mensile del Club Alpino Italiano», titolo rimasto invariato fino ad oggi, escludendo la parentesi fascista.

Importante fu la decisione del nuovo redattore di dare inizio alle inserzioni a pagamento sulla copertina della rivista. Osservando i volumi delle precedenti pubblicazioni del Club infatti si può notare che alcune inserzioni (hotel di località turistiche, aziende produttrici di attrezzatura alpinistica) erano già apparse, dal Bollettino numero cinque, in una pagina appositamente dedicata alla fine di ogni numero. Da questo momento in poi invece sarà la copertina della «Rivista Mensile» ad ospitare la pubblicità, a pagamento, di quanti volessero proporre i propri prodotti, ovviamente in relazione con l’ambito dell’alpinismo e della montagna. Negli otto anni di redazione di Scipione Cainer la «Rivista Mensile» crebbe d’importanza, lasciando in secondo piano il «Bollettino», che tuttavia continuava ad essere pubblicato annualmente. Per quanto riguarda i contenuti, anche durante il mandato di CAIner si cercò sempre più la collaborazione dei soci, mentre sempre meno spazio fu dato alle pubblicazioni scientifiche.

Dal 1893 al 1910 fu Carlo Ratti ad assumere la carica di redattore. Nei 18 anni d’incarico Ratti portò la «Rivista» ad un livello di qualità più elevato. Emblematici il numero di componenti del Comitato per le Pubblicazioni, passati da dodici a quindici, e il numero dei collaboratori della «Rivista», diventati 56 e appartenenti a 19 sezioni. Questi numeri riflettono l’ingrandirsi del raggio d’azione della «Rivista», non più centralizzata e nelle mani di pochi, ma in grado di coinvolgere una buona parte delle diramazioni del Club.

Nel 1895 i collaboratori della «Rivista» salirono a ben 82! In quell’anno venne decisa una riforma riguardante la forma della «Rivista». Cioè nella carta, nella stampa, nelle illustrazioni, nella rilegatura a fascicoli d’ogni numero mensile e nella diminuzione -a scopo propagandistico- del prezzo di vendita alle sezioni. Così nel 1896 si ebbe una «Rivista» su carta decisamente migliore, corredata dalle prime tredici illustrazioni, che passarono a ventidue negli anni successivi, per giungere a ben 28 nel 1900 (6)”.

(6) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p. 846.

Figura 4 «Rivista Alpina Italiana», numero 1, anno 1882.

La crescita d’importanza della «Rivista», la cui tiratura nel periodo Ratti si aggirava attorno alle 7000 copie, provocava anche un ritardo nella sua uscita, e conseguenti lamentele. Nel 1906 perciò si decise di alleggerire il carico delle pubblicazioni e di rendere il «Bollettino» biennale, pubblicando però alternata ad esso, una guida tascabile di una regione montana. Il primo volume fu nel 1907 la «Guida alle Alpi Marittime».

Anche con il successore di Ratti, Walter Laeng, le innovazioni portarono la «Rivista» ad un miglioramento qualitativo, che la avvicinavano alla stampa estera a cui il Club Alpino Italiano si era ispirato: venne nuovamente ampliato il formato ai 21×29, e si scelse di disporre il testo su due colonne, cambiandone però i caratteri di stampa. La carta adottata fu una carta patinata che potesse dare maggior risalto alle illustrazioni, le quali col tempo avevano assunto sempre più importanza, fino ad arrivare alla copertina illustrata.

Il 1913 rappresentò un anno importante: per il cinquantenario del Club infatti il Comitato per le Pubblicazioni decise di pubblicare il volume “L’opera del Club Alpino Italiano nel primo suo Cinquantennio 1863-1913” in omaggio per tutti soci: formato 23×33 cm, carta patinata, illustrato da 225 fotoincisioni, elegante rilegatura, ed una tiratura di 8500 copie. In questo volume nove autori sintetizzavano i risultati di cinquant’anni di Club, da diversi punti di vista, anche da quello della stampa sociale.

L’entusiasmo degli anni a cavallo del cinquantenario fu tragicamente colpito dall’avvento della Prima Guerra Mondiale. Infatti, dai 10.276 soci del 1915 suddivisi in 37 sezioni, si passò repentinamente agli 8.893 del 1918. Inoltre il CAI, come tutte le realtà editrici in quegli anni subì grossi danni a causa del rincaro del prezzo della carta e dei trasporti. La decisione del 1914 di sopprimere il «Bollettino», aveva lasciato la «Rivista» come unica pubblicazione: il Comitato delle Pubblicazioni si trasformò nella Commissione per la Rivista, composta da soli sette membri, con redattore Laeng. Si decise di ridurre il numero di uscite da 12 a 9, e anche il numero di pagine e dunque di contenuti venne ridotto notevolmente (da 400 a 324 annue). In seguito al decreto di legge del 1917 che limitava il consumo della carta, la pubblicazione della «Rivista» fu ulteriormente ridotta ad un’uscita trimestrale.

Dopo il conflitto, in particolare dopo la vittoria di Vittorio Veneto, il 15 dicembre 1918 si tenne la prima Assemblea dei Delegati, nella quale tra le altre decisioni si prese quella di indire un concorso per la carica di Redattore e Bibliotecario della Sede Centrale e della Sezione di Torino. Il successore di Laeng fu Roberto Barbetta. Tra il 1920 e il 1923 la «Rivista» fu pubblicata, stampata su carta di diversa qualità, con uscite irregolari, numero di pagine ridotto e illustrazioni di bassa qualità. Fu solo nel 1924 che la «Rivista» recuperò una forma di livello medio. Barbetta aveva lasciato la sua carica nel febbraio 1924, e a sostituirlo venne incaricato Eugenio Ferreri, che mantenne la carica per ventidue anni, attraversando il periodo complesso e difficoltoso del regime fascista, fino al 1945. La «Rivista» aveva ormai raggiunto una tiratura di 25.000 copie, e il grande pubblico di soci richiedeva qualità, varietà e costanza. È importante ricordare che da qualche anno l’ombra del fascismo si stava diffondendo sulla libertà degli individui e degli enti: il CAI riuscì fino al 1927 a rimanere indipendente e fuori dal controllo del regime.

La storia della «Rivista» del CAI, primo periodico italiano ad occuparsi specificamente di montagna ed alpinismo, ci obbliga ad allargare brevemente la nostra trattazione per svolgere un approfondimento sulle circostanze in cui si trovarono non soltanto il Club, ma tutti gli enti, in particolare quelli sportivi, durante l’epoca fascista.

Nonostante i tentativi di mantenere una linea apolitica, il Club e le sue sezioni si ritrovarono ad essere un microcosmo in cui venivano riflesse la crisi e le tensioni della società italiana. In diverse sedi si assistette a lamentele per la spiccata linea nazionalistica che andavano assumendo le attività di alcune sezioni del Club, svariate furono le defezioni o le dimissioni da incarichi all’interno del sodalizio. Mantenere l’ordine diventava molto difficile, e il clima di tensione stava aumentando.

Quello che si può riscontrare nelle pubblicazioni di questi anni è che l’alpinismo, e in generale tutte le attività sportive, diventarono per il regime un importante campo di propaganda, un ambito in cui la bandiera nazionale veniva elevata dagli atleti, orgoglio della nazione. La forza fisica, il coraggio, la conquista, erano tutti principi che il fascismo promuoveva con varie iniziative, come la consegna di medaglie. Esemplari in questo senso le ripetute premiazioni di Riccardo Cassin:
Cassin dimostrò verso il regime e le sue istituzioni un atteggiamento che si può definire con un ossimoro – estremamente tiepido -, adeguandosi alle sue richieste, sottoponendosi alle esigenze, accettando di venir esibito come un trofeo nazionale nelle cerimonie sportive. Per tre volte gli fu assegnata la Medaglia d’oro al valore atletico dal CONI, in occasione delle imprese sulla ovest di Lavaredo, sul Badile e sulle Grandes Jorasses. Personalità del calibro di Angelo Manaresi e Achille Starace gli inviarono attestati di stima via telegramma, e nel 1938 fu il duce in persona in una cerimonia pubblica a Roma a insignire i lecchesi – con Cassin c’erano anche Ratti ed Esposito – della medaglia (7)”.

(7) Mazzoleni C.B. (relatrice Patrizia Dogliati). “Montagne, Uomini, Idee.” Bologna, Università degli studi di Bologna, 2013.

Emblematica fu la pubblicazione, da giugno del 1928 a giungo del 1943 della rivista intitolata «Lo Sport Fascista», mensile illustrato diretto da Lando Ferretti, su cui venivano pubblicate notizie ed approfondimenti dal mondo sportivo italiano, vanto per il regime al potere. Tra gli sport di cui vengono riportate le glorie, sotto la “luce” del regime, viene inserito anche l’alpinismo. Un esempio, già dal primo numero del giugno 1928, sono le pagine dedicate all’impresa dello scalatore milanese Gaetano Luigi Polvara sull’Aiguille di Grépon (Monte Bianco).

Altra iniziativa del periodo fascista per la promozione dello sport di montagna fu l’organizzazione di gare. Molto seguiti dalla stampa e dall’informazione furono la preparazione e lo svolgimento a Mottarone, nel gennaio 1935, della “Coppa d’Oro del Duce”, prima gara internazionale di sci in Italia.

La presenza dal 1930 del nuovo presidente del sodalizio e direttore delle pubblicazioni, Angelo Maranesi si manifestò non solo sulla «Rivista Mensile», ma anche su «L’Alpino», giornale dell’Associazione Nazionale Alpini: sulle pagine di queste due testate Maranesi portava la propria voce e quella del partito fascista. Non fu soltanto Maranesi a raccontare con magniloquenza la vicinanza tra montagna e fascismo. È interessante osservare la partecipazione di alcuni alpinisti all’ideologia di regime. Un esempio in questo senso è l’apertura nel 1934 di una nuova via da parte Riccardo Cassin alla Piccolissima di Lavaredo, intitolata “Via XXVIII Ottobre – Achille Starace”.

Guido Rey, celebre alpinista aderì al fascismo mettendo al servizio del partito la propria capacità espressiva in articoli e conferenze. Altri furono gli alpinisti che più o meno consciamente contribuirono a costruire l’immagine dello sport al servizio del regime fascista. Domenico Rudatis organizzò a Bologna una mostra nazionale alpina nel 1934, in cui le “estreme audacie dolomitiche erano ricondotte nel progresso alpinistico grazie alle insegne dei fasci littori”. Leggiamo sulla «Rivista» Julius Evola che racconta della salita al Lyskamm Occidentale in toni estremamente militareschi: “impeto”, “progressione”, “assalto” sono alcune delle parole usate per descrivere la scalata.

Ritornando alla «Rivista», tra il 1930 e ed il 1935 essa fu pubblicata con grande considerazione ed elevata qualità, e “fu ancora al centro della pulsante vita alpinistica del Sodalizio attraverso le memorabili imprese di Emilio Comici, Giusto Gervasutti, Renato Chabod, Ettore Castiglioni, Riccardo Cassin. La tiratura salì nel 1934 a 50.000 copie (8)”.

(8) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p. 859.

Si possono notare alcuni cambiamenti che subì, sia graficamente, che per quanto riguarda contenuti e modalità comunicative: dal 1936 in poi, con l’inizio delle operazioni militari e con l’irrigidirsi del clima generale all’alba della Seconda Guerra Mondiale, la qualità della «Rivista» si abbassò, ma altre furono le modifiche apportate dal fascismo, ora molto più presente rispetto ai precedenti anni. Con il divieto di utilizzare parole straniere, venne modificato il nome dell’associazione da Club a Centro Alpino Italiano. Anche la «Rivista» vide cambiato il proprio nome in «L’Alpe – Rivista mensile del Centro Alpinistico Italiano».

Figura 5 «Bullettino trimestrale del Club Alpino», numeri 1 e 2, 1865.

La copertina negli anni di maggiore influenza del regime viene sostituita da un cartoncino marrone, con il rinnovato titolo di testata, sempre accompagnato da un corsivo autografato da Mussolini che sentenziava “Sono fiero di appartenere al centro Alpinistico Italiano scuola di italianità e di ardimento, Mussolini”. Per quanto riguarda i contenuti, la tipologia dei brani inseriti nella «Rivista» non venne stravolta, e tra le pagine delle uscite di quegli anni troviamo articoli di argomento alpinistico, come “L’Aiguille Verte” di Giusto Gervasutti e altri scritti di ambito culturale che riportano monografie dettagliate su valli italiane come “Alpi Orobiche: Scrigno di bellezza” dello stesso Angelo Maranesi, insieme a notizie varie, approfondimenti tecnici, o guide escursionistiche. Si trovano anche brani in cui viene esaltata l’ideologia fascista, e dunque è possibile leggere in apertura al numero 10 del 1933 gli articoli “Alpinismo italiano nel mondo” e “Giovani di Mussolini sui Monti d’Italia” o ancora sul numero 8-9 del 1940 si legge “La parola di Mussolini all’Italia e al mondo” che riporta il discorso di Mussolini del 10 giugno 1940.

La «Rivista» negli anni peggiori del conflitto bellico si ridusse ad un «Notiziario Mensile», mantenendo la numerazione, ma riducendo notevolmente la quantità di pagine.

Il notiziario usciva quando i bombardamenti lo permettevano, poi veniva spedito a mezzo corrieri in pacchi alle sezioni di Torino, Milano, Padova, Udine, Bologna, Trieste, Firenze, Trento, le quali a loro volta, a mezzo corrieri locali, lo ridistribuivano alle sezioni (9)”.

Dopo la fine del conflitto la pubblicazione della «Rivista» riprese grazie ad un accordo con la Casa Editrice Montes: il notiziario «L’Alpe» venne inserito nella «Rivista»: fu Adolfo Balliano a ricoprire la carica di redattore: sul numero 1-2 del gennaio 1946 è possibile leggere l’editoriale del presidente del sodalizio, Luigi Masini, intitolato “Ripresa” di cui riportiamo alcune frasi:
Nel piano generale di ricostruzione e di riorganizzazione del nostro Club, ben si inquadra la ripresa della «Rivista Mensile», pubblicazione tanto tradizionale e simpatica, quanto indispensabile alla vita stessa del Club. […]. Le sue pagine tornano a costituire, sia attraverso le scheletriche relazioni di ascensioni, che attraverso le più varie argomentazioni di cultura alpina, il sacrario che custodisce la luminosa fiaccola dell’ideale alpinistico (10)”.

(9) Daga Demaria G. “Le pubblicazioni periodiche” in AA. VV. “1863-1963: I Cento anni di Club Alpino Italiano”, Milano, Club Alpino Italiano, 1963, p. 861.
(10) Masini L. “Ripresa” in «Rivista», numero 1-2, anno 1946.

Vediamo cambiare l’aspetto della copertina, che presentava una fotografia a pagina intera, in bianco e nero, con la testata graficamente molto semplice, colorata di volta in volta diversamente.

Il successore di Balliano fu Carlo Ramella, tra il 1951 e il 1952. In questi anni si assistette ad un consolidarsi della strutturazione in rubriche, come “Notizie in breve”, “Nuove ascensioni”, “Spedizioni extraeuropee”. Dal 1953 la «Rivista», avviata ormai verso la modernità, fu diretta dal redattore Giovanni Bertoglio. Fu in questi anni che la sempre più ampia diffusione dell’alpinismo tra le classi meno abbienti e la celebrità delle imprese, come quella sul K2, portarono questo “sport” al grande pubblico. È da segnalare, a proposito, i numeri di gennaio e febbraio del 1954, e quelli successivi, sui quali venne dato grandissimo spazio alla spedizione italiana, patrocinata dal Club, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dall’Istituto Geografico Militare e dallo Stato italiano, e guidata da Ardito Desio. Proprio dell’esploratore e geologo che guidò la spedizione leggiamo, sul numero 1-2 del 1954 “La mia ricognizione preliminare al K2”, con carte e note storiche sulla tradizione delle spedizioni himalayane, dettagli del viaggio e dell’organizzazione, svolti insieme all’alpinista Riccardo Cassin, e di seguito un inquadramento geografico e storico dell’area del Karakorum. È da notare la presenza sempre più importante delle fotografie, in bianco e nero, in questo caso sia della montagna, sia dei componenti della spedizione. Sul numero 9-10 leggiamo “La spedizione del CAI al K2 è rientrata in Patria”, e diversi sono gli approfondimenti dedicati a questo momento storico: a scrivere sono lo stesso Ardito Desio, con articoli che spiegano i dettagli della spedizione all’interno di un programma scientifico “Le ricerche scientifiche della spedizione italiana al K2”, ma anche Lino Lacedelli e Achille Compagnoni, protagonisti della salita alla vetta, che narrano nei particolari il raggiungimento della vetta (“Come raggiungemmo la vetta”).

Nel corso del ventennio successivo si assiste ad un graduale aggiornamento grafico della «Rivista», con l’inserimento di copertine a colori, di grandi fotografie, e all’aumento delle inserzioni pubblicitarie. Dagli anni Cinquanta sarà sempre la «Rivista» del Club ad informare e raccontare il mondo dell’alpinismo: sfogliando i numeri si può notare una tendenza alla riduzione del numero di argomenti trattati, con un miglioramento rispetto alla qualità e al livello di approfondimento: è possibile osservare un sempre maggiore interesse per le montagne extra europee, non più viste unicamente come meta di grandi ed eroiche spedizioni, ma anche da un punto di vista culturale e naturalistico (“Il Kilimangiaro” di Marino Tremonti, “La Cordigliera delle Ande” di Pietro Meciani”, sul numero 3 del marzo 1964). La «Rivista», insieme alle altre testate che nasceranno, seguirà con grande interesse le vicende dalla conquista degli Ottomila, alle ultime scalate delle vette himalayane, fino agli anni Sessanta con la riscoperta dell’arrampicata libera e alla nascita di un’etica dell’alpinismo di stampo sessantottino. Alla «Rivista» collaboreranno i protagonisti di queste tappe storiche dell’alpinismo, nate dalle contestazioni studentesche e riversatesi poi anche nell’alpinismo: a firmare articoli sulle pagine della «Rivista» troviamo nomi di alpinisti come Alessandro Gogna, Gian Piero Motti, Reinhold Messner.

Dal 1971 la carica di presidente del Club è stata ricoperta da Giovanni Spagnolli, nome noto della politica italiana, tra gli organizzatori del partito della Democrazia Cristiana fondato nel 1942, e presidente del Senato dal 1974 al 1976. Mentre la sede del CAI era già stata trasferita a Milano nel 1943, è stato durante la presidenza di Giovanni Spagnolli che la redazione della stampa del sodalizio si è spostata nel capoluogo milanese: Bertoglio, responsabile di redazione, veniva sostituito da Giorgio Gualco, che sarebbe rimasto in carica fino al 1986. Altro avvenimento che andava a modificare la struttura generale della stampa del Club era la rilevazione del notiziario indipendente «Lo Scarpone», che dal 1974 diventava il notiziario ufficiale del CAI (la storia de «Lo Scarpone» è approfondita da pagina 25).

Figura 6 «Roccia», numero 1, anno 1933.

È interessante osservare l’evoluzione della «Rivista»: essa infatti dal punto di vista della grafica ha presentato un incremento di qualità della carta utilizzata, più leggera e patinata. La conseguenza è stata, nel corso degli anni, una migliore resa della fotografia, ormai componente essenziale tra le pagine del periodico. La «Rivista» ha assunto sempre più una struttura basata su una prima parte di approfondimenti su diversi argomenti. Sul numero 1-2 di gennaio-febbraio del 1984 è possibile leggere articoli che spaziano dall’esplorazione sciistica di aree montane del mondo (“Con gli sci sul tetto del Nord America” di Oreste Forno) all’alpinismo classico (“Invernale-lampo sulle cime del Rosa” di Graziano Masciaga) alla cultura ambientalista (“Squilibri ambientali e inquinamento sulle grandi montagne del mondo” di Bruno Barabino). Gli approfondimenti sono stati sempre seguiti da una seconda parte di cronaca, che prevedeva rubriche fisse come “Libri di Montagna”, “Nuove ascensioni e cronaca alpinistica”, “Comunicati e verbali”, “Rifugi ed opere Alpine”.

Dal 1986, si è assistito ad una riorganizzazione della redazione, necessaria per mantenere le pubblicazioni del sodalizio al passo con i tempi: il direttore responsabile Vittorio Confalonieri, è stato affiancato dal direttore editoriale Italo Zandonella, assieme al redattore Alessandro Giorgetta. È di seguito presentato l’editoriale firmato dal redattore Teresio Valsesia sul numero di gennaio del 1994, su cui veniva annunciato ai lettori l’ammodernamento della rivista:
Come vedete, cari lettori, la vecchia «Rivista» cambia formato e l’assetto grafico adeguandosi ai tempi e alle richieste di numerosi soci. Insomma, a un’esigenza non più eludibile (11)”.

(11) Valsesia T. “Editoriale” in «La Rivista mensile del Club Alpino Italiano», numero 1, anno 1994.

All’interno della «Rivista» si può notare anche una revisione della struttura, che presentava ora una suddivisione degli argomenti per contenuti (“Narrativa”, “L’Intervista”, “Letteratura”, “Attualità”) e per attività (“Sci alpinismo”, “Alpinismo invernale”, “Speleologia”, “Arrampicata”).

Dopo i dieci anni di direzione di Teresio Valsesia, la «Rivista» è stata diretta dal 2004 da Pier Giorgio Oliveti, fino al 2009: sotto la sua gestione, parallela alla presidenza del Club di Annibale Salsa, le pubblicazioni del CAI hanno seguito una linea più tesa all’approfondimento culturale e all’indagine sociale, politica ed economica del mondo della montagna.

Si può dire che la Rivista del Club Alpino Italiano abbia attraversato la storia dell’alpinismo e tracciato la prima parte della storia dell’editoria legata a montagna e alpinismo in Italia. La presenza del sodalizio ha sempre garantito stabilità alle pubblicazioni, ma la realtà dell’informazione è cambiata velocemente dalla fine del Novecento, fino ad arrivare ai giorni in cui la pubblicazione della stampa sociale non è più stata sufficiente, se l’obiettivo era quello di raggiungere un pubblico sempre più vasto con un messaggio competente e capace di orientare il lettore.

Il CAI e «La Rivista Mensile del CAI» sono infatti diventati sempre più un punto di riferimento centrale nell’universo delle culture di montagna, ed è per mantenere questo ruolo con coscienza e competenza che negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli passi.

L’investimento sulla comunicazione è stato confermato con la direzione di Luca Calzolari. Dal 2012 la rivista con il nuovo titolo «Montagne 360» è tornata mensile e con il numero di ottobre è iniziata la distribuzione in edicola (12)”.

(12) Ravelli A. “Montagne in Rivista” in Aldo Audisio e Alessandro Pastore (a cura di) “CAI 150, Il libro (1863-2013). Torino, Club Alpino Italiano, 2013.

L’ultima evoluzione della storia della «La Rivista Mensile del CAI» verrà approfondita nel terzo capitolo del presente elaborato, in cui è osservata la realtà attuale dei periodici che si occupano di alpinismo e montagna.

«Lo Scarpone»
È da segnalare che oltre alla «Rivista» del CAI vi fu un’altra testata, nata come indipendente a Milano, poi divenuta nel 1974 organo ufficiale del Club. Fondato del 1924 da Claudio Sartori con l’appoggio della Scai (Società Cooperativa Alpinisti Italiani) «Lo Scarpone» era stampato in carta di colore verde, su un foglio di 35×50 cm, e consisteva in quattro pagine, dal testo in cinque colonne.

Contrariamente a quanto è stato scritto per tanti anni, «Lo Scarpone» in realtà non è stato fondato nel 1931 da Gaspare Pasini ma era un giornale precedente fondato da un’altra persona, nel 1926. Il fondatore Claudio Sartori chiuse il giornale dopo pochi anni, finché Pasini non decise di rifondarlo nel 1931 (13)”.

(13) Carlesi P. Intervista rilasciata il 24 gennaio 2018.

Da sempre quindicinale, «Lo Scarpone» aveva una tiratura di circa 4500 copie e veniva distribuito per abbonamento a Milano e Torino. «Lo Scarpone» fu uno dei primi periodici a pubblicare il bollettino neve delle maggiori località sciistiche. Dal 1926 Sartori, trovandosi in difficoltà, smise di pubblicare. Venne ripresa nel 1931 da Gaspare Pasini, che sul primo numero comunicava il programma di questa “iniziativa personale, con l’intento di riempire una lacuna del giornalismo sportivo” (14).

«Lo Scarpone» si propose da subito come notiziario attento agli avvenimenti di montagna, e in grado di “dare una visione sintetica del movimento alpinistico e sciatorio nazionale (15)”.

(14) Direzione, “Editorialein «Lo Scarpone», numero 1, anno 1931.
(15) Direzione, “Editorialein «Lo Scarpone», numero 1, anno 1931.

In prima pagina sul numero uno appariva infatti una panoramica che descriveva le tipologie di gare slalom e staffette. Di lato, un pratico annuncio sulle riduzioni effettuate sui prezzi dei biglietti dalle Ferrovie Nord per le tratte da Milano alle principali stazioni sciistiche. In seconda pagina invece si trovava un approfondimento sui nuovi impianti di risalita sorti in alcune aree montane, che permettevano non solo agli sciatori di raggiungere la partenza delle piste, ma anche agli alpinista di avvicinarsi più comodamente agli itinerari da percorrere. Seguivano schede più tecniche, una delle quali recensiva, ed esempio, un nuovo prodotto alpinistico, lo sci pieghevole. L’altra offriva una guida pratica sulle possibili attività escursionistiche dell’Alpe Devero, suggerendo varie tipologie di gita (da un giorno, da due giorni), con indicazioni riguardanti equipaggiamento, distanze chilometriche e posizione e costo degli alberghi. In ultima pagina era pubblicato un bollettino neve, insieme a informazioni varie per quanti fossero stati interessati a corsi di sci.

L’impostazione della rivista era volutamente di apertura ad un pubblico di diverso livello, anche non specializzato, che si avvicinava alla montagna anche per le prime esperienze. Nel corso degli anni l’impostazione iniziale è sempre stata confermata, e accanto ad articoli per i più esperti, con relazioni tecniche su ascensioni, sono state inserite anche notizie più generiche.

Anche a livello grafico «Lo Scarpone» si è mantenuto coerente nel tempo, rispettando il foglio a quattro pagine, il bianco e nero e la prevalenza del testo sulle illustrazioni. È dai primi anni Settanta che si è assistito a un lieve ammodernamento grafico: rimaneva il foglio in bianco e nero, che però iniziava a proporre fotografie più grandi, incorniciate da spessi bordi neri che le mettevano nettamente in risalto rispetto al testo: “Sono anni di cambiamenti, anche tecnici: non si stampa più in piombo, ma in offset, alla tipografia Sagsa di Como (16)”.

(16) Carlesi P. Intervista rilasciata il 24 gennaio 2018.

Il fondatore Gaspare Pasini restò alla guida dello «Lo Scarpone» fino alla morte, nel 1968, quando la proprietà passò a Guido Monzino:
Nel 1971 Armando Pasini aveva ceduto la testata a Guido Monzino, appartenente a una ricca famiglia di industriali milanesi, proprietario della Standa e promotore e organizzatore di molte spedizioni alpinistiche. Alla fine del 1972 l’editore Garobbio, rassegnò le dimissioni. Non aveva più tempo e né voglia. A questo punto «Lo Scarpone» passò all’editoriale Rogi, il quale assunse come giornalista professionista, unico impiegato, Bruno Maria Villa. […] Nel mese di maggio giugno la spedizione militare organizzata da Monzino sull’Everest raggiungeva la vetta. Il proprietario voleva che la rivista fosse un altoparlante per le sue imprese, anche precedentemente, con la spedizione del 1971 al Polo Nord (17)”.

(17) Carlesi P. Intervista rilasciata il 24 gennaio 2018.

Figura 7 «Vette», numero 1, anno 1934.

Una volta esaurito il ruolo di strumento ufficiale per il racconto delle imprese del suo proprietario, «Lo Scarpone» viene lasciato da Monzino, e donato al CAI, il cui presidente Giovani Spagnolli decise di farne il notiziario ufficiale del Club. Inizialmente venne scelto, come redattore, insieme alla collaborazione di Carlesi, Carlo Arzani, che però non rimase per lungo tempo. Il Club decise allora di affidare il ruolo di redattore completamente a Piero Carlesi, con la direzione responsabile di Renato Gaudioso. Ad ogni modo, dal dicembre 1974, «Lo Scarpone» ritornò ad essere pubblicato con una nuova veste: un fascicolo di dodici pagine, graficamente molto più semplice e pulito, che si offriva come notiziario e pubblicava novità relative a spedizioni italiane ed internazionali, nuove ascensioni in Italia e all’estero, nonché comunicati ufficiali di enti come CAI, UGET, Soccorso Alpino, ecc.

La rivoluzione, oltre al passaggio sotto l’ente del Club Alpino Italiano, è stata che «Lo Scarpone», prima era fisicamente simile a un quotidiano, e anche durante la proprietà di Monzino restò sempre di grande formato, nonostante la scelta di una carta più lucida e patinata, con il passaggio a CAI viene stampato in formato A4 (18)”.

(18) Carlesi P. Intervista rilasciata il 24 gennaio 2018.

Carlesi avrebbe lasciato la redazione dopo un anno, per concludere gli studi. Nel 1985 fu Mariola Masciadri direttore responsabile e redattore. Dal 1988 il redattore è stato Roberto Serafin, che ha portato avanti la missione della rivista «Lo Scarpone», coerentemente con la sua tradizione.

Ad esclusione dell’anno della direzione di Bruno Maria Villa, la cui direzione si era differenziata per la risonanza data delle imprese di Monzino, per il resto degli anni, per quanto riguarda i contenuti «Lo Scarpone» si è sempre mantenuto coerente, con contenuti alpinistici, e di rendicontazione di conferenze, di spedizioni, di congressi etc.

La «Rivista Mensile del CAI» e «Lo Scarpone» non si sono mai sovrapposte perché «Lo Scarpone» è sempre risultato il notiziario della cronaca più piccola, contenuto che «La Rivista» non poteva riprendere: essa infatti raccoglieva i grandi servizi, mentre «Lo Scarpone» è sempre stato il notiziario che raccontava, ad esempio, che gli istruttori d’alpinismo dell’Emilia-Romagna avevano organizzato un congresso. Era una cronaca molto locale… che si è persa (19)”.

Dal 2011 è terminata l’edizione cartacea e dal 2012 «Lo Scarpone» continua esclusivamente in formato digitale.

«Lo Scarpone» fu il primo importante e duraturo periodico indipendente dalle società alpinistiche; guadagnò pubblico in concorrenza con altre riviste private come «Roccia», «Vette», «La Rupe». Nel 1975 divenne organo ufficiale del CAI, riservato ai soli soci abbonati, ma fin dall’inizio fu utilizzato come notiziario ufficiale da parte di alcune sezioni, tra cui Milano e Roma. Nel 1994 l’assemblea dei delegati decise di inviarlo a tutti gli iscritti. Dal 2012 prosegue solo in versione elettronica (20)”.

(19) Carlesi P. Intervista rilasciata il 24 gennaio 2018.
(20) Ravelli A. “Montagne in Rivista” in Aldo Audisio e Alessandro Pastore (a cura di) “CAI 150, Il libro (1863-2013)”. Torino, Club Alpino Italiano, 2013.

Altri periodici
Si può certamente notare come lo sviluppo del Club nato nel 1863 sia andato crescendo, sempre più, con un aumento il numero di soci e di sezioni, nonché del numero di partecipanti all’organizzazione e all’amministrazione dell’associazione.

Questo avvenne perché sebbene alla sua nascita il Club fosse una creazione borghese, con il passare del tempo la possibilità di andare in montagna e di fare alpinismo si estese ad un pubblico molto ampio. La montagna diventò non solo un luogo dove praticare sport ormai economicamente alla portata di molti, ma anche un ambiente in cui era possibile svolgere attività di svago e benessere in alternativa alla routine lavorativa.

In realtà esistevano contemporaneamente alcune associazioni che proponevano la montagna come soluzione più salutare agli svaghi che poteva offrire la città fuori dagli orari lavorativi. Ad esempio la mancanza di altre passioni aveva portato un grande numero di lavoratori ad avere problemi di alcolismo: nel giugno del 1911, sui monti del Resegone sopra a Lecco, fu fondata da Ettore Boschi insieme ai socialisti Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angelo Cabrini, la prima associazione escursionistica proletaria: l’Unione Operaia Escursionisti Italiani (UOEI). Anni dopo la costituzione dell’UOEI, nella primavera del 1913, durante i grandi scioperi, gli operai metallurgici della FIOM di Torino, dettero vita a un’altra associazione alpinistica proletaria: l’Associazione Libertas Fasci Alpinistici (Alfa), insieme ad altre simili: la Federazione Alpinistica Zimmerwald e il gruppo Monte Rosa. Nell’estate 1920 viene fondata a Milano l’Associazione Proletaria per l’Educazione Fisica: presidente e animatore era il medico e dirigente del partito socialista Attilio Maffi, soprannominato insieme al fratello “medico dei poveri”. Il contemporaneo avvento del fascismo, che inserì alcune di queste associazioni nell’Opera Nazionale Dopolavoro, interruppe le esperienze attive organizzate da questi enti, e solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si ricostituì per esempio, a Firenze, l’Unione Operaia Escursionisti Italiani.

Ecco dunque la montagna divenire non più soltanto “terreno di gioco” per i nobili ottocenteschi alla ricerca di scoperte scientifiche, né solo per grandi scalatori romantici, tesi al raggiungimento e alla conquista della vetta per la propria gloria. La montagna non era più soltanto campo di battaglia tra le nazioni, con le sue vette da conquistare e quel valore nazionalistico e patriottico che da Risorgimento al secondo conflitto mondiale aveva dominato sulla maggior parte dei quotidiani.

È sicuramente grazie all’allargamento del numero di appassionati di montagna che si assistette alla pubblicazione di una serie di periodici che, con maggior o minor fortuna, iniziarono a circolare dagli anni Venti in poi. Si trattava di giornali principalmente composti da due fogli, qualcuno anche solo da uno, con un’impaginazione dunque da otto pagine o quattro, e le dimensioni di un quotidiano. La testata, spesso seguita da un motto o una frase ufficiale, era seguita dai testi degli articoli, a volte inframmezzati da fotografie o illustrazioni. Tra i primi periodici di questo genere, ad essere pubblicati, si segnalano «La Montagna, Alpinismo = escursionismo, sports invernali», bimestrale edito dal 1922 a Torino, e «La Rupe», mensile del Gruppo Amatori delle Alpi.

Il primo, diretto da Ettore Doglio, si proponeva come un giornale aperto, dal taglio ampio e dalla volontà di trattare dell’alpinismo come pratica sportiva che ha luogo in un ambiente a cui si prometteva di dedicare studi ed approfondimenti: “dalla geografia, alla storia, alla zoologia, alla mineralogia, ai ghiacciai […]” (21).
L’apertura era anche all’intervento di collaboratori esterni alla redazione, che potessero fornire contenuti alla rivista. Partendo da “[…] l’idea di pubblicare un giornale dedicato a quella gioventù audace e serena che ai ritrovi cittadini preferisce le balze rocciose dei nostri monti” «La Montagna, Alpinismo = escursionismo, sport invernali» presentava sulle proprie pagine diverse tipologie di articolo, da quello sulle origini dell’alpinismo del primo numero, con diversi approfondimenti sulla storia di Quintino Sella, sui pionieri del Monte Rosa e della Valle Perduta, fino all’alpinismo moderno. Gli avvisi e le novità su eventi e raduni organizzati spaziavano da quelli del CAI a quelli dell’UOEI, agli atti ufficiali della Confederazione Alpinistica ed Escursionistica Nazionale. Non mancavano cronache e descrizioni di ascensioni alpinistiche, ad esempio sul numero dodici del giugno 1922 si poteva leggere “Nuove ascensioni nel gruppo del Pizzo del Diavolo, sulle Alpi Orobie”. Nonostante la varietà degli argomenti e del pubblico di diverso genere immaginato dagli autori, la rivista fu costretta a cessare la pubblicazione dopo diciassette numeri, con il numero del 4 agosto 1922. Il secondo esempio del 1922 fu invece «La Rupe», pubblicazione mensile di un ente, il Gruppo Amatori delle Alpi, di cui si hanno numeri fino al 1925: su questo foglio unico, di quattro pagine, si potevano leggere racconti di ascensioni, informazioni generali sull’alpinismo estivo o invernale, monografie di aree montane italiane o estere.

21 Doglio E. “Editorialein «La Montagna, Alpinismo = escursionismo, sport invernali», numero 1, anno 1922.

Figura 8 «Alpinismo», numero 1, anno 1941.

Di qualche anno successive, e perciò molto più influenzate dalle direttive del regime fascista, fu la testata «La Montagna – Alpinismo, sci escursionismo», settimanale in uscita ogni giovedì, fondata a Milano, che consisteva in un foglio, il cui testo era suddiviso in sei colonne. Il direttore tecnico era Gino Mariani. I contenuti variavano da annunci di raduni nazionali, a resoconti e classifiche di gare di sci, alla pubblicazione di bollettini neve delle principali stazioni sciistiche fino alle pubblicazioni ufficiali del CAI e della Fis. L’alpinismo sembrava restare in secondo piano, ma era comunque presente. La testata aveva una grafica in stile fascista, e l’anno di pubblicazione era riportato sia nella versione normale (es. 1933) sia nella versione imposta dal regime, ovvero relativa all’era fascista, con numero romano (in questo caso XI).

Completamente inserito nelle dinamiche propagandistiche del regime era il settimanale «Roccia», edito dal 18 febbraio 1933 a Milano. Diretto da Giorgio Boriani, questa testata si dichiarava apertamente allineata all’impostazione fascista, in particolare per quanto riguardava l’educazione dei giovani, ai quali si rivolgeva “perché vengano potenziati e stimati al loro giusto valore” (22) e ancora “L’alpinismo, che è attività di muscoli, oltre che di spirito, non può essere, secondo noi Fascisti, che dei giovani (23)”. Già dal primo numero «Roccia» si dichiarava fermo sostenitore dell’alpinismo come sport, e dello sport come campo in cui i giovani potevano dimostrare la propria valenza: “L’alpinismo ha delle bellezze contemplative e trascendentali, è fusione mirabile di arte e sport, d’accordo, ma è prima di tutto e soprattutto slancio e tensione di forze pel raggiungimento di una conquista, è superamento di difficoltà, è sport! (24)”.. Il foglio dalle prime pubblicazioni era strutturato in rubriche: “All’insegna dello sciabile” presentava un elenco dei centri sciistici alpinistici di maggior rilievo, con indicazioni sulle condizioni neve e sulle temperature, rilevate sul posto da corrispondenti. Era presente anche una lista degli alberghi raccomandati ai lettori. “Le vie della volontà e dell’ardimento” era una rubrica che proponeva al pubblico le più celebri e difficoltose vie di alpinismo, elencando, con il nome degli alpinisti partecipanti, le date delle prime salite e delle successive ripetizioni. Altri articoli si occupavano di alpinismo in modo tecnico e dettagliato, e su questa testata si trovavano le firme importanti di Domenico Rudatis, Vittorio Varale, nonché di alpinisti stranieri come Willy Merkl, alpinista tedesco di cui è possibile trovare, ad esempio, l’articolo “Come lottammo sui ghiacci del Nanga Parbat”, montagna su cui l’autore avrebbe trovato la morte proprio l’anno successivo, il 1934.

(22) Redazione, “Editoriale” in «Roccia», numero 1, anno 1933.
(23) Redazione, “Editoriale” in «Roccia», numero 1, anno 1933.
(24) Redazione, “Editoriale” in «Roccia», numero 1, anno 1933.

Era stata firmata da Domenico Rudatis la lettera al direttore sul quarto numero di «Roccia», contenente precisazioni dell’autore rispetto alle idee esposte da Giusto Gervasutti sulla Rivista Mensile del CAI in merito al confronto tra alpinismo delle Alpi orientali e alpinismo delle Alpi occidentali. Sullo stesso numero Karl Deutelmoser raccontava “Dieci ore di lotta sugli strapiombi della Furchetta”. Il numero dieci annunciava con grande entusiasmo la possibilità di organizzazione del Trofeo Mezzalama, in onore di Ottorino Mezzalama: la manifestazione si svolse poi il 27 maggio 1933, e il resoconto venne pubblicato sul numero di giugno di Roccia, che univa tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo numero in un’unica uscita estiva. È interessante notare l’attenzione ai contenuti che nell’uscita dell’estate si spostavano ad esempio sullo sci estivo, sull’arrampicata su roccia, o su approfondimenti per una lettura più piacevole e meno tecnica, come quello dedicato alla presenza nel gruppo lecchese delle Grigne, di Emilio Comici, celebre alpinista triestino. L’alpinismo e la montagna nelle loro trattazioni più pratiche, si mescolavano ad articoli di impronta politica, come quello del numero venticinque, in cui si trovava un elogio all’organizzazione fascista “Il Regime per gli sport invernali. Il Fascismo ha genialmente risolto tutti i problemi attinenti allo sport, realizzando, attraverso le proprie istituzioni e le varie provvidenze, un programma di valorizzazione sia dei singoli elementi che delle varie specializzazioni (25)”.

(25) Redazione, “Editoriale” in «Roccia» numero 25, anno 1933.

Ancora più evidentemente allineato all’ideologia di regime era «Vette, Quindicinale di vita alpina» pubblicato dal primo novembre 1934 e diretto da Sandro Prada. Personaggio molto attivo, Sandro Prada era stato il fondatore, sulla vetta della Grigna nel 1921, dell’Ordine del Cardo, sodalizio internazionale di solidarietà alpina, per il quale seguì la direzione del mensile Stella Alpina, edito dal 1925. Scrittore di testi di cultura alpina (“Le stelle e i rododendri”, Editore Anfossi, 1928; “Cose Utili”, Ed. Montes, 1937) e di storia dell’alpinismo (“Uomini e Montagne”, L. Cappelli, 1951; “Guido Rey – Il Poeta del Cervino”, Editoriale Sportiva, 1945), Sandro Prada è stato a capo di diverse redazioni di ambiente alpinistico, tra cui «Vette». Era firmato da Prada l’editoriale di apertura del periodico, in cui con magniloquenza e teatralità veniva esposto il manifesto del giornale:
La grande realtà storica che il genio di Mussolini ha creato con l’Italia Fascista ha messo logicamente gli italiani in uno stato di mobilitazione morale che comporta a tutti i doveri e a tutti i diritti dei cittadini di una nobile e potente Nazione, la cui nuova civiltà è degna figlia ed erede dell’antica. La divisa di questa nuova civiltà è stata scolpita dall’artefice quadrato sulle ciclopiche mura del Cantiere Italiano: Camminare, costruire e, se necessario, combattere e vincere. Agli italiani tutti devono bastare queste poche parole, che sono – più che un ordine – una legge e una religione di vita […]. Non ci meravigliamo se, a questo punto, qualche fesso pensasse: Ma che c’entra tutto questo con la montagna e l’alpinismo? E noi, non per dargli soddisfazione, ma per continuare il nostro dire concludiamo. Dunque: essere fascista nel vero senso della parola vuol dire, anche per la stampa alpinistica, collaborare attivamente alla vita nazionale con idee, con azione, e con immediata comprensione dei problemi politici ed economici che ci circondano. È passato il tempo che lo sport in generale e l’alpinismo in particolare si trinceravano comodamente ma poco virilmente dietro uno sciocco paravento apolitico e anazionale […]. Ora il Fascismo vuole amalgamare tutte le forze vive della Nazione all’unico fine del bene e della grandezza della Patria. L’alpinismo deve avervi la sua parte, che noi consideriamo importantissima. Gli alpinisti italiani devono rendersi conto della responsabilità che loro incombe, quali rappresentanti della nuova vita italiana in un campo pratico ed intellettuale in cui per ragioni di emulazione, di studio e di amor proprio si appuntano gli sguardi dei colleghi stranieri […]. Con questa premessa ci sembra di aver chiarito il nostro pensiero. L’alpinismo è una forza al servizio della Patria e solamente come tale devesi considerare […]. Bisogna che i giovani si cimentino seriamente, dopo una severa scuola morale e fisica; bisogna che gli anziani continuino la loro opera ed incitino con l’esempio del loro glorioso passato di pionieri […]. Bisogna veramente cooperare in tutti i modi e con tutte le qualità alla costruzione del grande edificio alpinistico italiano […]. È un dovere di italiani, di fascisti. Costruire. Ed ognuno rechi la sua pietra al cantiere. S.P (26)”.

(26) Prada S. “Editoriale” in «Vette», numero 1, 1934.

Oltre al dichiarato e convinto programma di allineamento al regime, «Vette» pubblicava contenuti di diverso genere, e si propone a un lettore non estremamente esperto e specializzato: sui fogli di «Vette» troviamo monografie su gruppi montani come lo Stelvio, le Grigne, il Breithorn, sezioni con approfondimenti su itinerari escursionistici di diverso livello, recensioni di libri, bollettino neve (nelle uscite invernali) ma anche schemi di ginnastica pre-sciatoria (corredate di illustrazioni), e annunci di diversa tipologia, dalla gara sciistica all’escursione organizzata.

È parso utile analizzare una pubblicazione che non può essere definita appartenente alla famiglia dei periodici, ma che risulta comunque interessante per la nostra ricerca. Si tratta della pubblicazione «Alpinismo», edita annualmente dal 1941 al 1943 (ma con datazione fascista, dunque anni XIX, XX e XI) come supplemento straordinario della rivista Libro e Moschetto, a cura della Sezione Autonoma d’Alpinismo dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF). Diretta da Vittorio Emanuele Fabbri, con Giovanni de Simoni e redattore Carlo Sicola, «Alpinismo» esce per la prima volta nel 1941, con un editoriale di presentazione:
La Sezione Autonoma d’Alpinismo dei GUF di Milano vuole confermare con questa pubblicazione la sua appassionata vitalità. Per quanto vaste e molteplici possano essere le attività dei giovani nel settore della montagna, esse non saranno mai troppe. La preoccupazione di coloro che amano veramente i problemi dell’alpinismo deve essere quella di far convergere tutti i loro sforzi verso un unico fine: quello di dare alla Patria uomini preparati integralmente alla montagna. La guerra che le Rivoluzioni fascista e nazionalsocialista combattono contro un mondo decadente ha dimostrato che i popoli forti sanno in particolare misurare il loro eroismo, la loro fede, la loro maturità e le loro capacità sulla montagna […]. Vittorio Emanuele Fabbri, Direttore di Libro e Moschetto, Segretario del GUF di Milano” (27).

(27) Fabbri V.E. “Editorialein «Alpinismo», numero 1, 1934.

All’interno di «Alpinismo» troviamo articoli di diverso genere, da quelli prettamente propagandistici, che esaltano ed interpretano l’alpinismo come disciplina fascista (“Alpinismo Fascistadi Vincenzo Fusco), a quelli più informativi che elencano le iniziative della sezione alpinistica del GUF (“Cinque anni di organizzazione alpinistica al GUF di Milano” di Carlo Sicola), fino a quelli dal contenuto più tecnico che mostrano la preparazione alpinistica e le imprese dei partecipanti (“La preparazione alpinistica militare” di Pompeo Marimonti). Non mancano pagine monografiche dedicate a gruppi montuosi (“Aspetti dei Grigioni” di Aurelio Garobbio) o approfondimenti di ambito sociale-antropologico (“La montagna è sovrappopolata” di Giovanni de Simoni).

La caratteristica che differenzia «Alpinismo» dalle altre testate è l’aspetto grafico: l’opuscolo è infatti proposto in dimensioni di 27 cm x 23 cm, dunque con una forma quasi quadrata, e con una copertina patinata dalla quale si può notare un’impostazione che privilegia più l’immagine che la parola. Questa caratteristica è confermata all’interno dell’opuscolo, in cui testo e immagini sono impaginate su griglie molto geometriche, e in cui le fotografie occupano la stessa quantità di spazio rispetto al testo. In alcuni casi l’immagine è proposta anche a pagina intera. Nelle monografie sulle imprese della sezione alpinistica del GUF, sulle fotografie delle vette sono segnate graficamente le vie percorse dagli alpinisti, metodo oggi largamente utilizzato, ma allora da considerare all’avanguardia. Altra scelta notevole è quella di riprodurre sequenze di scatti per mostrare il corretto svolgimento di alcune manovre alpinistiche, ad esempio quella dell’utilizzo della piccozza nel salto di un crepaccio, sul primo numero. Il secondo numero di Alpinismo è scritto anche in lingua tedesca, e il tema della vicinanza tra gioventù italiana e tedesca si mantiene costante per tutto il fascicolo. Sul terzo numero è presente anche un inserto in spagnolo, a conferma dell’importanza data dalla redazione all’internazionalità della rivista.

Oltre alla pubblicazione di questo opuscolo, la Sezione Autonoma d’Alpinismo del GUF di Milano si distingue per una densa attività di produzione di vario genere: “Itinera Montium”, una collana di quarantotto titoli di guide alpinistiche e sciistiche; “Verba Montium”, altra collana contenente dieci guide culturali alpine; “Pubblicazioni del Centro Universitario di Studi Alpini”, di contenuto più scientifico; “Documentari Cinealpinistici”, con una avanguardistica proposta di dodici filmati di argomento alpinistico. Nonostante l’appartenenza ad un ente dall’identità ben definita, ufficialmente parte della struttura del regime fascista, bisogna riconoscere che nel campo dell’editoria di montagna l’attività della sezione alpinistica del GUF di Milano si dimostra l’unica in grado di prendere una direzione che anticipa di qualche decennio quella delle future pubblicazioni.

Meno avanguardistica, ma ormai libera dalle influenze del regime è l’ultima pubblicazione presa in esame, la testata «Alpinismo» edita ogni due mesi dal 1948 a Milano, diretta nuovamente da Sandro Prada. Questa volta in vesti decisamente meno altisonante, l’editoriale di apertura recita “La raccolta di «Alpinismo» costituirà la più moderna e documentata antologia enciclopedica della montagna” (28), e il primo articolo è proprio dedicato alla definizione di “alpinismo”, che ritorna ad essere un semplice e puro “amore per la montagna”. Gli altri articoli che compongono il primo numero sono di vario genere, ad esempio troviamo un taglio più culturale in “La montagna e la pittura” di Ettore Cozzani, una rubrica di recensioni librarie “I libri – Le istituzioni”, un’altra dedicata alla storia dei materiali “Blasoni e antenati dei ramponi da ghiaccio” di Mariuccia Zecchinelli, in una varietà che come da programma risulta antologica e aperta ad ogni tipo di appassionato di montagna.

(28) Sandro Prada, “Editoriale” in «Alpinismo», numero 1, 1948.

Capitolo II. Le riviste dagli anni Sessanta agli anni Novanta
«Rassegna Alpina»
Alla fine degli anni Sessanta la crescita del livello culturale medio, e della coscienza della popolazione, portarono ad un momento di evoluzione della società e in particolare ai movimenti del Sessantotto. Complice comunque anche il sempre maggiore sviluppo economico e dunque la possibilità di svolgere attività precedentemente legate solo ai ceti più abbienti, nacquero alcuni gruppi di giovani studenti e lavoratori, appassionati di montagna e sostenitori delle nuove idee di libertà e indipendenza, che pensarono di unire le proprie passioni e di portare tutto su carta stampata. Il primo esempio di queste testate fu «Rassegna Alpina», nel 1967.

Fondata a Milano appunto nel 1967, da Lelio Bernardoni e dal figlio Luigi, «Rassegna Alpina» fu una delle prime riviste private di settore, e fu inizialmente un impegno portato avanti dal padre Lelio e del figlio Luigi, l’uno dando spazio alla tematica e al mito degli Alpini, l’altro condividendo la neonata passione alpinistica con il gruppo di amici che frequentava. Successivamente questo gruppo di amici s’impegno sempre più nella redazione della rivista, fino a prenderne la direzione, rappresentata da Franco Brevini, nel 1970. Tale gruppo di giovani vide infatti nella rivista già avviata una potenziale piattaforma attraverso la qual trasmettere il proprio modo di vedere e vivere la montagna, e la vita. Attraverso la montagna, vissuta e raccontata, desideravano soprattutto trasmettere un forte segnale di ribellione rispetto al sistema che dominava la società. Tra le righe che narravano scalate, o che raccontavano e descrivevano valli più o meno note, si avvertiva quasi sempre una sfumatura polemica e provocatoria, che non perdeva mai occasione di farsi sentire.

La rivista è stato uno dei primissimi momenti in cui quel mondo della montagna si è ribellato: allora era un mondo chiuso, istituzionale, il mondo della montagna era il mondo del CAI, delle sezioni del CAI. […] Noi che avevamo l’antiautoritarismo nel sangue, abbiamo cominciato a fare rumore, e io scrissi un pezzo contro i metodi di insegnamento del CAI su «Lo Scarpone». Da lì ebbe inizio la nostra ribellione. Poi ci fu la possibilità di prendere in mano la rivista che il padre di un amico aveva messo in piedi, «Rassegna Alpina». Da quando la gestimmo noi si chiamò «Rassegna Alpina Due».
Vedemmo in questa rivista delle potenzialità, e iniziammo a far circolare un’aria nuova in quel mondo: scrivevamo contro il Club, contro il Cervino come simbolo assoluto dell’alpinismo, contro gli Alpini. A scrivere eravamo un po’ tutti, forse io un po’ di più, poi c’era Claudio Cima, Mauro Mattioli e altri. Eravamo dei provocatori
(1)”.

(1) Brevini F. Intervista rilasciata il 12 gennaio 2018.

Figura 9 «Rassegna Alpina», numero 1, anno 1967.

Nonostante l’avventura di «Rassegna Alpina» sia durata poco più di sette anni, compreso il cambiamento importante al numero 28 di gennaio e febbraio 1973, con Franco Brevini nuovo direttore, e il cambio di titolo di testata in «Rassegna Alpina Due», si può dire che questa pubblicazione sia stata un punto di partenza originale e di ampio respiro per le riviste private di montagna in Italia.

Il gruppo di giovani che fondarono la rivista infatti si avvalse da subito di un Comitato di Presidenza costituito da nomi appartenenti alla migliore cerchia di alpinisti ed esperti di montagna dell’epoca: primo tra tutti Riccardo Cassin, con Lino Lacedelli, seguiti da Severino Casara e, avanzando con le annate della rivista, arrivando fino a Reinhold Messner. Tra i collaboratori c’erano Alessandro Gogna, arrampicatore, alpinista e scrittore di montagna, Paolo Gobetti, che pochi anni dopo sarebbe stato tra i fondatori de «La Rivista della Montagna» a Torino, e lo stesso Franco Brevini. Se il direttore redazionale era Luciano Viazzi, “un nome del campo della letteratura alpina ha già acquisito simpatie e consensi […] uomo che per la montagna vive e che sa trasferire su questo argomento il più elevato impegno professionale” (2), a firmare gli editoriali in qualità di direttore editoriale era Lelio Bernardoni. Leggendo il primo editoriale si trovano i principi che ispireranno la rivista per tutta la sua durata:
La nascita di «Rassegna Alpina» è anche un atto di fede e d’amore verso quegli ideali di vita che nella montagna trovano molteplicità di espressioni. Nell’era in cui il divismo, il ritmo, la velocità fine a sé stessa, le iniziative più fatue e superficiali vengono elevati a culto, noi ci rifiutiamo di essere scettici. Anzi crediamo che, soprattutto ora, l’uomo avverta la necessità di risaldare il contatto con la natura (3)”.

(2) Bernardoni L. “Editorialein «Rassegna Alpina», numero 1, 1967.
(3) Bernardoni L. “Editorialein «Rassegna Alpina», numero 1, 1967.

Da subito la redazione mostra la forte la volontà di contrastare consumismo, velocità e superficialità della vita moderna: bersaglio di questo attacco sono spesso la creazione di impianti sciistici, e in generale la diffusione di un’idea di montagna come luogo di turismo di massa, di piacere, divertimento e comodità, a discapito della natura e della vita selvatica (“Requiem per un lago – Lago di Mezzola come Sesto San Giovanni” di Lelio Bernardoni, numero 2, 1968; “Madesimo ama il cemento, odia gli abeti” di Eugenio Sebastiani, numero 4, 1968). Non solo articoli di polemica, ma anche informazioni utili (“Come difendersi dalle valanghe”, di Fritz Gansser, numero 7, 1968), relazioni tecniche, resoconti di scalate avventurose, oppure guide a valli e regioni, o parchi. E ancora recensioni di libri, e approfondimenti di cultura alpina, antropologia ed etnografia (“Storia e folklore nella valle dei Mocheni, la linguadi Teresio Ghione, numero 3, 1968).

Dopo poco «Rassegna Alpina Due» chiuse, prima che riuscissimo a metterci in contatto con il gruppo di Torino che si era organizzata per realizzare «La Rivista della Montagna». Potremmo dire che non siamo riusciti a crescere le piante che avevamo seminato, però siamo stati i primi, e siamo stati degli ottimi disturbatori (4)”.

(4) Brevini F. Intervista rilasciata il 12 gennaio 2018.

«La Rivista della Montagna»
Mentre a Milano le nuove provocazioni di «Rassegna Alpina» e della sua redazione non ebbero grande risonanza, a Torino stava nascendo qualcosa destinato ad avere una vita duratura e ricca di soddisfazioni: «La Rivista della Montagna».

Come fa notare Enrico Camanni (giornalista e storico dell’alpinismo, nonché redattore per «La Rivista della Montagna» dalla fine degli anni Settanta fino al 1985) fu Torino, più che Milano, ad essere la città italiana in cui maggiormente si è scritto di montagna, di escursionismo, di sci, di cultura alpina. Certo favorita dalla posizione geografica, e dall’importante concentrazione di potere che vide, negli stessi anni in cui andava sviluppandosi un’attenzione per l’alpinismo e per la montagna, Torino ha avuto un ruolo fondamentale, prima per la nascita del Club, poi per lo sviluppo successivo di un’editoria specializzata.

Ma dopo un secolo di vita di Club Alpino Italiano, e una straordinaria diffusione e crescita del numero di sezioni e di associati in tutta la penisola, nella seconda metà del Novecento l’istituzione iniziava, complici i nuovi stili di vita e di pensiero che dagli anni Sessanta avevano preso piede, a perdere la sua centralità.

«La Rivista della Montagna» affondava le sue radici nelle volontà di un gruppo di giovani che frequentava proprio le sottosezioni del CAI torinese:
Il CAI UGET (Unione Giovani Escursionisti Torinesi) era una sottosezione nata nel 1913, in origine non era parte del Club alpino. In verità era sorta proprio in alternativa al CAI, in quegli anni in cui il piacere della frequentazione della montagna iniziava a diffondersi anche tra artigiani e commercianti. Infatti l’UGET parla di escursionismo, non alpinismo. Fu solo quando il fascismo volle assoggettare l’UGET all’Opera Dopo Lavoro che la presidenza pensò di spostarsi sotto lo stemma più indipendente del Club Alpino Italiano, piuttosto che sotto quello fascista, e diventò così una sottosezione, facendo un gioco molto intelligente (5)”.

(5) Dematteis P. Intervista rilasciata il 17 gennaio 2018.

Piero Dematteis oltre ad essere ufficialmente il fondatore della «La Rivista della Montagna», insieme a due soci e amici, ne fu il principale ideatore, colui che diede lo spunto e le linee guida di quella che sarebbe diventata un punto di riferimento nel settore dei periodici di montagna. Dopo un passato non proprio soddisfacente da studente, aveva infatti rilevato nel 1962, poco più che ventenne, una libreria specializzata in architettura. Contemporaneamente si era sempre dedicato alla montagna, insieme ai fratelli Luigi e Giuseppe. Iniziò a praticare scialpinismo con il gruppo della SUCAI (Sezione Universitaria del Club Alpino Italiano), ma presto diventò parte del gruppo di ragazzi dell’UGET con i quali approfondì la pratica dello scialpinismo, organizzando in maniera amatoriale anche dei corsi. Si accorse così della mancanza di un periodico che trattasse di quel settore, o meglio, che quella presente non soddisfaceva pienamente le esigenze degli appassionati.

Noi, gruppo di giovani che hanno ideato «La Rivista della Montagna», abbiamo pensato di farlo perché trovavamo un limite nelle altre riviste. […]. Non esistevano più monografie specifiche con itinerari. Cosa che invece negli anni Trenta c’era […]. Quando pensammo di fare «La Rivista della Montagna» si trovavano perlopiù i racconti di scalata, spesso anche noiosi. Noi non abbiamo inventato niente, ma ad ogni modo, parlando tra noi, avvertivamo questo senso d’insufficienza. […] Volevamo creare qualcosa per un pubblico di praticanti, non di spettatori di grandi imprese: allora l’offerta delle riviste presenti era per lettori di montagna, ma il pubblico degli appassionati richiedeva altro. La nostra rivista doveva essere uno strumento utile. E ai nostri contenuti volevamo dare un taglio pratico e documentaristico (6)”.

(6) Dematteis P. Intervista rilasciata il 17 gennaio 2018.

Il primo passo fu la creazione, nel 1970, di una casa editrice, il cui nome era Centro Documentazione Alpina: «La Rivista della Montagna» sarebbe stata un’iniziativa del CDA, e la sede sarebbe stata in via Sacchi. Centro operativo delle iniziative fu la libreria di Dematteis e il suo retrobottega, che divenne luogo di riunioni e incontri negli anni successivi. Oltre a Dematteis, il nucleo di partenza de «La Rivista della Montagna» era composto da altri due soci. Uno era Silvio Colombino, ex compagno di liceo di Dematteis, che aveva aperto un suo studio di organizzazione aziendale. Colombino da subito seguì la parte amministrativa, economica e organizzativa, e fu sua l’idea di svolgere un’indagine di mercato prima di lanciare «La Rivista della Montagna».

Un gruppo di giovani alpinisti piemontesi ha recentemente costituito a Torino un Centro di Documentazione Alpina, per la raccolta e lo studio del materiale utile alla conoscenza di ogni aspetto della montagna. Tra le altre iniziative essi hanno pensato a una «Rivista della Montagna» su cui pubblicare i risultati più interessanti delle proprie ricerche. Gli alpinisti e gli appassionati della montagna in genere vi potranno trovare un’utile documentazione su itinerari alpini di vario impegno; descrizioni monografiche di zone e gruppi meno conosciuti; note di carattere scientifico sulla natura alpina ed infine la trattazione, in prospettiva sia storica che attuale, del mondo e della civiltà alpina nei suoi vari aspetti etnici, economici e sociali. Questo, in sintesi, il programma della nuova rivista, dedicata in modo particolare agli alpinisti che intendono la pratica della montagna come una forma di arricchimento culturale, oltre che un fatto sportivo o una piacevole forma di evasione contemplativa (7)”.

(7) Questionario distribuito dal Centro Documentazione Alpina (1970).

La presentazione era seguita da un elenco di argomenti che sarebbero potuti essere i temi trattati da «La Rivista della Montagna», e su cui il compilatore del questionario poteva esprimere una preferenza. Tra le possibilità di scelta c’erano “Itinerari alpinistici”, “Itinerari sci-alpinistici”, “Itinerari escursionistici e naturalistici”, “Situazione rifugi e punti d’appoggio, strade”, “Relazioni di ascensioni ad alto livello”, “Equipaggiamento, attrezzatura e tecnica alpinistica”, “Sci su pista”, ma anche “Protezione della natura e del paesaggio”, “Arte e architettura”, “Fotografia e cinematografia”, “Canti alpini”, “Aspetti economico-sociali della montagna”. Sul questionario si indagava anche su quale fosse l’interesse degli appassionati ad un’eventuale collaborazione a «La Rivista della Montagna», si chiedeva se ci fossero persone interessate alle modalità di inserzione pubblicitaria, si chiedevano in ultimo i dati della persona. I volantini vennero distribuiti a mano, tra le sezioni del CAI di Torino e tra amici e conoscenti. È interessante notare come questo metodo di indagine “dal basso” sarà poi ripreso dai creatori della rivista di arrampicata e alpinismo «Pareti» negli anni Novanta. Quella dei questionari fu un’operazione mirata e utile, che diede buoni risultati, e permise al CDA di iniziare a lavorare al primo numero de «La Rivista della Montagna»: sarebbe stata trimestrale, e quattromila copie sarebbero uscite in edicola ad un prezzo di 1.200 Lire.

Il primo numero è stato un impegno enorme: dovevamo andare in tipografia dalla parte opposta di Torino. Quella scelta da Silvio Colombino, la STIP di via Borgaro, era una piccola tipografia, con la quale avevamo un buon rapporto. Chi lavorava nell’editoria sapeva impaginare, consegnava tutto pronto, e passava a ritirare il lavoro stampato. Noi invece dovevamo imparare tutto (8)”.

(8) Dematteis P. Intervista rilasciata il 17 gennaio 2018.

Figura 10 «Lo Scarpone», numero 1, anno 1975.

Il terzo socio del gruppo di partenza era Luciano Muzzarini, che si occupava invece della parte grafica: mentre le fotografie venivano chieste ad amici e conoscenti che fotografano in montagna, i quali davano volentieri le proprie foto a «La Rivista della Montagna», l’impaginazione grafica di testi, foto e cartine geografiche era seguita da Muzzarini, che non era un tecnico ma mostrò grandi capacità e sensibilità da subito.

Fu sotto la sua supervisione che la redazione s’impadronì –nelle ore piccole della notte- della misteriosa arte di correggere le bozze e di apporre i segni grafici, imparò a titolare correttamente articoli e servizi, a sistemare occhielli, sommari e didascalie, e soprattutto a scegliere le fotografie e a stare negli spazi previsti per rispettare l’equilibrio delle pagine (9)”.

La scelta grafica cadde dall’inizio su un elegante bianco e nero, che si mantiene fino al 1975. «La Rivista della Montagna» si presentava moderna e originale, di forma squadrata (19,8 x 23,4 cm), aveva una copertina spessa. Le pagine alternavano sfondo bianco e sfondo nero, e grande spazio era lasciato alle immagini e alle cartine dei gruppi montuosi o degli itinerari.
Alcune cartine le disegnava Muzzarini, altre il signor Pocchiola. Noi davamo lo schema e lui scriveva i nomi, tutto svolto con la tecnica dei trasferibili (10)”.

(9) Mantovani R, “Editoriale” in «La Rivista della Montagna», numero 278, anno 2005.
(10) Dematteis P. Intervista rilasciata il 17 gennaio 2018.

Oltre ai tre soci fondatori, a scrivere per «La Rivista della Montagna» si ritrovò un gruppo redazionale più o meno stabile, di giovani appassionati di montagna, nei suoi diversi aspetti:

Eravamo Silvio Colombino, io e Luciano Muzzarini. E poi Giulio Berutto, Marziano di Maio, speleologo e grande studioso non accademico, Paolo Gobetti, figlio di Piero Gobetti, Ferruccio Jöchler, Andrea Mellano e Giampiero Motti, alpinisti di punta del torinese, Claudio Minelli, Carlo Viano, giovane architetto. Oltre a questo gruppo centrale che formava la prima redazione, c’era un gruppo più esteso di collaboratori. Tutti erano volontari, tutti avevano altri impieghi per mantenersi. Le motivazioni di ognuno erano più ideali che economiche. Ma comunque dovevamo stare nel mercato (11)”.

(11) Dematteis P. Intervista rilasciata il 17 gennaio 2018.

I contenuti del primo numero furono coerenti con le parole espresse nel programma de «La Rivista della Montagna»: all’interno dell’ordinato e semplice sommario era possibile leggere “La Punta Cristallera – Monografia Alpinistica”, “Itinerari sci-alpinistici nell’alta Valle dell’Arc”, “Un’escursione al Colle Sià”, ma anche “La Fiera di Sant’Orso ad Aosta”, “Canti Popolari in Val Varaita”, e poi “Selezioni bibliografiche”, “Attrezzatura e tecnica”, fino agli innovativi “Itinerari staccabili”. Su «La Rivista della Montagna», come su «Rassegna Alpina», non mancavano approfondimenti sul tema della protezione ambientale, in anni in cui il turismo nelle aree montane stava creando le basi per uno sviluppo del settore turistico di massa, con gravi danni all’ambiente. Ma mentre «Rassegna Alpina» risultava assumere dai primi numeri una connotazione polemica, quello che traspare dalla nuova rivista torinese è un forte slancio culturale: sul numero quattro dell’aprile 1971 leggiamo “Natura da salvare – Realtà e problemi” o “Protezione della natura e presenza umana nella montagna”.

Dall’indagine attraverso il questionario alla pubblicazione dei primi numeri si comprese dunque che «La Rivista della Montagna» avrebbe avuto un seguito e una ragione di esistere, e nonostante inizialmente la redazione avesse deciso di darsi un unico limite, quello geografico, occupandosi solo delle Alpi Occidentali, nel 1973 il gruppo di collaboratori si iniziò a domandare se non fosse possibile ampliare la trattazione anche alle altre aree dell’arco alpino, specialmente verso il Trentino. Questo avrebbe certamente portato un maggiore impegno da parte di tutti, così Dematteis si trovò a dover scegliere tra la libreria, che col tempo stava abbandonando la specializzazione in architettura, e si stava sempre più diventando una libreria per appassionati di montagna, e la direzione de «La Rivista della Montagna». Decise di lasciare la direzione della rivista, restando però attivo all’interno della redazione, e al suo posto venne scelto Alberto Rosso, il quale restò per poco tempo: un incidente stradale ne causò la morte dopo un anno. Il successivo direttore fu Gian Piero Motti, che con la sua forte personalità intellettuale diede a «La Rivista della Montagna» una nuova profondità, un taglio spesso più filosofico, pur mantenendo l’impianto originario. Motti restò direttore fino al 1977, continuando a collaborare poi come redattore: dal 1977 fino al 1983 fu Giorgio Daidola ad organizzare e dirigere la Rivista.

Durante il periodo della mia direzione «La Rivista della Montagna», ancora nel formato originario (qualcuno lo ricorderà: più piccolo dell’attuale) passò da trimestrale a bimestrale. […]. Sono diventato direttore quasi senza volerlo, e questo ha senz’altro giovato al mio stile di direzione, basato sull’attribuire molta importanza ad una redazione formata soprattutto da compagni di avventura in montagna. Senza negare importanza alla professionalità giornalistica, ho infatti sempre ritenuto essenziale, per rendere la rivista qualcosa di più di una serie di articoli, sviluppare con i redattori e i collaboratori un rapporto sul campo. Ed è proprio sul campo, durante le traversate scialpinistiche, le arrampicate a Finale Ligure, o in Dolomiti […] che sono nate le idee migliori per «La Rivista della Montagna»” (12).

Durante questi anni l’apparato grafico venne rinnovato e avanguardistico fu l’utilizzo di computer Apple per la redazione degli articoli e per l’impaginazione, già dagli anni Ottanta (13).

(12) Daidola G. Intervento alla Presentazione della nuova «Rivista della Montagna», Torino, 5 luglio 1996.
(13) Colombino S. Intervista rilasciata il 7 febbraio 2018.

È sempre sotto la direzione di Giorgio Daidola che si assiste ad un’apertura verso orizzonti più internazionali, con la nascita della rubrica “Sulle grandi riviste”, in cui venivano riportati i migliori e più importanti articoli della stampa internazionale specializzata sulla montagna e sull’alpinismo. Vi si trovavano articoli da riviste europee, americane, giapponesi. Importanti erano anche le collaborazioni con alpinisti di fama internazionale, come Bernard Amy. Tanto spazio venne sempre dato alla cultura, con i pezzi di profonda riflessione intellettuale di Gian Piero Motti, la cultura di Paolo Gobetti. Continuarono ad esserci, contemporaneamente, originali monografie su itinerari in valli alpine poco conosciute, ed approfondimenti sui grandi temi legati alla salvaguardia dell’ambiente, al rapporto con le popolazioni montane.

Dopo la direzione di Daidola, dall’Ottobre 1985 divenne direttore Roberto Mantovani: arrivato a «La Rivista della Montagna» già alla fine degli anni Settanta, Mantovani rappresentava uno dei redattori più presenti, e si trovò a prendere le redini della rivista in un momento di grandi cambiamenti. Nel 1985 infatti Enrico Camanni e Furio Chiaretta lasciarono la redazione de «La Rivista», per tentare di aprire un’altra testata: dopo un primo tentativo fallito, incontrarono l’editore Giorgio Vivalda, che permise loro di lanciare «ALP».

«La Rivista» dunque, in un momento in cui l’editoria periodica funzionava, e in cui si stava sempre più diffondendo interesse per argomenti quali la natura, l’escursionismo, il benessere, si trovò ad affrontare la concorrenza di un mensile graficamente modernissimo e spettacolare. Contenutisticamente parlando si riscontravano immediatamente delle grandi differenze.

Nella storia della testata la mia direzione è stata la più lunga, e forse anche una delle meno semplici, non fosse altro che per i profondi mutamenti che hanno coinvolto il mondo della montagna negli anni Ottanta. In dieci anni l’universo alpino si è trasformato radicalmente. Per lo meno su due fronti: quello dell’arrampicata e dell’alpinismo, e quello ambientale. […] Per dieci anni abbiamo registrato fedelmente i cambiamenti, raccolto testimonianze, approfondito temi e problemi (14)”.

(14) Mantovani R. Intervento alla Presentazione della nuova Rivista della Montagna, Torino, 5 luglio 1996.

«La Rivista della Montagna» negli anni Ottanta continua così ad essere un punto di riferimento per quel pubblico di appassionati di montagna che ama l’approfondimento e la tradizione di una rivista che per molti anni era stata l’unica. Osservando le uscite dal 1985 in poi si può notare un importante rinnovamento grafico. Già dalla seconda metà degli anni Settanta il colore era apparso nelle fotografie, non solo in copertina, ma anche all’interno de «La Rivista»: sulla copertina erano apparse scritte colorate con anticipazioni dei servizi che si trovavano all’interno. La pubblicità era andata sempre più aumentando. Ma anche per quanto concerne i contenuti si possono osservare degli sviluppi: già dall’inizio degli anni Ottanta avevano iniziato ad apparire sempre più monografie su luoghi remoti. Ad esempio, sul numero 41 dell’estate del 1980 apparivano articoli come “Alpinismo in libertà – Sudamerica”. Il ventaglio delle discipline praticabili in montagna si allargava allo sci estremo, allo snowboard (anche chiamato “surf da neve”), senza parlare dell’estremo sviluppo dell’arrampicata.

Ci fu una spinta propulsiva enorme dell’arrampicata libera, impensabile qualche anno prima. Il grosso impulso fu negli anni Sessanta e Settanta e l’origine potremmo fissarla alla pubblicazione di quell’articolo di Reinhold Messner nel 1968, ‘L’assassinio dell’impossibile’, segno che un’intera generazione di stava ribellando all’idea che il futuro dell’arrampicata dovesse passare per forza dall’artificiale (15)”.

(15) Mantovani R, Intervista rilasciata il 5 dicembre 2017.

Figura 11 «La Rivista della Montagna», numero 1, anno 1970.

Il 1985 fu anche il primo anno delle gare di arrampicata internazionali, “Sport Roccia”, a Bardonecchia, organizzate e promosse dal giornalista e scrittore Emanuele Cassarà, e da Andrea Mellano, forte alpinista degli anni Sessanta. Chiaramente «La Rivista della Montagna» seguì giorno per giorno le competizioni, una assoluta novità nel mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo, seguite da polemiche e riflessioni di sportivi ed esperti.

È evidente che dal momento della nascita di «ALP», «La Rivista della Montagna» dovette mostrare un maggiore impegno e una volontà di presenza forte. Dal numero 72 di gennaio 1986 «La Rivista» uscì con dieci numeri annui, cambiando radicalmente anche il formato e diventando più grande (21×28 cm). La copertina venne modificata da quella in cartoncino opaco a una nuova carta patinata. Le foto diventavano sempre più protagoniste. Interessante la proposta “stagionale” dei numeri speciali dedicati allo sci a marzo («Dimensione Sci»), all’escursionismo a maggio («Tempo di Sentieri»), all’alpinismo a luglio («Momenti d’alpinismo») e all’arrampicata in autunno. Intanto anche il prezzo della rivista era aumentato, e dalle originarie 1.200 Lire si era passati alle 5.000 a metà degli anni Ottanta. L’editoriale di Mantovani del gennaio 1986 recitava queste parole:
Certo che un cambio d’abito ci voleva: passare al tutto colore e al formato più grande, ed evolversi senza comunque rompere con la nostra immagine. Perché «La Rivista» ha tutto un suo spazio e una collocazione precisa, che ben le s’adattano. […]. La facciata dell’edificio è stata ridipinta. Ma niente paura, nessun ripiegamento. «La Rivista» rimane in prima fila. E ci resta con un prodotto ancora migliorato nei contenuti, oltre che nel formato e nelle fotografie: ad articoli monografici di grosso respiro come quello sul bicentenario della prima salita al Monte Bianco […], o come in notevole lavoro sull’arrampicata nel Cagliaritano, si affianca ora un nuovo modo di proporre l’attualità. Oltre la notizia è il titolo della rubirca che se ne occupa […]. Non mancano infine le informazioni sull’alpinismo, la rubrica dei libri, i materiali […] (16)”.

(16) Mantovani R. “Editoriale” in «La Rivista della Montagna», numero 72, anno 1986.

Ma i cambiamenti, non solo del mondo dell’alpinismo, ma anche in quello dell’editoria, portarono entusiasmo ma anche difficoltà. Roberto Mantovani lasciava dopo dieci anni di direzione «La Rivista della Montagna», per cedere il posto a Pietro Giglio, nel 1996.

Esattamente dieci anni dopo quel “cambio d’abito” che era stato necessario per riportare «La Rivista» al passo coi tempi, e al passo con gli anni Ottanta, era importante un nuovo rinnovamento. Fu per questo che, sotto la direzione di Pietro Giglio, giornalista professionista, «La Rivista della Montagna» cambiò ulteriormente forma, riproponendosi in edicola con un logo rinnovato, e la volontà di restare all’interno di un mercato sempre più concorrenziale e difficoltoso.

Sfogliando «La Rivista» risulta evidente che sono stati apportati significativi cambiamenti anche nella concezione delle pagine interne, agendo contemporaneamente in due direzioni: scegliere una grafica ariosa ma equilibrata per migliorare la leggibilità, ed esaltare le immagini, non come icone spettacolari a sé stanti, ma come livello di lettura e interpretazione della realtà trattata (17)”.

(17) Giglio P. Intervento alla Presentazione della nuova Rivista della Montagna, Torino, 5 luglio 1996.

Questa “realtà trattata” all’interno della Rivista veniva riporta al lettore con la consueta varietà di tematiche ed argomenti, sempre ben approfonditi, con attenzione all’attualità. Emblematico il reportage del numero 3 del marzo 1996 “Pakistan, che succede ai piedi delle grandi montagne – Testimonianze da un paese caldo” di Renato Scagliola, seguito subito dopo da un resoconto tecnico di arrampicata “Les Sindacalistes – Cronaca di un 8c+/9° nella Bergamasca” di Beppe Dallona, insieme a molti altri contenuti.

Pietro Giglio continuò a dirigere «La Rivista della Montagna» fino alla fine del 2000. Dal numero di febbraio 2001 ritornava ad essere direttore Roberto Mantovani, in un momento in cui la rivista si trova molto in difficoltà. Una nuova veste grafica presentava «La Rivista della Montagna» in edicola con il numero 245, ma le intenzioni della redazione restavano immutate, “anche nell’era di Internet” (18), con la coscienza che anche l’ambiente della montagna, così come quello dell’editoria, fosse in rapido mutamento. Poco tempo dopo infatti, si assistette ad un evento editoriale di fusione tra il Centro Documentazione Alpina, editore della rivista dall’ormai lontano 1970, e Vivalda Editore, che pubblicava dal 1985 proprio «ALP» il periodico che rappresentava la maggior concorrenza a «La Rivista della Montagna». Il nuovo editore CDA-Vivalda continuò dunque la pubblicazione di entrambe le riviste. Nel 2007, con il numero 288, si assisteva ad un nuovo, ma modesto, rinnovamento grafico de «La Rivista», seguito da uno ulteriore, molto più forte con il numero 294: «La Rivista della Montagna» cambiava nuovamente il logo e l’impostazione grafica, pubblicata con il nome RdM, e in una veste che seguiva le tendenze del momento. È stato nel 2009 che CDA-Vivalda ha deciso di chiudere «La Rivista della Montagna» (di cui è rimasto solo il nome, sottotitolo di «ALP») con l’ultimo numero, il 304 di ottobre/novembre. La vita di questa rivista, primo esempio di un giornalismo “di montagna”, che aveva aperto la strada (all’inizio in modo assolutamente artigianale, ma comunque serio, poi sempre più professionalmente) a un intero settore, e che ne era stata riferimento per quasi quarant’anni, si andava dunque ad unire a quella del magazine più moderno, nato proprio “da una sua costola”, con la grinta tipica dei più giovani. Sarà proprio «ALP», infatti, a portare avanti la tradizione della Rivista della Montagna, con le sue caratteristiche, certo, ma con la stessa volontà di creare un prodotto di alto livello e contenuto.

(18) Mantovani R. “Editoriale” su «Rivista della Montagna», numero 245, anno 2001.

(continua)

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