Cerro Torre – 02: il diario di Cesare Maestri del 1959

Cerro Torre 1959: il diario di Cesare Maestri
dal libro Arrampicare è il mio mestiere
di Cesare Maestri
(con raffronto con il diario di Cesarino Fava + note Ermanno Salvaterra=NdES)

Capitolo decimo
Orgoglio

Come è sereno il cielo oggi. Come è calda di sole la terra, come sono ingiallite le foglie degli alberi e delle viti. C’è odore di autunno in giro. Lo si respira ovunque, nel vino nuovo, nella campagna appena brumata, nelle foglie secche che i contadini raccolgono.

In mezzo a questa felicità di colori e di profumi, io mi sento pesante e triste. Fra pochi giorni partirò. Lascerò l’Italia per ritornare laggiù, lontano, al Cerro Torre.

Eppure dovrei essere felice. Continuerò l’opera iniziata dalla prima spedizione. Mi batterò come un gatto ferito. Con questo pensiero in testa, non so più resistere fra la gente.

Questa è la foto che in seguito fu contestata. Vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/ancora-su-maestri-e-sul-cerro-torre/. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

Conosco un posto solitario sopra Trento, che si chiama Maranza: è una bassa montagna, senza importanza, ma credo sia la prima che salii da bambino. In quel lontano giorno arrivai al piccolo rifugio per una strada militare e passai la giornata giocando con il mio fratellino. Quando ridiscendemmo, mi dolevano i piedi, non abituati agli scarponi. Li levai e proseguii scalzo.

Come è lontano questo ricordo. Non voglio più vedere gente. Prendo la macchina e salgo lungo la strada che porta in Maranza attraverso un bosco rado.

La mia macchina scorre lieve su tappeti giallo-verdi di foglie cadute, il rumore del motore mi dà noia, mi fermo e lo spengo.

Da questa curva posso vedere tutta Trento, la valle, il Bondone di fronte a me sembra avvampare tante sono le pennellate del rosso autunnale dei faggi. Sotto di me, dolcemente degrada il bosco della Maranza.

Il mio essere percepisce i toni sfumati di questa magnifica tela, il verde cupo degli abeti, il giallo dei larici, il rosso dei faggi. Quassù l’estate è già in declino, a fondo valle i colori si fanno più pastosi e meno vivaci.

Morirò al Torre. Certamente morirò al Torre. E’ un pensiero fisso. Mi sembra che i colori del bosco lo scrivano sullo sfondo verde cupo. Perché vado a quella montagna? Eppure sono un uomo di principi. La vita non si deve gettare. Partirò per il Torre. Mi aggrapperò alle sue pareti con la forza della disperazione. Salirò sulla sua cima. Con il compagno o senza. Ma non tornerò. Sono sicuro che il Torre mi prenderà come ora mi prende, mi serra la gola la vista di questi stupendi colori e della mia città appena annebbiata da un velo di fumo che si sfalda ai margini.

Quanta tristezza dentro di me, dove è finita la straripante voglia di vivere? Lacrime mi scorrono lungo il viso, se so di morire perché vado? Per orgoglio. Sono un uomo e sono orgoglioso. Mi accorgo di averlo urlato a squarciagola tanto che da un cespuglio fuggono spaventati alcuni fringuelli montani.

Ma non ci si uccide solo per orgoglio. Allora cerco disperatamente di capire quali sono gli impegni che mi spingono al Torre. Il denaro degli amici, il fatto di aver impegnato tutti i miei risparmi, di aver venduto la macchina, di aver dichiarato che il Torre “non è impossibile”, di aver promesso a me stesso che arriverò in cima.

Potessi ritornare a rivedere questi colori, ma forse i miei occhi non li rivedrebbero più così caldi e pastosi. Potessi morendo ricordare questo momento di pace, queste fiammate di colori. Potessi morire ora, con gli occhi pieni di lacrime e di bellezza e con la coscienza di non avere mai rischiato la vita per cose banali come la vanità o l’orgoglio.

Capitolo undicesimo
Cerro Torre, seconda spedizione
Partenza

Almeno partisse in fretta questo treno. Stringo i denti per non lasciarmi vincere dalle lacrime, respiro profondamente e finalmente mi stacco dai volti tesi dei pochi amici che sono venuti a salutarmi. La stazione si illumina a tratti, le colonne si uniscono, diventano quasi un muro, il gruppo di amici pare di pietra sullo sfondo acceso della mia città dalla quale mi allontano.

Gli amici mi hanno guardato in uno strano modo. L’ultima parola che sono riuscito a sentire: “torna”.

Mi sento come se arrampicassi da solo, ho i nervi tesi e la bocca arida e davanti a me c’è l’ignoto; ci sono le desolate pianure della Patagonia che devo attraversare per arrivare sulla cima del Torre e, forse, per non ritornare mai più.

Mai mi sono avvicinato a una parete giocando d’azzardo, mai ho detto: “La cima o io”, ma questa volta la posta è grande, talmente grande che non si tratta più di alpinismo. Questa volta la posta è mescolata con la vanità, l’orgoglio, la tristezza, la malafede, il diritto e la coscienza. La coscienza di essere nel giusto, la coscienza di essere uomo, la coscienza della coerenza.

Ho tanto tempo davanti a me prima di arrivare a Buenos Aires, dieci ore di treno e trenta di aereo, quaranta ore per pensare e per cercare di vagliare obiettivamente i fatti, che oggi mi hanno portato a partire solo alla volta del Cerro Torre.

Quante fatiche, quanti sforzi, quanti avvilimenti mi è costato questo momento. Quanti sogni ho visto nascere e crollare da quando, dopo essermi abbandonato allo stato di abbattimento in cui mi aveva lasciato la prima spedizione e dopo essermi compiaciuto della mia tristezza, ho dovuto risvegliarmi e lottare.

Così piano piano, sono tornato alle pareti. Sono ritornato lentamente, quasi avessi timore, quasi volessi nascondere la tristezza che mi fiaccava i muscoli e mi intorpidiva il cervello.

Il lavoro e le salite con gli amici non riuscivano a cancellare la nostalgia del Torre e il bisogno fisico di ritornare laggiù, dove il vento corre impetuoso lungo le valli. Arrampicare non bastava più a farmi felice. La vista di cime stupende mi lasciava indifferente. Solo l’attimo incerto fra la vita e la morte, solo il freddo calcolo per vincere il pericolo riusciva a eccitarmi e a darmi un piacere fisico.

Avevo continuato ad arrampicare per trovare emozioni che non trovavo più in niente altro. Nulla poteva emozionarmi dopo essermi fissato per giorni e giorni le spaventose, lisce pareti del Torre.

Per tornarvi ho racimolato lira su lira chiedendo prestiti o elemosinando, vendendo tutto quello che di mio potevo vendere, rinunciando alla mia passione più forte, vendendo, cioè, perfino la mia automobile. I pensieri vorticano nella mia testa e girano velocemente come una macchina cinematografica improvvisamente impazzita. Quanti debiti ho fatto per poter salire su questo treno, quanta buona volontà ho trovato, quanti secchi rifiuti ho ricevuto, quanti rospi ho dovuto ingoiare.

Rivedo il Dain, la faccia di Baldessari quando gli chiesi se sarebbe venuto con me al Torre. Rivedo il suo entusiasmo mentre mi aiutava a scrivere alle varie ditte, ai generali, agli amici per avere denaro o viveri. Ricordo il nostro abbattimento quando fummo informati che, durante un’assemblea generale del CAI, all’annuncio della rinuncia a partire per il Torre da parte di Bonatti e Mauri, un consigliere aveva suggerito che il CAI facesse dei passi verso la Snia Viscosa perché venisse passato a me il contributo che la Snia aveva devoluto a favore di Bonatti, e che la proposta era stata lasciata cadere. Nonostante l’insistenza del consigliere ci fu negato l’aiuto dal CAI. Avevamo avuto la possibilità di leggere i verbali dell’assemblea e sapevamo che avremmo dovuto accontentarci di quanto eravamo riusciti a racimolare. Per fortuna un noto industriale di Milano, molto appassionato di montagna, mi offrì il viaggio in aereo per Buenos Aires.

E Claudio, povero Claudio. Aveva salutato già tutti, stava già per partire, quando era giunta la notizia che il Ministero della Difesa gli negava il permesso per la partenza.

Io non sapevo più che cosa fare, con chi partire. Quando improvvisa e inattesa mi giunse la lettera di Toni Egger: “Caro Cesare, offrirei volentieri la mai collaborazione per la tua spedizione. Dovrebbe riuscire un grande successo. Fammi sapere qualche cosa”.

Mi precipitai a Lienz con l’Aurelia che non era più mia. Gli amici che l’avevano comperata mi permettevano di usarla per sbrigare le ultime cose. In prossimità di San Candido un camion, una frenata, e il disastro fu inevitabile. Cozzai a più di cento chilometri all’ora contro l’autotreno, ne uscii incolume con un piccolo graffio sul naso, ma la macchina era diventata un groviglio di ferri contorti. La abbandonai ad alcuni alpini che avevano assistito all’incidente, e mi precipitai in treno da Toni. La prima parola che ci rivolgemmo fu: “Hai soldi?”
“Io no, e tu?”.
“Io avevo tre milioni fino a qualche ora fa, ma ora me ne rimangono solo due e mezzo”, e gli raccontai la storia dell’incidente.

Toni disponeva solamente di duecentocinquantamila lire. Pensai che qualche cosa saremmo riusciti a raccogliere a Buenos Aires. Decidemmo così di partire. Toni mi avrebbe seguito un mese dopo, poiché era ancora impegnato in un ciclo di conferenze.

Toni Egger sarà con me. Toni Egger, il fantastico vincitore dell’Jirishanca. Il Torre, ora, dovrà cedere.

A Toni avevo parlato chiaro, gli avevo detto: “Bonatti e Mauri hanno deciso di non partire; Couzy è morto e i francesi hanno rinunciato a fare la loro spedizione, Baldessari, che avrebbe dovuto venire con me, non può partire. Io sono deciso a tutto. Se anche tu Toni penserai che il Torre è una montagna impossibile, mi dovrai lasciare salire da solo”.

Ma ora tutto ha perso il suo valore. Ora che il treno mi porta verso il Torre, niente conta più: le parzialità del CAI, le polemiche, le menzogne, i sacrifici.

Tutto è proiettato nel futuro. Tutto è davanti a me: rosso e infuocato, ormai, c’è solo il Torre, con le sue pareti lisce, con le sue cupole di ghiaccio, con il vento che urla. E il resto non ha più valore e le cose passate, buone o cattive, si perdono nel rumore ritmico delle ruote.

Cafe Tortoni, locale storico di Buenos Aires

Ritorno a Buenos Aires
Le 20.55. La voce delle hostess ci avverte che siamo in vista di Buenos Aires, che la società sarà lieta di averci nuovamente ospiti, ci prega di non fumare e di allacciare le cinture di sicurezza. I motori diminuiscono il numero dei giri, esce il carrello illuminato dalle luci di ingombro che si accendono e si spengono a intermittenza. Un fascio potente di luce fredda illumina la pista d’atterraggio e con un molle tonfo l’aereo tocca terra.

Qualche cosa dentro di me si tende e il ronzio negli orecchi, la fitta nello stomaco non sono dati solo dal cambio improvviso di altezza. L’apparecchio fa un lungo giro e si ferma di fronte alla stazione aerea. Buenos Aires.

Sono ancora una volta in questa immensa città, che pochi mesi prima ho abbandonato salendo sulla nave che mi ha riportato in Italia così triste e demoralizzato.

Raccolgo le mie poche cose, uno zaino e un grosso pacco alla marinara. Al di là delle vetrate, mentre finisco le operazioni doganali, Lucchini, Fava, Bertotti e altri amici mi attendono impazienti. Pochi minuti dopo sono con loro, ci abbracciamo. Riusciamo a dirci poche cose, continuiamo ad abbracciarci e a chiederci notizie a vicenda, e saliamo sulla macchina di Bertotti che ci porta veloce verso la casa di Cesarino Fava.

Domande, ricordi. Giungendo in quella casa, ho l’impressione di non averla mai lasciata. Ritrovo la sorella di Cesarino, la moglie e la figlia di Lucchini, e mi sembra di essere sempre rimasto qui.

Poco dopo arrivano i quattro ragazzi che ci accompagneranno. Un po’ timidi e impacciati, si presentano: Juan Spikermann, studente in geologia, Gianni Dalbagni, studente in ingegneria, Angelo Vincitorio, studente in medicina, Augusto Dalbagni, studente in chimica. Tutti insieme non sommano ottant’anni. Sembrano bravi ragazzi, mentre parliamo li osservo bene. Juan è nato in Argentina, gli altri tre compagni sono italiani, vivono qui da dieci anni.

Beviamo e parliamo dell’Italia, degli amici. I ragazzi starebbero ad ascoltare tutta la notte, ma siamo stanchi e ci salutiamo. I quattro giovani escono uno dietro l’altro, io li vedo già carichi camminare con la testa bassa alla volta del Cerro Torre.

Sono triste e felice allo stesso tempo, abbraccio Cesarino e continuamente mi ripeto monotono: sono ritornato, ho ritrovato i miei amici. Il giorno dopo ricomincia la sarabanda per le vie cittadine.

Ci sono mille cose da comperare, viveri, legno per le cassette, bisogna far fare chiodi da ghiaccio, dobbiamo far visita a gente che ci può aiutare. Cesarino ha una piccola Fiat 500, questa macchina va a meraviglia in questo traffico infernale. Qui tutti corrono, tutti sorpassano a destra, e chi per cambiare direzione usa la freccia è un essere spregevole da fustigare.

Non ci sono precedenze, ci sono solo pochissimi semafori, è la legge del più forte, il grosso mangia il piccolo. Avessi la mia Aurelia. Quante volte la rimpiango. Ma qui vorrei avere un pesante carro armato.

Dopo qualche giorno il dottor Ugolini, segretario privato dell’Ambasciatore d’Italia dottor Babuscio Rizzo, mi accompagna in visita all’Ambasciata. Porto così all’ambasciatore d’Italia il saluto dei componenti la prima spedizione, e nuovamente lo ringrazio per quanto ha fatto in quell’occasione. L’Ambasciatore, sapendo sin dalla nostra ultima visita del mio desiderio di ritornare, si congratula con me per la perseveranza dimostrata e si dice nuovamente disposto ad aiutarci scrivendo al Ministero dell’Aeronautica Argentina per farci avere un aereo che gratuitamente ci porti al Sud.

Toni Egger. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

Sono giornate febbrili e continue corse attraverso questa città troppo grande. Il Circolo Trentino, che ha dato il patrocinio morale alla spedizione, ci permette di invadere i suoi locali con le nostre innumerevoli casse e cassette mentre Turbini, da trentacinque anni socio del Circolo e già suo presidente, si occupa di una sottoscrizione nell’ambiente trentino a favore della spedizione.

Oltre alle complicazioni normali, c’è la continua paura di veder spuntare da un momento all’altro la spedizione di Folco Doro D’Altan. Quest’ultimo, infatti, dopo che la stampa argentina aveva già dato la notizia della mia prossima partenza per il Torre, ignorando volutamente la comunicazione, informava che la sua spedizione sarebbe partita entro pochi giorni alla volta del Torre pur sapendo di dare una notizia infondata, essendo da tempo in possesso di una lettera speditagli dalla sede centrale del CAI con la quale lo si avvertiva che Bonatti e Mauri non sarebbero partiti.

Queste notizie contrastanti mi inducono ad accelerare la partenza tanto più che il signor Manfredo Segre, presidente della ex sezione del CAI di Buenos Aires, avendo telegraficamente richiesto a Bonatti quali fossero le sue intenzioni nei miei confronti, riceve questa risposta: “Indignato comportamento Maestri mia venuta subordinata organizzazione Doro D’Altan prego discutere con lui al quale scrivo”. Firmato Bonatti.

Questa storia sta diventando sempre più seccante, e sono felice quando Toni Egger arriva in aereo accolto da tutti noi. D’ora in avanti saremo in tre a far fronte ai pochi preparativi che ancora rimangono da fare. Fava continua a lavorare nel suo piccolo bar per lasciarlo il più in ordine possibile alla sua partenza.

Sono passati molti giorni dalla nostra visita al Ministero dell’Aeronautica e non abbiamo ancora ricevuto alcuna risposta. Con Tito Lucchini torniamo al Ministero, dove ci danno la brutta notizia che la lettera inviata dal nostro Ambasciatore si è misteriosamente perduta.

Il giorno dopo la lettera viene rintracciata. Così passano i giorni in questo paese dove “l’oggi” non esiste, ma la sola parola che vale è mañana, domani, sempre domani.

Le ditte italiane non vogliono aiutarci perché, a loro giusto parere, non vogliono creare rancori fra gli italiani in Argentina. La cosa però non mi interessa gran che. Ho con me i denari necessari per quanto ci occorre.

Viene però, pesante come una mazzata, la notizia che il Governo Argentino non potrà aiutarci. I continui scioperi, la situazione politica troppo tesa, e un “piano di austerità” appena varato, non permette al Ministero di togliere un solo aereo e un solo uomo dalla base di Buenos Aires.

Non sappiamo più che cosa fare. Scendere via mare sembra un’impresa pari a quella di Colombo. Le navi sono tutte prenotate da vari mesi. Treni non ce ne sono. Gli aerei costano troppo cari, tanto più che devono viaggiare con noi anche i nostri mille chili di materiale.

Giriamo come forsennati per tutta Buenos Aires, chiediamo a tutti gli spedizionieri patagonici se hanno un camion per noi, nessuno dimostra interesse per un viaggio così lungo e per di più in prossimità delle feste di Natale e Capodanno.

Siamo sfiduciati; quando, a sera, passando per una via vediamo un camion con una scritta: Omar trasporti patagonici. Una brusca frenata, una ancor più brusca retromarcia e ci precipitiamo in una officina dove presumiamo sia il proprietario del camion.

Sfociando il mio più puro “castilliano”, comincio a parlare. Il proprietario dell’officina mi fissa in modo strano, penso di aver detto inavvertitamente qualche sciocchezza o peggio ancora qualche parolaccia insegnatami dai miei amici argentini. Il meccanico continua a fissarmi poi dice: “Io la conosco. Quest’inverno lei era al Circolo Trentino e aveva la barba; per questo non l’ho riconosciuta subito”. Il tutto in perfetto veneto. Mi dice che quel giorno era ospite del Circolo per la serata in nostro onore e che si era divertito molto. Ci mettiamo a parlare del viaggio.

E’ fatta, ho trovato qualcuno che si interessa alla cosa. Con il nostro nuovo amico ci avviamo verso il camion. Mentre stiamo avvicinandoci, il proprietario sta prendendo al volo un sacco vuoto gettatogli da un giovane appollaiato sulla cabina del camion. Il sacco, sporco di polvere, lo colpisce in pieno viso. Il colpito si frega gli occhi pieni di terra e allargando il palmo della mano, dice: “All’anima delli mortaci tua!” Non ci sono più dubbi sulla provenienza di questo signore, che sembra uscito in quel momento dallo stadio di Roma dopo aver assistito alla sconfitta della sua squadra preferita. Così conosciamo il signor Nucciarelli e suo figlio Giancarlo, due simpaticissimi romani che vivono in Argentina da dieci anni.

Discutiamo il prezzo e ci accordiamo per 2.500 pesos, pari a duecentocinquantamila lire italiane. In verità non sono molti per sette persone e mille chili di materiale da trasportare per tremila chilometri attraverso la Patagonia. Decidiamo che il trasporto sarà fatto così: noi con il nostro carico occuperemo la prima macchina, che trainerà un rimorchio carico di materiale del Nucciarelli. Seguirà un secondo camion rimorchio con altro materiale. Questi si fermeranno a Commodoro Rivadavia, mentre noi con la sola motrice continueremo fino all’estancia “Santa Margarita”.

Toni e io avevamo messo da parte la somma di trecentomila lire a testa, somma che doveva servire per ritornare, via mare in Italia.

Arrivati a questo punto, guardo Toni e gli prospetto: “Senti Toni, tu tieni i tuoi denari, io con i miei pago il camion e tengo le cinquantamila lire rimanenti per le spese varie. Poi tu ritorni in Italia e dici che in fondo all’Argentina c’è quel povero disgraziato di Maestri che aspetta di rimpatriare”.

Toni accetta e così pago il viaggio anticipatamente, sebbene il Nucciarelli non pretenda di avere subito il danaro. Decidiamo di partire il 21 dicembre.

La sera, a casa di Fava, do la notizia della partenza ai ragazzi, dico loro che per pagare il camion ho dato fondo ai denari che mi erano rimasti per il viaggio di ritorno in Italia. Fava mi assicura che per me ci sarà sempre un posto di garzone nel suo bar. L’idea di partire fra pochi giorni, ci elettrizza. I nostri ragazzi sembrano bambini impauriti dalle dimensioni del giocattolo che tengo fra le mani.

Cesare Maestri. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

Arriva così la mattina del 21 dicembre. Carichiamo il camion, facendo in modo di lasciare lo spazio per distenderci e dormire. Per sette giorni questo cassone ricoperto di una grossa tela, sarà la nostra casa. Con semplice cerimonia il Circolo Trentino, attraverso il suo Presidente, alla presenza del delegato del CONI dottor Gorla e del segretario dell’Ambasciata dottor Ugolini, mi consegnano le cinque bandiere dell’Italia, Austria, Argentina, di Trento e della SAT, e mi restituiscono la piccozza lasciata da me in pegno quale promessa di ritornare al Cerro Torre.

Mentre saliamo sul camion, gli amici si raggruppano sulla porta del Circolo. Hanno le lacrime agli occhi. Fanno sforzi sovrumani per non rattristarci. I loro sguardi ci supplicano di tornare, di non lasciare le nostre giovani vite su quella montagna tanto bella e difficile.

I miei compagni prendono posto, e la scena del gruppo attorno alla porta del Circolo si fa più lontana.

No, non dovete piangere. Noi siamo felici, andiamo a scalare il Torre. Non dovete piangere. Ma non appena il gruppo sparisce alla nostra vista, anch’io sento le lacrime sul viso e ripeto ad alta voce: “Non dovete piangere. Noi siamo felici così…”.

Il nostro viaggio è monotono. Lasciati i campi coltivati a grano, entriamo nella pianura argentina. Una steppa piatta, bruciata dal sole e dal vento, attraversata da una lunghissima strada bianca, diritta e polverosa, ai cui bordi sono ammassati scheletri di cavalli, di macchine, di ruote, bruciati dal sole e dal vento. E polvere, sobbalzi, continuo rumore. I paesi ci vengono incontro fra le nuvole di polvere sollevate dal vento. Si distinguono solo per il nome: e passano via, sotto i nostri occhi, uguali l’uno all’altro.

A Commodoro Rivadavia, per la prima vola dopo sei (in realtà cinque, NdR) giorni di viaggio ininterrotto, ci fermiamo a dormire in un hotel.

E’ Natale. Qui non si direbbe che questa festa sia molto sentita: manca la neve, la gente non corre a comprare i regali, mancano gli alberi addobbati nelle vetrine. Eppure è Natale. Ora i nostri cari ci penseranno e noi siano qui in questo piccolo paese fatto di casette a un piano, abitato da gente che ci guarda stupita nei nostri abiti da montagna.

Rio de las Vueltas. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

Festeggiamo la giornata visitando un locale notturno chiamato “Folies Bergères Familiar”. E’ veramente uno spettacolo familiare. Qualche ballerina prova la solidità del pavimento con balzi da elefante, una bellissima donna canta in modo volgare una volgarissima canzone e, come finale, un uomo canta per noi, guardandoci languidamente negli occhi, dolci canzoni d’amore spagnole. A questo punto, ci mettiamo a urlare più forte di quanto abbiamo fatto alla fine di ogni numero precedente, e usciamo all’aria aperta di nostra spontanea volontà, prima di essere invitati ad andarcene dal direttore del locale.

Ci accompagna nel nostro viaggio, con Nucciarelli padre e figlio, la signora Nucciarelli che porta una nota di gentilezza in mezzo a questa turba di uomini. C’è inoltre un autista siciliano, che sta imparando a guidare e un altro autista di pura razza argentina. E’ magro, nero, simpaticissimo e spiritoso; nel complesso, siamo proprio una bella compagnia.

Le poche ore rimaste passano velocemente, è già l’ora degli addii. E il camion ci sbatacchia di nuovo, mentre senza concederci riposo ci avviciniamo al termine del nostro viaggio.

Dopo una notte e un giorno di viaggio, per la perizia e la buona volontà dei nostri autisti, arriviamo a notte fonda all’estancia “Santa Margarita”. Questa fattoria fa parte di una società di estancias riunite. Il maggiore degli azionisti è il dottor Perez Companc e suo fratello. Giunto in Argentina dall’Italia una trentina di anni fa, ritornò in patria dopo pochi anni per sposarsi; poi si stabilì definitivamente in Patagonia, dove è molto stimato. La sua intelligenza e il suo amore per il lavoro gli hanno dato quelle soddisfazioni che l’Italia gli aveva negato. Ama l’Italia, anche se la ricorda come un paese ben diverso da quello che noi conosciamo; ama suo figlio che presto sarà dottore, ed è fiero di essere arrivato a costruirsi qui la vita con tanti anni di lavoro onesto e instancabile.

La mattina dopo scarichiamo il materiale dal camion di Nucciarelli, per ricaricarlo su quello più piccolo messo a nostra disposizione dal signor Schinco.

Salutiamo i due amici, che appaiono molto commossi, e mentre si allontana sul loro traballante autocarro, pensiamo che abbiano avuto la fortuna di incontrare dei cari compagni. In giornata il camion dell’estancia ci porta al Rio de las Vueltas. Cesarino ed io ritroviamo le emozioni passate, l’entusiasmo dei primi giorni, l’abbattimento che ci ha accompagnato al ritorno, quando il Torre era ormai solo un ricordo, anche se molto recente, e la tristezza ci gravava sulle spalle come il nostro sacco.

Piantiamo le tende nello stesso punto dell’ultima volta. Conosciamo ogni metro della zona; all’imbrunire siamo già accampati e con la sera vengono i problemi da risolvere. Il più grosso è quello di attraversare il Rio con tutto il nostro materiale.

Il proprietario del carro, che ci ha aiutato a guadare il fiume l’altra volta, è morto e più nessuno accetta di fare questo lavoro. Decidiamo di attraversare il fiume usufruendo di un grosso cavo abbandonato, che a suo tempo servì per un traghetto. Noi ne faremo una teleferica.

La mattina incominciamo subito a tendere il cavo, facendo in modo che, una volta caricato del materiale, non tocchi l’acqua. E’ un lavoro molto faticoso: l’acqua è fredda e bisogna lavorare immersi fino alla cintola. Non abbiamo attrezzi, e dobbiamo arrangiarci con chiodi da roccia, tronchi e corde. Verso mezzogiorno il cavo è teso. Costruiamo un carrello e Toni passa dall’altra parte tirandosi dietro una lunga corda. Abbiamo avuto cura di fissare alla corda di lilion degli anelli di filo di ferro che agganciamo alla fune di acciaio. Questi distano fra loro una decina di metri e non permettono alla corda di lilion, che funge da traente, di andare a finire sott’acqua rendendone impossibile il recupero. Parte del lavoro più faticoso è fatto. Ormai tese la portante e la traente, costruito il carrello, disponiamo di una vera teleferica.

Dopo colazione, cominciamo le operazioni di trasbordo. Una dopo l’altra, le casse passano sulla riva opposta del fiume dove Toni, Juan Pedro e Vincitorio le portano a riva. Continuiamo così fino a sera.

Il giorno dopo, il mucchio del materiale è quasi tutto sulla riva opposta; e infine con gli ultimi viaggi passano sulla improvvisata teleferica anche Fava e i fratelli Dalbagni. Rimango solo sulla riva del fiume e girando lo sguardo attorno per assicurarmi che tutto il materiale sia di là, assaporo il piacere di abbandonare ancora una volta questa sponda per puntare, senza dubbi, diritto e sicuro verso il Cerro Torre.

Ci viene incontro un camion rosso, che durante un anno di siccità è riuscito ad attraversare il Rio e poi non è più potuto ritornare, e ora trasporta lana dalle estancias al fiume. Carichiamo subito tutto il materiale, e la macchina parte veloce, incurante delle buche, correndo sopra una pista che l’anno prima abbiamo faticosamente percorso a piedi.

Dopo poche ore di camion si ferma definitivamente. Siamo arrivati al Rio Fitz Roy, affluente del Rio de las Vueltas.

Il viaggio è terminato, anche il camion rosso ci lascia soli con le nostre cassette e con il problema di attraversare anche questo fiume che, in questa stagione di disgelo, è molto più grosso dell’altra volta.

Toni ed io andiamo a studiarlo da vicino. A vederlo sembra un fiumiciattolo insignificante. Consegno a Toni il mio orologio e il portafoglio, e senza spogliarmi entro decisamente nell’acqua. La corrente sembra forte e l’acqua è molto fredda. Toni mi chiede che cosa intendo fare; rispondo che vorrei andare dall’altra parte ad avvertire che siamo arrivati.

Faccio due passi avanti, sento il fondo sassoso partirmi sotto i piedi e l’urto violento e gelido della corrente che mi investe e mi travolge. In un secondo, i vestiti e le scarpe diventano catene che mi legano e mi trascinano verso il fondo.

Ho un attimo di smarrimento, penso a Jacques Poincenot, annegato qualche anno prima n questo stesso punto nel tentativo di guardare il fiume. E’ solo un attimo, poi si risveglia in me il desiderio di lottare e di vivere e comincio a nuotare contro la gelida corrente, picchiando continuamente contro grossi sassi, allontanandomi sempre più dal punto da dove sono partito. Nuoto con ferocia, finché non sento il fondo risalire, l’acqua farsi più bassa, la corrente meno forte. Mi aggrappo ai massi che mi scivolano dalle mani, picchio qua e là senza sentire alcun dolore. Stringo i denti e continuo a sbattere mani e piedi furiosamente, finché mi attacco a un blocco di terra che non cede e riesco a trascinarmi a carponi, tanto è il peso che mi porto addosso.

Vedo Toni duecento metri più a monte che mi fa segni frenetici e io rido, felice. Felice di essere ancora vivo e di aver vinto un altro piccolo ostacolo che mi divideva dal Torre.

M’incammino per la strada che porta all’estancia Fitz Roy; anche qui tutto mi è noto, e godo infinitamente di essere solo con i miei ricordi. Mi incontro con il vecchio socio di Madsen, il signor Standhardt. Nel suo saluto si nota l’abitudine alla solitudine. In fatti si rivolge a me come mi avesse lasciato il giorno prima. Getta dell’altra legna sul fuoco e mi invita ad asciugarmi. Poi mi offre alcuni cavalli per andare a prendere i miei amici.

Faccio un arrivo trionfale, dandomi arie di perfetto cavaliere. Uno alla volta, i miei compagni attraversano il fiume portando con loro lo zaino e il necessario per dormire.

La notte passa veloce e una giornata di lavoro ci attende. Con i cavalli trasbordiamo tutto il materiale al di qua del Rio Fitz Roy, lo portiamo alla fattoria su un carro e lo disponiamo in ordine di partenza. La sera, tutto il nostro carico è ordinato e pronto per essere caricato sui cavalli.

Ed ecco che finalmente vediamo arrivare il nostro amico Ranelli, che piange rivedendo Cesarino e me, e ci chiede notizie dei nostri compagni. Gli raccontiamo il viaggio di ritorno e tutto quello che abbiamo fatto in Italia, finché arriva l’ora di andare a dormire. Chiediamo a Ranelli se vuole un sacco-duvet; ma ci risponde che possiede una casa e ci indica l’orizzonte. E’ felice e sparisce nel bosco salutandoci con la mano.

Presto tutti dormono; è questa per me l’ora dei dubbi, mi assalgono e mi travolgono come l’acqua del Fitz Roy. Mi dibatto e mi agito, ma riesco a vincerli.

Sin qui qualsiasi cosa avrebbe potuto fermarci, per qualche ora o definitivamente: una gomma forata, un traghetto impossibile, la mancanza di denari. Di qui in avanti, solo l’abbandono volontario dell’impresa in cui siamo impegnati ci può impedire di salire il Torre; d’ora in poi, niente ci fermerà. Riapro il mio diario. Rileggendolo lo trovo a volte scarno, a volte prolisso, discontinuo e mutevole come i pensieri che mi assalivano mentre rifacevo i percorsi a me noti, mentre ritrovavo i luoghi desolati dove ci eravamo accampati, o mentre ripercorrevo un sentiero sconosciuto. Avessimo potuto vincere allora il Torre! Ci fossimo potuti abbracciare felici allora sulla sua vetta frustata dal vento!

Tornare in questi luoghi mi è penoso come il ritorno, in tempo di pace, in una zona dove in passato si sono vissuti sanguinosi scontri, episodi tragici del tempo di guerra. Anche se il sole splende, se i fiori e l’erba sono ricresciuti sulle rovine, e se ormai tutto sembra in pace, vedremo sempre i morti, i feriti che piangono, le fiammelle delle mitragliatrici.

Che tristezza rifare il cammino che si snoda sotto i miei passi, che tristezza il ritorno sulle vecchie orme, anche se splende il sole e sto avvicinandomi al Cerro Torre.

Dal diario
31 dicembre
L’uomo è fatto per camminare “scarico”. Questa indiscutibile verità viene proclamata da Cesarino, mentre tutta la spedizione si dirige al campo della Laguna Torre, trascinandosi dietro cinque cavalli carichi di materiale vario. Caricare i cavalli ci è costato una fatica non trascurabile; quelle povere bestie erano letteralmente divorate da grossi mosconi che le innervosivano fino a farle imbizzarrire.

Durante il tragitto, abbandoniamo due cavalli che non vogliono saperne di portar pesi, e ognuno di noi si deve addossare altro materiale fino al limite estremo della resistenza. I ragazzi mi stupiscono per il loro senso del dovere e per la voglia di lavorare. Bisogna cercare di non sfruttarli troppo finché non sono allenati ma, a quanto pare, promettono bene.

Dopo cinque ore, arriviamo alla Laguna Torre. Qui accelero il passo, voglio arrivare al nostro vecchio campo da solo. Ritrovo sulla mia strada le piante tagliate da noi, le scatole vuote; e arrivato al campo trovo uno stato di abbandono desolante. La casetta di tronchi che avevamo costruito è crollata, dappertutto casse vuote sporche di fango con la scritta ”Expedicion Trentina”.

I compagni arrivano e il campo si rianima. Sorgono le tende, si accende il fuoco. Del calendario scolpito su un albero da Detassis non rimane che una striscia biancastra. L’avventura è cominciata.

Dopo cena scambiamo quattro chiacchiere, i ragazzi sono sfiniti e vanno a dormire. Resto solo a rianimare di tanto in tanto il fuoco, che lentamente si va spegnendo.

E’ l’ultimo giorno dell’anno. I miei amici staranno divertendosi e certamente brinderanno anche a me, alla mia spedizione.

Questo cielo immenso sopra la mia testa mi sgomenta. Vorrei essere in Italia; domani andrei a sciare e augurerei buon anno a tante persone; avrei intorno facce note e amiche.

Un passo alle mie spalle mi fa trasalire. E’ Toni.
“Non vai a dormire, Cesare? Che cos’hai?”.
“Niente Toni”, e mi alzo stanco, “sono contento di essere qui con te”. E ci abbracciamo.

Quando entriamo nelle nostre tende è quasi mezzanotte. Diamo così il via a una lunga serie di notti che passeremo sotto la tenda o nella neve.

1 gennaio 1959
Ci svegliamo tardi, i ragazzi sono stanchi morti. Lavoriamo al campo a ricostruire la casetta di tronchi che ci servirà da magazzino. Toni ha una leggera infezione al collo del piede. Vincitorio e Augusto Dalbagni sono ridiscesi all’estancia di Madsen, e continueranno a far la spola con tre cavalli, finché non avranno portato tutto il materiale qui al campo. Durante il giorno, facciamo qualche puntata fino alla morena, dove i cavalli si fermano con il carico; il percorso è breve, circa mezz’ora, e Toni ed io riusciamo a portare anche settanta chili per volta.

Oggi il Torre è stupendo; ricorda un campanile dolomitico. E mi rinnova il desiderio d’essere su una parete verticale di dolomia.

Verso sera il piede di Toni peggiora; proviamo a fare impacchi di sabbia calda. Cesarino si cuce i pantaloni, Spikermann e Gianni Dalbagni si sono ritirati nelle loro tende con le ossa rotte. Sono spossati, ma cercano di fare del loro meglio.

Domani andremo al campo II ai piedi del Mocho. Stiamo per avvicinarci al Torre.

Cesarino Fava

2 gennaio
Toni soffre e non può muoversi. Cesarino, Juan Pedro, Gianni ed io andiamo verso il campo II: ho trovato un percorso migliore dell’ultima volta; per ora è malagevole ma, dopo qualche viaggio, resterà la traccia e il piede appoggerà più sicuro.

Nelle vicinanze del campo, accelero l’andatura e arrivo al grande masso che ci ospitò per qualche tempo l’estate passata. Il sasso si è lievemente spostato, ma potrà ospitarci ancora. Il cartello appeso da Bruno è rimasto e si legge benissimo: “Spedizione Trentina – Campo II”.

Deponiamo il materiale e ritorniamo al campo I. Toni sta male, l’infezione gli impedisce con suo grande cruccio di muoversi. Il nostro giovane dottore lo cura con penicillina e con tutti i mezzi di cui può disporre.

Questa sera ci siamo tutti. Augusto e Angelo sono riusciti a portare tutto il materiale giù alla morena a tempo di record. Domani lo trasporteremo a spalle fin qui al campo. Hanno lasciato da Madsen due casse di viveri che ci serviranno al ritorno.

I ragazzi in questi primi giorni hanno portato pesi modesti e cominciano ad essere allenati a sopportare meglio la stanchezza. Soprattutto li sento ogni giorno più vicini, fiduciosi e meno smarriti.

Questa sera attorno al fuoco abbiamo discusso di musica e di letteratura, poi, assonnati, siamo rientrati nelle tende. Cesarino dorme con Toni e con me. Toni attira la simpatia di tutti, con il suo italiano stentato e con il suo linguaggio ricco di immagini. Cesarino si fa voler bene, perché è buono e pieno di entusiasmo. Perfino il suo passo dinoccolato mi è ormai caro e famigliare.

Che cosa faranno i miei amici trentini? Ho un grande desiderio di rivederli.

3 gennaio
Questa mattina siamo ritornati al Mocho. Erano con noi Augusto e Angelo. Si sono entusiasmati come bambini. Non sentivano nemmeno più i muscoli indolenziti e la fame. Dopo due ore di riposo, sono ritornati al campo I.

Cesarino e io siamo rimasti soli ai piedi del Torre. Abbiamo costruito le mura di protezione chiudendo tutti gli spiragli, tranne uno che deve servire da ingresso, e abbiamo ricoperto il fondo ghiacciato della nostra casa da trogloditi con grossa sabbia morenica.

Cesarino dorme. E’ riuscito, con uno sforzo enorme, a tenere gli occhi aperti per quasi un quarto d’ora e a parlarmi della sua donna e dei suoi progetti, poi è crollato; ora riposa con tutta la testa infilata nel sacco.

Da una fenditura vedo un pezzo di cielo e, allungando un po’ il collo, posso scorgere uno spigolo del Torre. Se ci avesse sostenuto, durante la prima spedizione, l’entusiasmo di questi ragazzi ora non saremmo di nuovo qui, con le mani scorticate e le spalle dolenti, coricati su un letto di ghiaccio.

Toni continua a star male. Passerà anche questa. Cesarino dorme. Non c’è più speranza di riuscire a scambiare qualche parola. Farò meglio a seguire il suo esempio.

4 gennaio
Oggi a quota 1650 m abbiamo trovato il luogo dove collocheremo il campo III: esattamente a 200 metri di dislivello dall’attacco del Torre.

Questa montagna vista dalla base è immensa. Lo spigolo est sarebbe accessibile, ma penso sia meglio attaccare un diedro che porta a un piccolo nevaio pensile; di lì un altro diedro inclinato e fessurato sembra condurre, con relativa facilità, alla forcelletta a nord del Torre. Pare difficile visto da qui, ma fessurato e, quel che conta, riparato dal vento. Siamo soddisfatti di averlo scoperto. Al ritorno, abbiamo trovato i carichi portati dai ragazzi e un biglietto: “Toni sta ancora male. Noi tutti bene. Saluti dai vostri portatori”.

5 gennaio
Siamo stanchi. Abbiamo portato tutto il materiale ai piedi del Torre. Nel pomeriggio abbiamo reso ancor più confortevole la nostra abitazione. Quel grosso sasso scricchiola paurosamente. Sono arrivati i ragazzi con il carico, ma noi eravamo ancora su, vicini al Torre. Il solito biglietto dice le solite cose. Toni è sempre nell’impossibilità di muoversi.

6 gennaio
Oggi è stata una brutta giornata. Siamo partiti tardi e, sotto una pioggia minuta, abbiamo portato viveri e materiale alla base del Torre. Non ho saputo resistere: alle 12.20 ho piantato il primo chiodo alzandomi una ventina di metri.

Quante volte ho ripetuto questi gesti: la mano sinistra mi tiene in equilibrio, la destra fruga i chiodi finché trova quello buono, lo leva dal moschettone, l’appoggia delicatamente alla fessura e, impugnato il martello, con colpi delicati lo fa entrare un po’; e infine, sicuro che non uscirà più, lo picchia con violenza e quel bel suono echeggia per tutta la valle.

Aggancio la prima staffa. Ecco, Torre, siamo arrivati. Con chiodi, trapani, corde e scale; con la ferma volontà di vincere, e non ci sarà vento, neve, paura, che ci farà desistere questa volta.

Salgo una filata di corda. Il tempo continua a peggiorare e dobbiamo ritornare al campo II, dove troviamo tutti e quattro i ragazzi. Sono orgogliosi di aver affrontato il maltempo mentre attraversavano il piccolo ghiacciaio che porta al nostro campo.

Toni sta sempre male ed è molto giù di morale perché non può aiutarci. Cesarino e io siamo bagnati fradici, ci cambiamo completamente e ci sdraiamo sulle calde pelli di pecora, che i ragazzi hanno portato. Queste pelli ci servono da tappeto e da materasso, costano poco e non pesano nemmeno molto. Più tardi i ragazzi preparano da mangiare.

La nostra spedizione è molto affiatata, e mi sento ogni giorno più contento di esserne il capo.

E’ cominciato il vento. La pioggia si è fatta più fitta e la temperatura si è abbassata. Siamo tutti nel saccopiuma, qualcuno dorme, altri pensano, Gianni scrive le sue impressioni. Io chiudo il mio diario e caccio la testa nel sacco per non sentire il vento che urla.

7 gennaio
E’ piovuto tutta la notte e continua a piovere. I ragazzi sono ritornati al campo I, noi restiamo qui al Mocho. Cesarino mi racconta la sua avventura sull’Aconcagua: due tentativi sfortunati, falliti per la scarsa preparazione dei compagni; poi, dopo aver trovato un perfetto secondo, la vittoria. L’esperienza fatta da Cesarino nel corso dei due tentativi precedenti gli è stata preziosa. Dopo alcuni giorni di acclimatamento a quota 6500, hanno conquistato la cima tanto sospirata.

Lassù incontrarono una guida argentina con un cliente americano che stava molto male ed era nell’impossibilità di scendere. La guida, dopo averli concisamente informati della sua intenzione di andare a cercare aiuto, sparì per il cataletto di discesa. Cesarino lo inseguì; ma, subito, risalì faticosamente i duecento metri percorsi, e ritornò sulla cima dove il suo compagno l’attendeva sostenendo l‘americano che delirava.

Cominciarono così la tragica e lenta discesa verso il bivacco dove avevano intenzione di passare la notte. Il buio sopraggiunse veloce e dovettero ripiegare su un bivacco di fortuna chiamato “Nido de los Condore”. Si ripararono alla meglio tenendo stretto fra loro l’americano, ormai sfinito, nel tentativo di trasmettergli un po’ del calore del loro corpo.

Un’improvvisa tempesta di neve investì quel tragico mucchio di corpi umani. Il vento sollevava neve e terra. Durò tutta la notte quell’inferno; la mattina, quando poterono uscire dal telo che li aveva difesi, si accorsero che il loro compagno era morto; e si resero conto di avere mani e piedi ormai insensibili.

Il sacrificio non era servito; e per di più erano accecati da una oftalmia da neve. Con i piedi e le mani congelate, abbandonato il corpo ormai rigido del compagno, iniziarono la discesa. Non riuscivano a distinguere niente altro che ombre; non esisteva altra alternativa: lasciarsi morire o rassegnarsi a subire dolorose amputazioni.

Continuarono a scendere. Cesarino, il più colpito sia dall’oftalmia sia dal congelamento, indicava al compagno la via da seguire. Sfiniti e stroncati dal dolore, arrivarono a “Ponte degli Incas” dove ricevettero le prime cure.

Seguirono anni di tormento per Cesarino che ebbe i piedi amputati per più di metà. Sopportò coraggiosamente le cure dolorose, superò i momenti umilianti del faticoso, torturante tirocinio necessario per riprendere a camminare, e ricominciò a vivere. In seguito, ritornò in montagna; e vi ritornò da vincitore, aprendo una nuova via al Cerro Duerno, una vetta di quasi seimila metri (di questa avventura vedi altri particolari in https://sherpa-gate.com/grandi-storie/verita-e-bugie-allaconcagua/, NdR)

Mentre Cesarino racconta, penso alla semplicità del suo eroico comportamento e dico a me stesso che, senza dubbi, Cesarino è il compagno ideale.

La mia spedizione è davvero composta nel migliore dei modi. Quattro ragazzi che non possono fare altro che i portatori perché mancano della complessa tecnica alpinistica necessaria. Fava, che li dirige, forma l’anello di congiunzione tra Toni e me che saliremo sulla cima. Ognuno di noi ha un compito ben definito. Non ci sono stelle del firmamento alpinistico. Sento però la mancanza di un quarto arrampicatore che avrebbe potuto formare, con Fava, la cordata di appoggio. Ne abbiamo discusso a lungo con Toni, che non lo considera indispensabile. Così siamo soltanto noi sette.

Non abbiamo nulla di superfluo, ma non ci manca nulla. Non possediamo la radio e gli ultimi ritrovati in fatto di energetici; però mangiamo cose scelte da noi secondo gli insegnamenti della prima esperienza, che è risultata utilissima. Abbiamo portato, rispetto alla prima volta, meno carne e abbiamo aumentato le provviste di pasta, verdura in scatola, formaggio, prosciutto; inoltre abbiamo delle novità come il riso, l’olio, le gallette salate.

Tutto il lavoro di organizzazione è opera del nostro Lucchini, senza il quale la spedizione avrebbe passato momenti di grave difficoltà. Tito Lucchini ha impegnato tutte le sue ferie nell’organizzazione della nostra spedizione. Vorrei che ora fosse qui con noi, come la prima volta: in quei giorni sembrava ridiventato ragazzo, tanta era la sua felicità di trovarsi in montagna. E invece è così lontano che anche il pensiero si affatica nel sorvolare la desolata Patagonia, prima di arrivare a lui.

Piove e il Torre è coperto da una spessa nuvolaglia nera.

8 gennaio
Il tempo è abbastanza clemente. Cesarino ed io abbiamo portato del materiale a quota 1650. Dopo un attento esame della zona, troviamo dove fisseremo il campo III.

E’ situato su un crinale al riparo dal vento. Orientiamo l’apertura a sud-est e cominciamo a scavare. Lavoriamo sei ore senza fermarci un attimo. Scaviamo una grotta doppia. Si entra per uno stretto budello fatto ad angolo retto e si sbuca in una sala rotonda dove faremo da mangiare; per un’altra piccola apertura si arriva alla seconda sala, dove pianteremo la tenda e dormiremo. Uscendo dalla tana con le ossa rotte per le strane posizioni prese scavando, vediamo salire Toni con una cassetta sulla schiena. Il suo piede va meglio, e lo dimostra scendendo con stile lungo i ripidi nevai che portano al campo II.

Toni è rimasto con noi. Il piede duole un po’, ma l’importante è che sia ancora qui. Il suo sorriso e il suo strano modo di parlare ci hanno portato un soffio di allegria. Toni mi chiede se il famoso vento patagonico esiste davvero o se è frutto della nostra fantasia. Vorrei proprio che lo fosse, perché il vento è l’ostacolo più tragico, il nemico più spaventoso su queste montagne. Spazza con la sua forza tutto quello che incontra e non ripeterebbe certamente la nostra impresa, che per ora sembra filare secondo il piano prestabilito.

9 gennaio
Quasi si fosse irritato per quel che si è detto di lui ieri sera, oggi s’è alzato il vento. E’ cominciato verso le 3, passando rasente il ghiacciaio e andando a schiantarsi, con tutta la sua forza, contro la parete del Torre. Si infilava fischiando nei fori del muro di protezione, sgretolandolo a poco a poco. Mi sono cacciato completamente nel saccopiuma seguito da Fava. Verso le 5, Toni ha messo la testa fuori dal sacco e ha urlato: “Sveglia! Voi non sapete far altro che dormire. Avanti che partiamo”.

Dal fondo del mio sacco, senza sollevare la testa, rispondo: “Dormi Toni. Con questo vento non si va da nessuna parte”.

“Un po’ di vento non fa niente,” sentenzia Toni uscendo in mutande dal suo sacco. Mette fuori la testa dalla “porta”: il vento si è calmato un po’. Esce all’aperto e accenna due o tre esercizi ginnastici, quando arriva improvvisa e violenta una raffica di quel vento che, secondo lui, avrebbe dovuto essere solo un parto della nostra fantasia. La raffica investe Toni, lo solleva da terra e lo scaraventa in una buca poco distante. Toni si rialza e si precipita nel sacco.

La scena è terminata, non era il caso di prendere altro freddo. Rimetto la testa nel sacco e raggomitolandomi il più possibile, dico: “Non parti Toni? Che cosa vuoi che sia un po’ di vento?”

Una voce cavernosa mi risponde: “Forse sarà meglio aspettare che il vento cessi un po’.

Verso le 12 Toni e Cesarino si avviano con una parte del carico verso il campo III, mentre io faccio una corsa al campo I. Lungo la strada incontro Spikermann e Gianni che proseguono carichi verso il Mocho. Continuo fino al campo I dove trovo Angelo e Augusto con i quali ritorno carico al campo II.

Domani abbiamo bisogno di tutti gli uomini per trasportare più materiale possibile al campo III.

Questa notte ci siamo tutti escluso Toni che si è fermato al campo III per rifinire un po’ la nostra tana.

10 gennaio
Tutti e sei partiamo carichi per l’ultimo campo. Abbiamo trovato Toni in piena attività. Ha già piantato la tenda nella grotta e ha terminato altri piccoli lavoretti. Si ferma al campo III, mentre noi proseguiamo verso la base del Torre con corde, chiodi e altro materiale.

Siamo proprio sotto la parete del Torre. I ragazzi sono entusiasti, felici, è la loro prima vera, grande esperienza in montagna. Si sono legati in cordata e carichi come muli salgono cercando di non sbagliare i movimenti.

Ora sono scesi con Fava, a circa una cinquantina di metri da me. Per arrivare alla parete, qui dove sono io, ho dovuto superare una crepaccia terminale e un ripidissimo cono di neve formato dagli scarichi della parete. Mentre sto per legarmi, sento un “crac” sopra la testa, alzo gli occhi: un pezzo di cima si è staccato e piomba veloce frantumandosi lungo la parete est. Urlo ai ragazzi di fuggire, ma io non so dove rifugiarmi. Non so se sia meglio rimanere fermo dove sono, o cercare di scivolare lungo il cono di deiezione. In fondo c’è il crepaccio e, nella fretta, potrei anche caderci dentro. Guardo ancora in alto: la massa di neve scende a velocità vertiginosa. I miei amici fuggono veloci. Almeno loro sono al sicuro.

Mi guardo in giro, nulla può ripararmi sufficientemente; soltanto una piccola sporgenza sopra la testa mi dà l’illusione della salvezza. Mi copro il più possibile il capo con le braccia, aderisco alla parete quasi volessi entrarvi e attendo l‘urto.

I momenti sono eterni. Sento una voce dal basso che urla qualcosa. E’ Fava che urla, come impazzito: “Guarda in su, guarda in su”.

Con prudenza levo le braccia dalla testa e guardo in alto. La cornice che si era staccata è già scesa fino a coprire metà Torre e ora sta ferma a quell’altezza, trema un po’ poi, come sospinta da una forza invisibile, comincia a risalire lentamente.

Una fortissima corrente spinge a ritroso la valanga lungo il percorso già fatto. E’ una visione apocalittica. Una massa di neve, grande come una casa, viene riportata in alto dal vento, come in un film girato al rovescio. La massa di ghiaccio e di neve si alza, lenta come un sipario, oltrepassa la cima del Torre e sparisce alla nostra vista, senza che su di noi ne cada il più piccolo frammento.

Passato il momento di paura, Cesarino sale e si lega alla mia corda. Risaliamo lungo la corda fissa i metri che avevamo lasciati attrezzati e continuiamo per altri cento metri circa.

La roccia è stupenda. Arrampicare oggi è una gioia; c’è il sole e, se non fosse per la valanga di prima, potremmo dirci tranquilli.

Attrezziamo la via con corde fisse; d’ora in poi questo sarà il nostro lavoro quotidiano.

Ritorniamo al campo III e troviamo la casa in ordine; per di più Toni ha scoperto che, sul lato a monte della nostra grotta, si apre un profondo crepaccio, che ci servirà da bidone delle immondizie e aeratore dei locali.

I ragazzi scendono al campo II; per oggi le avventure sono sufficienti. E’ la prima sera che passiamo qui. I nostri fornelli a petrolio fanno un rumore piacevole e vanno magnificamente. La temperatura del nostro buco è costantemente attorno allo zero, e pensiamo di chiamarlo “campo frigidaire”.

La prima edizione di Patagonia, Terra di Sogni infranti (1999)

Da Patagonia, terra di sogni infranti di Cesarino Fava
Edizioni CDA&Vivalda, 1999, pag. 118-119
«Individuiamo la via e ci leghiamo senza più pensare all’accaduto. E’ il pomeriggio del 10 gennaio saliamo la prima lunghezza di corda di ottanta metri sulla parete est del Cerro Torre. Un’inezia se comparata ai millecinquecento metri che ci separano dalla vetta. Ma significativi se comparati alle difficoltà aggirate, agli ostacoli superati, alle migliaia di chilometri percorsi per arrivare qui. Ora 1500 metri ci sembrano la cosa meno problematica e più entusiasmante da percorrere.

Attacco al moschettone l’asola della grossa corda di canapa di 12 millimetri da fissare alla parete, e quando Cesare a gran voce mi grida “puoi venire” parto immediatamente.

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Pag. 119
Fermi su una minuscola terrazza a un centinaio di metri dalla base, assicurati a un buon chiodo, contempliamo estasiati lo stupendo scenario che abbiamo di fronte.

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Pag. 121
Già, che facciamo? Mah. Per oggi basta. E’ stata una giornata lunga, piena di emozioni, possiamo ritenerci soddisfatti. Abbiamo fatto veramente un bel lavoro. Domani col Toni, attrezzeremo tutto il diedro e dopodomani andremo su verso il colle. Sembra una favola. Poi Cesare aggiunge: “Sai che facciamo? Tiriamo su tutto il rotolo della corda di canapa e fissiamo alla parete questi ottanta o cento metri, in modo che domani possiamo incominciare già da qui, senza perdere tempo”».

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11 gennaio
E’ piovuto tutto il giorno. I divertimenti non sono molti. Beviamo caffelatte e ogni tanto usciamo all’aperto per studiare il tempo. La parete è sempre sporca di neve. Non possiamo che pazientare in questo buco di ghiaccio, con la visione di una grigia parete di granito e la compagnia del vento che corre in alto. Speriamo nel bel tempo e continuiamo a muoverci in questa tana fredda e angusta.

12 gennaio
Con Toni e Cesarino abbiamo attrezzato un tratto di parete in modo stabile. E’ stata una grossa fatica; ci siamo trascinati dietro una grossa corda di canapa dello spessore di dodici millimetri, fissandola ogni dieci metri circa ai chiodi lasciati appositamente in parete. Arrampichiamo sempre con sacchi pesantissimi. A circa centocinquanta metri dall’attacco, il diedro si è fatto strapiombante e bagnato. Oggi sono riuscito a salirne solo trenta metri.

Dopo il brutto tempo di ieri, la parete è completamente bagnata. L’acqua scorre a cascatelle nel diedro e per di più, ogni quarto d’ora, il piccolo nevaio pensile in cui termina il diedro, scarica una certa quantità di neve e ghiaccio, che precipita proprio lungo la direttrice della salita. Non c’è nessun pericolo, ma sono tutti elementi di disturbo e ci si bagna maledettamente.

Man mano che saliamo, ci trasciniamo dietro chiodi, cunei di legno e cordini. Il lavoro più grande è recuperare i cinquecento metri di canapa che serviranno per attrezzare la via.

A sera scendiamo lungo le corde fisse, sembriamo operai che, felici di aver terminato il lavoro, ritornino alla loro casa e alla famiglia. Noi però non abbiamo nessuno ad aspettarci nel nostro buco: non ci siamo che noi tre piccoli uomini, di fronte a questi immensi ghiacciai.

Da Patagonia, terra di sogni infranti di Cesarino Fava
Pag. 126
«“Cesare oggi ha fatto un vero capolavoro! Se non fosse per il verglas saremmo già oltre il nevaietto pensile. Adesso fissiamo alla parete le corde di canapa e poi scendiamo. Per oggi basta (Toni Egger)”.

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Pag. 126
“Comunque oggi hai fatto proprio un bel lavoro” dice Toni calmo.
“Abbiamo fatto, Toni”. Già, avete fatto».

13 gennaio
La neve era dura questa mattina, quando molto presto siamo risaliti alla base del Torre.

Questa notte deve aver fatto molto freddo, perché le corde fisse sono saldate alla parete da uno strato di ghiaccio. Le risaliamo con pesanti zaini sulla schiena. Per la manovra ci aiutiamo con nodi “prusik”, nodi speciali che scorrono verso l’alto e si bloccano se tirati improvvisamente.

La parete è una lastra di ghiaccio, dobbiamo picchiare continuamente la corda per liberarla dal gelo che la ricopre. In poco tempo arriviamo alla fine del tratto meno difficile. Qui trovo i due capi della corda abbandonata ieri, quando Toni mi aveva calato a carrucola al termine della giornata. Mi lego e, con addosso tutto il materiale necessario per la salita, comincio ad alzarmi. Sembra di salire su un campo di pattinaggio ruotato e fissato verticalmente.

Sono le 6 quando arrivo al punto massimo raggiunto ieri. Abbiamo ancora tre ore di tempo prima che il nevaio sopra la testa cominci a scaricare. Infatti si ridesta verso le 9, con puntualità cronometrica.

Cesare Maestri attrezza la parete fino al nevaio triangolare. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

Ogni metro quassù costa fatica, la parete è molto difficile, liscia e strapiombante, ma mi alzo, lentamente, un metro dopo l’altro. Con una traversata mi porto sotto un piccolo tetto, lo supero e, sempre scrostando il ghiaccio dalla parete, supero uno strapiombo lungo e difficile. Mi alzo ancora e arrivo a una nicchia, piena di ghiaccio. Attraverso a sinistra per qualche metro e riprendo a salire, facendo largo uso di mezzi artificiali, per una stretta fessura, che termina in una placca liscia e verticale. A questo punto il nevaio pensile comincia a scaricare: sono bombardato in continuazione da piccole slavine di neve farinosa, che si infiltra ovunque e in poco tempo sono bagnato fradicio.

Non c’è la possibilità di piantare chiodi, non mi resta altro che cominciare a usare i chiodi a espansione. Faccio un buco nel duro granito con il piccolo perforatore. Per forare due centimetri e mezzo di profondità ci vogliono circa 35 o 40 minuti, su per giù cinque o seicento colpi di martello sulla piccola punta. In questo forellino profondo due dita e del diametro di sette millimetri, bisogna picchiare a forza un chiodino quadrato dal lato di sei millimetri. Questo, con i suoi spigoli, morde l’interno del foro e per attrito tiene.

Sempre usando questo tipo di chiodi, attraverso a sinistra sotto un grande tetto rotto da una specie di camino. Con chiodi normali e cunei di legno riesco a superarlo. Sopra di me c’è il ripido camino pieno di neve che raccoglie e scarica continuamente la piccola e noiosa valanga, che non ha mai smesso un istante di disturbarmi.

Usiamo corde di duecento metri doppiate; potrei, se volessi, continuare a salire, ma l’eccessivo attrito fatto dalla corda attraverso i moschettoni mi impedirebbe di continuare con tranquillità. Mi faccio così calare da Toni che, pazientemente, è rimasto tutta la mattina al posto di assicurazione. Mi fermo alla piccola nicchia di neve, e vi lascio tutto il materiale che non mi serve più. Toni continua a calarmi; le corde, sebbene cariche del mio peso, scorrono lentamente nei moschettoni; ma arrivo senza incidenti da Toni. Mi slego e assicuro i capi della corda a un chiodo. Ci serviranno domani per salire.

E’ quasi sera e rifacciamo per l’ennesima volta la discesa lungo le corde fisse. Attraversando il ghiacciaio che porta al campo III, Toni si volta verso il Torre e dice: “Pensa, Cesare, quando faremo questa strada per l’ultima volta: quel giorno saremo molto stanchi, ma avremo vinto”.

Al campo III troviamo Cesarino ad attenderci; ha preparato minestra calda e spezzatino. I ragazzi sono saliti con il loro carico e ci hanno lasciato i loro saluti. Ho molto desiderato di vederli. All’inizio della spedizione, mentre stavamo insieme attorno al fuoco, dissi loro: “Da oggi in avanti saremo nelle vostre mani. Il vostro lavoro di rifornimento sarà di capitale importanza. Ci affidiamo a voi”. I ragazzi non l’hanno mai dimenticato.

Sono molto stanco. Mangio in fretta e mi infilo nel saccopiuma. Almeno qui dentro fa caldo e immagazzino un po’ di tepore per domani, quando dovrò indossare ancora i vestiti bagnati, dato che al “campo frigidaire” non si asciuga niente.

14 gennaio
Piove e tira un vento furioso. Verso le dieci, Toni ed io andiamo alla base dove abbiamo installato il nostro magazzino in una tana scavata nel ghiaccio.

Ai piedi del Torre non tira molto vento, siamo riparati dalla parete e da una cima senza nome che si erge a nord del Torre. Sentiamo solo il rumore alto sopra le nostre teste, un rumore infernale, come se cento treni percorressero contemporaneamente un ponte.

Ora nevica, ma non fa molto freddo. Svolgiamo le corde di lilion e ne facciamo rotoli di cento metri. Dobbiamo ripassarle diverse volte per togliere quei riccioli che si formano nelle corde nuove. Questo materiale servirà ad attrezzare la parte alta. Prepariamo due pesanti carichi da portare in alto, il primo giorno di bel tempo.

Tutta la parete è gelata e coperta di neve, le corde fisse sembrano fatte di ghiaccio. Deponiamo i carichi e li assicuriamo alla base della parete. Il vento in alto continua a ululare e, nella valle del Torre, le nuvole corrono veloci.

Ridiscendiamo al campo ad asciugare indumenti e scarpe con il solito sistema, cioè con due fornelli a petrolio che asciugano pochi centimetri per volta.

15 gennaio
Con Toni, alle 6, sono già all’inizio del diedro. Dopo essermi legato alle corde abbandonate l’altro ieri, assicurato da Toni, risalgo fino al primo tetto un po’ a braccia e un po’ a prusik.

La parete anche oggi è una lastra di ghiaccio. Il secondo tetto è otturato dal gelo. Le corde non scorrono quasi più. Qui nella piccola nicchia ritrovo, sotto un mucchio di neve, il mio martello e il materiale che avevo lasciato. Comincio a recuperare i trecento metri di canapa che devono servirci per attrezzare. Ammucchio per bene tutta la corda, poi tiro su gli zaini con materiale vario e in ultimo i trecento metri di lilion. Sono sfinito, ed è solo l’inizio della giornata. Quando Toni sale, fissa la corda di canapa da lasciare in parete.

Presto saranno le 9, perché il ghiacciaio pensile comincia a scaricare pezzi piccolissimi di ghiaccio. Il lavoro di attrezzatura è lungo e faticoso.

Arriva Toni carico di staffe, cordini e moschettoni: senza stare a far cambio di assicurazione, Toni continua a salire i trenta metri che restano, per arrivare al punto massimo da me raggiunto l’altro giorno. Il mio posto di assicurazione è continuamente investito dalle piccole noiose scariche, che cadono senza tregua. Toni recupera il materiale e le corde, poi è la mia volta.

Risalgo e attrezzo il tratto appena fatto. Sono bagnato in tutto il corpo e ho brividi di freddo. Proseguo oltre Toni e continuo per il canale ghiacciato poi, stanco di essere continuamente investito dalle scariche, preferisco attaccare uno strapiombo sulla faccia sinistra del diedro.

Verso la fine del pomeriggio sbuco sulla cima del diedro e vedo che questo è terminato. Lo urlo a Toni e salgo ancora pochi metri, finché trovo un terrazzino dove depositare il materiale.

Sotto di me trecento metri circa di dura parete sono fatti, un altro ostacolo è superato, ma a questo punto sono veramente sfinito. Il nevaio e il diedro in alto non sembrano difficili come il primo. Mi metto al lavoro per preparare il posto del magazzino, poi ricomincia il faticoso lavoro di recupero di tutto il materiale e delle corde. Ho continui crampi alle braccia e le mani rovinate dal continuo manovrare le corde recuperate. Quando il materiale è tutto ritirato, comincio a discendere.

Mentre mi calo fisso la corda di canapa; mi sembra inutile far risalire Toni per attrezzare quel tratto. Toni, mentre io attrezzo, prepara la corda doppia per scendere.

Oggi abbiamo fatto un bel lavoro, il diedro è imprigionato da corde, chiodi e staffe, ora per noi sarà facile risalire fino al magazzino.

Sono circa le 9 di sera quando trascinando i piedi e barcollando attraverso il ghiacciaio ci riportiamo sfiniti al campo III. Ho la febbre, sto male e la testa mi gira. Non ho alcun desiderio di mangiare. Mi butto nel saccopiuma e sono scosso da brividi di freddo.

Da Patagonia, terra di sogni infranti di Cesarino Fava
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«Ci incontriamo più avanti, a metà del diedro strapiombante. Il primo a sbucare fuori, silenzioso come un fantasma, tutto coperto di neve, è Toni. Per poco non mi pianta in testa le punte aguzze dei suoi ramponi.
“Sei incredibile! Ieri che era una bellissima giornata sei rimasto al Mocho!”.
“Già, e che cosa farei giù in quel buco con questo tempo? Dimmi piuttosto, dove siete arrivati?”.
“Fuori, fuori siamo al ghiacciaio pensile. Per questo scendiamo”.
“E Cesare?”.
“Sta sistemando il materiale, poi scende. Che cos’hai nello zaino?”.
“Corda, cunei, chiodi e cordini”.

… … … … …

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“Ho paura che dobbiamo discutere come e quando preparare la prossima spedizione. Sono già quasi quaranta giorni che andiamo su e giù, avanti e indietro, e sul Torre siamo saliti solo 350 metri, appena un terzo (Cesarino Fava)».

16 gennaio
Nevica continuamente da questa notte. Io sono sempre molto stanco, non posso alzarmi.

E’ salito il dottore; povero Angelo, era molto preoccupato. Mi ha consigliato di riposare e mangiare. Ma noi non possiamo riposare. Se domani sarà bel tempo, febbre o no, ritornerò al Torre. Oggi Toni e Cesarino avevano in program di portar su un po’ di chiodi a espansione e da ghiaccio lasciati alla base del torre in una tana di ghiaccio.

Con il dotto re è salito anche Spikermann, anche lui è preoccupato. Fingono di essere allegri per tenermi su di morale. Sono veramente felice di averli nella mia spedizione. Chiedo loro notizie del campo II. Mi dicono che riposano, cercano cristalli, fanno piccole gite nei dintorni e si allenano su un sasso.

Poi si chiudono nei loro duvet e ritornano al campo II, Cesarino premuroso mi fa bere litri di cioccolata. Povero Cesarino, ha freddo ai piedi, ma il suo senso del dovere lo spinge a resistere mentre starebbe tanto volentieri nel sacco piuma. Lavora, s’affatica, porta carichi pesanti. Ieri è salito solo fino alla base del diedro a portare materiale, e tutto questo per poi lasciare a noi due la vittoria finale.

Quante volte ho sognato questa cima, quante volte l’abbiamo sognata insieme, nelle lettere, nei caldi rifugi dolomitici, nei freddi bivacchi dello scorso anno. Ma ora siamo qui, e il Torre sarà nostro.

17 gennaio
Piove e c’è vento. Toni e Cesarino devono aprirsi l’uscita con la pala. Il mio malessere è quasi passato. Invece il dito medio della mano destra è dolorante e gonfio. Non posso muoverlo.

18 gennaio
Nevica. Toni e Cesarino devono ancora scavare per uscire. Durante la notte il vento ha otturato completamente l’uscita.

Il dito mi fa sempre male, faccio impacchi di acqua salata bollente e sale. Devo avere qualche cosa sotto l’unghia. Il malessere però è scomparso, mi gira solamente un po’ la testa.

Nel pomeriggio, Toni e Cesarino sono scesi al Mocho dai ragazzi, e io sono qui da solo. Ho freddo ai piedi e desiderio di rivedere facce note. Ormai si può dire che, fatto questo tremendo diedro, siamo alla forcella; poi dovrebbero rimanere circa seicento metri. Ma sarà meglio lasciare al tempo la decisione.

Cesare Maestri supera il primo tetto sotto una continua piccola slavina di acqua e di neve. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

19 gennaio
Ieri sera Cesarino è risalito al campo III, mentre Toni è rimasto giù con i ragazzi. Abbiamo parlato molto di Trento, abbiamo fatto progetti per il futuro, poi stanchi ci siamo addormentati.

Oggi nevica sempre, una tormenta sconvolge la valle del Torre. Il vento rotola in basso con un rumore infernale sollevando intorno metri e metri di neve. Decidiamo di scendere al campo II. E’ inutile stare quassù fuori dal mondo a mangiare viveri il cui trasporto è costato tanta fatica.

Scendiamo nel mezzo di una tormenta furiosa. Non riusciamo a vedere niente, la pista è sparita. Più in basso piove e quando arriviamo al campo II siamo bagnati fradici. Abbiamo tutti un grande desiderio di rivedere un po’ di verde e di fare un bel fuoco.

Decidiamo di andare al campo I. Oggi proseguiremo in quattro: Fava, Spikermann, Vincitorio ed io. Domani, se sarà ancora brutto, andremo da Madsen e aspetteremo Toni e i fratelli Dalbagni. Ci avviamo verso il campo I attraverso il piccolo ghiacciaio spazzato dal vento. Sulla morena, il continuo andare e venire dei ragazzi ha creato un comodo sentiero; più che un sentiero è una pista, ma ci si cammina bene ed è subito rintracciabile. Pregustiamo il piacere del fuoco, ma arriviamo troppo tardi. Ci spogliamo dei vestiti bagnati e ci infiliamo nei saccopiuma.

20 gennaio
Nevica anche qui al campo I. Sono solo poche faville, ma tutto intorno il tempo è brutto.

Decidiamo di continuare fino alla fattoria di Madsen. Che piacere si prova nel rivedere un po’ di verde dopo tanto bianco, che piacere stendersi su quest’erba morbida! Quaggiù in valle il tempo è abbastanza alto, mentre sulle montagne le nuvole corrono impazzite.

Raccogliamo radicchio e porri selvatici che Cesarino mangia anche crudi; era tanto tempo che non mangiavamo verdura fresca. All’estancia il vecchio Standhart ci accoglie con cordialità, e ci offre cordero assado. Qui la pecora è il piatto principale, anzi l’unico. La mattina pecora bollita, a pranzo pecora al forno, la sera pecora in umido. Anche la luce è fatta con grasso di pecora che brucia uno stoppino intriso di grasso.

Ci accampiamo nel capannone della tosatura e, con pelli di pecora, ci prepariamo la cuccia. Siamo stanchi e demoralizzati. Quanto durerà il brutto tempo?

21 gennaio
Il tempo è sempre brutto. Cesarino e io per tenerci allenati tagliamo tutta la legna che troviamo lì in giro. Grossi tronchi vengono ridotti in legna da ardere, ammucchiata lungo le pareti del magazzino. Con le ossa delle pecore ci facciamo dei magnifici scacchi e con questi inganniamo il tempo.

Qui all’estancia sono veramente gentili, ci ospitano e noi abbiamo addirittura invaso la loro casa pur cercando di recare il minor disturbo possibile e di renderci utili in qualsiasi modo. Cesarino e io continuiamo a tagliare legna come forsennati. Angelo e Juan Pedro ci riforniscono di tronchi, portano acqua e puliscono il prato davanti alla casa. Facciamo lunghe passeggiate e discussioni a non finire. Toni e i fratelli Dalbagni sono ancora lassù, credo che non abbiano desiderio di fare la strada dal campo I a qui. I giorni sono lunghi quaggiù, e continuiamo a pensare al tempo che passa e al tempo che perdiamo. Abbiamo un solo desiderio: tornare al Torre, il più presto possibile.

22 gennaio
Ho scoperto che Cesarino ha una profondissima cultura in vari campi e che conosce la storia dell’ultima guerra alla perfezione. Ora so anche con sicurezza che questa guerra l’abbiamo perduta per colpa sua. Difatti, raccontandomi le sue vicende sul fronte francese, mi dice che lui all’inizio aveva molto entusiasmo, poi si stancò, gli caddero le braccia. Da quel giorno la sconfitta fu inevitabile.

Il tempo è sempre brutto: vento, pioggia e in alto neve e vento. E noi siamo con il morale a terra.

Nel pomeriggio arriva Toni. Ci conferma che lassù il tempo è sempre brutto, al campo I piove. I fratelli Dalbagni non hanno desiderio di scendere, si fermeranno ancora qualche giorno. Toni è demoralizzato per il tempo, così alle nostre facce tetre si aggiunge la sua. La sera, il cielo si schiarisce un po’. Se domani è bello ritorniamo ai campi.

23 gennaio
Piove forte questa mattina. I nostri progetti vanno in pezzi. Giriamo come anime in pena, rompiamo legna e giochiamo a scacchi.

Ci chiediamo continuamente quanto durerà questo nostro riposo forzato. Nel pomeriggio il tempo sembra ristabilirsi. Per il momento piove, ma ogni tanto si vede un po’ d’azzurro.

Domani, in qualsiasi caso, andrò al campo I per vedere che cosa fanno gli altri due ragazzi.

24 gennaio
Il sole. La valle ne è colma, ma le montagne sono ancora coperte di nuvole pesanti. Il sole. Prepariamo i nostri sacchi, salutiamo gli amici dell’estancia e cominciamo a risalire verso il campo I.

Arriviamo prima di mezzogiorno. Gianni e Augusto stanno scaldandosi al fuoco. Eccoci tutti insieme. Prepariamo una abbondantissima pasta asciutta, carne e piselli.

Insegniamo ai ragazzi canzoni di montagna, discutiamo di musica e felici, stanchi e fiduciosi andiamo a dormire.

25 gennaio
Siamo partiti molto presto questa mattina, e ora qui al campo II prepariamo da mangiare, prendiamo il sole sdraiandoci nudi sugli enormi sassi di granito. Il sole è caldo, le montagne in giro sono cariche di neve. Il Torre è bianco, meravigliosamente bianco..

Dentro di me penso: ”Ora o mai più”. Nel pomeriggio ci prepariamo a risalire al campo III.

I ragazzi ci guardano come se fosse per l’ultima volta. Ci abbracciamo e piano cominciamo a salire i pendii che portano al campo III. Saliamo lenti verso il Torre, mentre i ragazzi ci salutano tristi.

26 gennaio
Il tempo è ancora un po’ incerto. Cesarino, Toni ed io andiamo alla base del Torre. Quando arriviamo è molto presto.

Quassù tutto è cambiato, segni di grosse valanghe hanno sconvolto la fisionomia del luogo. Un gran crepaccio è quasi chiuso dalla neve caduta. A un tratto, ci ricordiamo dei chiodi sepolti alla base della parete.

Abbiamo dimenticato circa un centinaio di chiodi da ghiaccio in una piccola grotta destinata a magazzino. Cerchiamo di individuare la direzione e cominciamo a scavare un tunnel di circa sei metri di profondità, finché arriviamo alla neve dura. Troviamo un sasso la cui forma ci è abbastanza nota. Sappiamo che questo è a circa sei metri più in alto dei chiodi sepolti.

Cesarino comincia a fare calcoli strani, disturba Archimede e altri geni della matematica, poi sentenzia che dobbiamo cominciare a scavare lontanissimo dal luogo dove presumiamo siano i chiodi. Così lavorando a turno fino a sera, scaviamo un tunnel profondo quindici metri per due metri di larghezza e un metro e ottanta di altezza.

Durante il mio turno, mentre scavo inginocchiato, non so resistere e piango rabbiosamente. Mi chiedo perché quaggiù debba essere tutto così grande: le distanze, le pareti, i metri di neve. Continuiamo a lavorare finché, trovata la neve vecchia, non ci rimane quasi più nessuna speranza.

Poco prima di abbandonare tutto, trovo uno spago, lo seguo e al termine trovo i chiodi.

Al campo III ci dimentichiamo della fatica di oggi e apriamo una bottiglia di vino che volevamo tenere per la vittoria. Ma anche questa è stata una vittoria, fortunata ma sempre vittoria. E ci sembra giusto brindare.

27 gennaio
Abbiamo riposato e atteso che la parete attrezzata si liberasse dalla neve. E’ tempo ormai di decidersi.

Ognuno di noi dice la sua: Toni crede che la presenza della neve in parete ci sia di aiuto per tentare la salita decisiva. Cesarino fa presente che i viveri potranno durare ancora due o tre settimane. Io ripeto quello che dissi a Toni il primo giorno che parlammo del Torre: “Ogni mio passo sarà rivolto al Torre, ogni mia fatica sarà per il Torre e se crederete questa montagna impossibile, mi lascerete quassù solo, finché non sarò vincitore o avrò perso per sempre”.

Una cosa oggi è certa, che domani saliremo definitivamente le ripide pareti del Torre.

Dentro di me, questa sera, non c’è paura o coraggio, felicità o tristezza, ma solo questo pensiero fisso: ”Domani salirò sul Torre. Come è normale tutto ciò: domani sarò sul Torre”.

28 gennaio
Nella vita di un uomo c’è sempre un momento nel quale tutto viene pesato, nel quale altro non vale che vincere e arrivare; il momento di lasciare la speranza per il volere. Oggi, questo momento è mio. Se non tornassi, direte che ho cercato il mio “senso della vita” lassù al Torre. E ricordatemi.

Salita
Ci prepariamo a partire in silenzio, quasi partecipassimo a un rito. La nostra tana di ghiaccio è illuminata da tre candele e dai fornelli a petrolio che soffiano.

Ognuno di noi ferma il pensiero sulle cose che gli sono servite durante il lungo soggiorno fra queste mura di ghiaccio.

I sacchi sono già fuori sulla neve, nulla più ci trattiene, ma ognuno indugia, rovista, cerca. E’ ora. Spenti i fornelli e le candele, dobbiamo uscire, legarci, caricarci degli zaini e cominciare a salire verso la base del Torre.

Nuvole bianche corrono alte coprendo e scoprendo pezzi di cielo. E’ ancora buio, si sente solo lo scricchiolio dei nostri passi e il nostro respiro ancora affannoso.

Che cosa succederà? Questa domanda mi assilla e assilla, credo, anche i miei compagni. Il Torre sta sopra di noi silenzioso, semicoperto dalle nubi, che gli si gonfiano attorno come lo zucchero filato attorno al bastoncino.

Ora il passo e il respiro sono più ritmici e ci avviciniamo al momento in cui poseremo le mani ancora una volta sul Torre, e questa volta per vincerlo.

Per me non ci sono dubbi o compromessi: arriverò sul Torre o resterò per sempre fra queste montagne. Questo pensiero mi pesa più dello zaino, più di tutte le fatiche. Non è il modo migliore di accostarsi a una parete, c’è attorno aria di morte.

Il mio pensiero arranca sulle gelate pareti del Torre. E Toni che cosa penserà in questo momento? Toni mi ha ripetuto mille volte che non arrischierà mai la vita per una montagna. Quindi se sale con me ora, vuol dire che sa di farcela. Ma quali pensieri gli passeranno per il capo?

Arriviamo alla base della parete, scambiamo gli zaini. Io salgo per primo con un sacco leggero; Fava salirà in mezzo con un sacco pesante e Toni per ultimo, anch’egli molto carico.

Saliamo insieme fino alla base del diedro poi, sempre usufruendo delle corde fisse, lo superiamo. Io salgo, assicuro Cesarino, il quale assicura Toni, mentre io salgo lungo le corde fisse per poi ripetere le operazioni precedenti.

In poco più di tre ore arriviamo al piccolo terrazzino alla fine del diedro. Saliamo ancora una filata facile e cominciamo a tagliare diagonalmente, poco sopra la base, quel nevaietto conico che continuamente ci scaricava addosso piccole lavine. Ci scambiamo gli zaini e Toni passa in testa, mentre io resto in coda. La pendenza non è molto forte, ma il salto alla nostra destra ci consiglia di fare le assicurazioni come si deve. Toni sale sicuro usando la piccozza solamente per l’equilibrio.

Al termine della neve si alza una serie di fessure. Prendiamo la principale, in parte libera e in parte ricoperta di ghiaccio. Scambiamo ancora una volta le posizioni e i sacchi, e cominciamo a salire. Le difficoltà si aggirano sul quarto e quinto grado, ci alziamo abbastanza velocemente. Arrampichiamo in un ambiente severissimo; pareti lisce e strapiombanti corrono ai nostri lati dal cielo fino alla neve, levigate, senza fessure né terrazze.

La nostra unica preoccupazione è quella di arrampicare, di alzarci sempre di più e non sentiamo né la fame, né il sacco che ci taglia le spalle. Le ore passano e i metri che ci dividono dalla forcella non sono più molti. Arriviamo così alla base di un gran diedro strapiombante e liscio che corre verso sinistra. Sarebbe interessante chiodarlo; ci porterebbe molto in alto al riparo da eventuali bufere di vento, ma ci terrebbe impegnati troppo tempo per le difficoltà che presenta (è il futuro Diedro degli Inglesi, NdR).

Preferiamo continuare verso destra, con una lunga attraversata in salita per portarci verso la forcella. Qui lasciamo una corda fissa che Toni trascina dietro. Servirà a Cesarino quando tornerà.

Ora la parete si fa sensibilmente più difficile e ogni tanto presenta passaggi di sesto grado. Quasi al termine della traversata, sono già al mio posto di assicurazione e Cesarino sta arrampicando, quando sento un soffio sopra la testa. Faccio appena in tempo a guardare in alto e ad avvertire i compagni, che una valanga di neve precipita sopra di noi. Di Toni non mi preoccupo molto perché è autoassicurato, ma Cesarino sta arrampicando.

Mi irrigidisco in posizione di sicurezza e aspetto che la neve smetta di cadere. Alla fine Toni ne è completamente ricoperto e Fava ha un ridicolo cappello di neve alto quasi un metro.

A me sono arrivati solo pochi pezzi di ghiaccio. La valanga, forse una cornice della cima, ha percorso tutta la parete nord alla velocità di un fulmine, e ci è capitata addosso senza preavviso.

Presto superiamo gli ultimi cento metri che ci separano dalla forcella. Prepariamo il posto di assicurazione, deponiamo i sacchi e ci sediamo stanchi. Soltanto ora ci guardiamo attorno. Alle spalle abbiamo il Fitz Roy, davanti lo Hielo Continental in tutta la sua immensità, sulla destra si alzano le pareti lisce come il vetro senza la minima fessura. Sulla sinistra il Torre. Pauroso. Stupendo. La parete nord e la parete ovest si presentano in tutta la loro imponenza. Fisso queste pareti e vedo in agguato la Morte in ogni fessura, in ogni canale.

Cesarino tace, Toni prova a salire sulla neve che la forza del vento ha fato aderire ad alcune placche. La neve tiene bene. Abbiamo potuto constatarlo anche più in basso, dove la forza del vento è minore.

Sopra di noi sulla parete nord, questa neve portata dal vento è gelata contro la roccia. Toni dice che ci servirà a meraviglia. Allora è deciso, proveremo a salire.

Sono circa le 15 e Cesarino deve lasciarci. Ci guardiamo, ci stringiamo la mano, ci abbracciamo. Fava sussurra: ”Tornate”.

Assicurato dalla nostra corda di duecento metri, lo caliamo di peso fino all’inizio della corda fissa. Fava ne giunge presto al termine. Ora non lo vediamo più, ma lo sentiamo scendere. La corda scorre veloce poi, ormai quasi al termine, avvertiamo tre lunghi strappi, una pausa, uno strappo, una pausa e ancora tre strappi. E’ il segnale, Cesarino è arrivato in fondo alla corda fissa della traversata che gli servirà per scendere a corda doppia. Proviamo a recuperare la corda: viene facilmente.

Cominciamo a preparare un buco nella neve con l’apertura rivolta verso il Fitz Roy. Richiede qualche tempo ed è meglio; così non penso a Fava, che scende da solo per questa ripida parete. Certo anche lui ha un nodo alla gola.

La seconda edizione di Patagonia, Terra di Sogni infranti (2015)

Da Patagonia, terra di sogni infranti di Cesarino Fava
Pag. 134, 135 e 136
(Qui parla del giorno 28 gennaio, NdES).
“Se credete che io possa esservi utile “dissi”, “vi accompagno fin dove posso”.
Attraversiamo in diagonale il nevaio pensile fin sotto il liscio diedro trasformato in un ampio camino dalla neve incrostata sulla roccia. Senza esitazione, Toni fissa lo zaino al cordino di recupero e parte, dimostrando subito che se Maestri, da autentico maestro, sulla roccia fa tutto quello che vuole, sul ghiaccio il maestro è lui. Arrampica con la scioltezza e l’armonia di movimenti di una gazzella in corsa.

Cesare ed io, attenti alla sicura, lo osserviamo meravigliati salire con quei suoi ramponi rigidi a dodici punte, la piccozza nella mano destra e un chiodo speciale nella sinistra, veloce e sicuro. Mi sembra che con quel mantello di neve assodata sulla parete, il Torre volenteroso ci abbia spianato molti ostacoli. Quando tocca a me avviso Toni che vado su con i prusik. Cesare è d’accordo, Toni lo è un po’ meno: dice che non è difficile. Infine vado a modo mio. Toni è euforico.

“Tiriamo su il mio zaino” dice.
“Lasciami respirare, Toni!”, ma lui, senza attendere: “Molla lo zaino Cesare!” e lo tira su da solo.

Laggiù a oriente, una sottile linea rosa annuncia l’alba, e ci convince che la decisione che ci ha portati qui è stata indovinata.
“Hai fatto un capolavoro, Toni” dice Cesare quando arriva su.

In alto sotto il colle, in un aggrovigliato zigzag traversale su un misto infido di neve, ghiaccio e roccia, quando ormai ci sembra tutto risolto, sentiamo all’improvviso lo schianto del ghiaccio che si spacca, immediatamente seguito dal grido di Cesare: “Attenti, valanga!”.

Io sto attraversando in salita e sono in una posizione esposta, in equilibrio precario. In una frazione di secondo penso a tutto ciò che di peggio può succedere. Rassegnato, proprio mentre vengo colpito dai frammenti di ghiaccio che precedono il grosso della valanga, scorgo all’altezza delle ginocchia un’ampia fessura formata da una spessa lama di ghiaccio vivo e la parete. Rapidamente, infilo dentro una dopo l’altra le braccia. Giù in fondo alla crepa trovo uno spuntone di roccia e, nel momento stesso in cui vengo investito dalla valanga, mi afferro ad esso con la veemenza di un naufrago. Ora devo resistere. Resistere a ogni costo. Tutto si fa buio. Il tratto di corda che corre tra Toni e me, investito dalla massa di neve mi dà uno strattone e mi fa roteare il busto strappandomi verso il vuoto. Stringendo con tutte le mie forze la provvidenziale scheggia di granito, riesco a tirare la corda e a portarmi nuovamente in posizione verticale. Resistere, resistere! Attimi lunghi come ore. A poco a poco la pressione diminuisce e ritorna la luce. L’arco di corda oscilla ancora quando guardo sotto, convinto che Toni sia stato spazzato via. Ma Toni è lì, appiattito contro la parete, completamente coperto dalla neve.

“Toni, Toni, è passata!”.
Si scuote. “Ah! Ci sei ancora?”.
Cesare, ben protetto al di là di uno sperone, ha teso rapidamente la corda e l’ha bloccata evitando di essere strappato via dalla parete.

Passata la paura riprendiamo a salire con complicati raggiri e manovre di corda in un continuo alternarsi di salti brevi di roccia e di ghiaccio, cenge innevate e piccoli camini. Finalmente dopo un ultimo difficile passaggio, quando meno me l’aspetto, usciamo dal labirinto insidioso della parete est, ed ecco apparire improvviso l’indescrivibile splendore dell’immenso Hielo Continental. Estasiati osserviamo muti quell’indimenticabile spettacolo.

“E allora?”, domando dopo un lungo silenzio che mi sembra un’eternità.
“Per andare si va” risponde Toni con la sua simpatica erre moscia.
Silenzio.
“Ce la farai a scendere da solo?” chiede Cesare con tono di voce perentorio, dopo una lunga pausa.
“Se mi aiutate a superare il traverso, poi giù per il camino non avrò problemi, e alle corde fisse del diedro in qualche modo ci arriverò”.
“Allora” riprende Toni, “è meglio che tu scenda subito”.

(Perché non c’è una spiegazione dettagliata della calata di 200 metri? NdES)

… … … … …

Da pag. 137 a pag. 142
“Vai giù a carrucola” mi aveva consigliato Toni, “non importa se dovrai bivaccare con questo tempo, ma vai sempre in sicurezza. Piano e con calma”.

Al posto del moschettone assicurai la corda al chiodo con un anello di cordino. Fissai alla corda, a monte del chiodo, due anelli di cordino lunghi un metro con un nodo Prusik: quello sotto, di bloccaggio, doppio; semplice l’altro, quello di frenaggio. Agganciai tutti e due gli anelli al moschettone dell’imbracatura, preparata con un anello di cordino girato a forma di un 8 infilato nelle gambe e tirato su fino all’anca. Così imbrigliato non avevo nessuna possibilità di volare via. Anche se fossi stato colpito a morte da un masso, sarei rimasto là, appeso alla corda. Come meta da raggiungere mi prefissi non più la truna ma una più vicina e più pratica: l’inizio delle corde fisse. Dal punto in cui mi trovavo non potevo vedere il bordo inferiore del nevaietto pensile sotto il quale c’era il terrazzino dove avevano inizio le corde fissate alla parete del grande diedro. Avevo con me alcuni chiodi lunghi da ghiaccio, la piccozza e il martello: tutto il necessario per riuscire. La corda di ottanta metri mi avrebbe facilitato la discesa. E, cosa importante, avevo a disposizione almeno quattro ore di luce. Dovevo soltanto stare attento a non commettere alcun errore. Il pericolo maggiore era la possibilità di non riuscire a recuperare le corde, o di rimanere vittima del franamento del fungo della cima. Avevamo discusso mille volte questa possibilità e alla fine avevamo accettato il rischio. Eravamo sulla montagna più difficile del mondo. La montagna incredibile. Impossibile? Impossibile era pensare di scalare una montagna come questa senza preventivare la possibilità di un non ritorno. Su questa montagna i pericoli oggettivi sono tali che non è possibile affrontarla senza oltrepassare il limite della sicurezza che offrono i mezzi artificiali e la tecnica. In questo Bruno Detassis, il nostro grande vecchio, aveva non una ma mille ragioni!

Controllai ancora una volta il chiodo dell’ancoraggio. Poi piano, senza strappi, caricai le corde lentamente, trascinando con me e trattenendo con le gambe la matassa aggrovigliata della corda, mi calai giù per il ripido canale innevato.

Mi tenevo eretto sostenendomi con la mano sinistra, mentre con la destra regolavo la tensione dei nodi prusik in modo da evitare pericolosi strappi che avrebbero potuto indebolire l’ancoraggio.

Ma ciò che mi preoccupava erano quei riccioli a spirale che si formavano sulla corda di perlon, che al momento del recupero rischiavano continuamente di impigliarsi alla più piccola asperità del ghiaccio o della roccia. Di tanto in tanto bloccavo i nodi e mi fermavo per controllare i metri di corda inerte, la strada fatta e quella ancora da percorrere, per arrivare al chiodo della sosta successiva senza correre il rischio di oltrepassarlo. Mi fermavo anche a rimirare ogni dettaglio dell’inimmaginabile spettacolo del mondo verticale che mi circondava, stupito della grandiosità ingannevole delle proporzioni, diverse da quelle delle Dolomiti; qui bisogna moltiplicare per quattro le distanze, il tempo e lo spazio.

I segni ancora evidenti nella neve e nel ghiaccio del terrazzino, il chiodo sicuro fissato nella roccia stamattina, mi ricongiunsero col pensiero ai miei due compagni e amici lasciati lassù e mi ridiedero coraggio. Mi assicurai al buon chiodo, tolsi dalla corda gli anelli di sicurezza, diedi uno strattone e, tenendo la corda tesa, tirai con tutta la forza residua finché non la sentii scorrere nell’anello senza intoppi. Il recupero della corda doppia è quanto di più semplice vi sia, ma quando si è soli tutto diventa maledettamente complicato e difficile.

Erano già trascorse venti e più ore da quando avevamo lasciato la nostra casetta, l’igloo. Ed erano più di 50 giorni che andavamo su e giù, avanti e indietro, e la stanchezza, compagna inseparabile delle grandi ascensioni, faceva sentire la sua presenza. Ogni movimento era lento, pesante. C’era anche qualche avvisaglia di crampi alle mani. Quei pericolosi crampi che impediscono alle mani di chiudersi, o di aprirsi se sono chiuse. Per evitare aggrovigliamenti lasciai andare giù la corda con ampie volute per lo strapiombo che aveva dato tanto lavoro a Toni stamattina. Mentre saliva, a un certo punto non vedevo altro di lui che le punte dei ramponi. Come facesse a mantenersi attaccato a quel muro di ghiaccio e neve verticale non riuscivo a capire. Capivo soltanto che se fosse caduto saremmo precipitati inesorabilmente tutti e tre insieme. Quando era arrivato su questo terrazzino si era raddrizzato e aveva riempito il cielo con uno dei suoi magnifici jodel. E’ difficile immaginare una cordata più completa di quella di Maestri ed Egger. “Noi” diceva Toni, “fin che possiamo andiamo”. Ma se non si era fermato sotto a quel formidabile, pauroso strapiombo ghiacciato, dove si sarebbe fermato mai?

Quando la corda si tese, la passai nel moschettone dell’imbracatura ottenuta con un anello di cordino, e di lì alla spalla.

Mi assicurai alla doppia con due nodi prusik e, tenendo la piccozza fra le due corde per evitare che si attorcigliassero su se stesse, scesi infilandomi nel diedro innevato. La notte mi sorprese sul bordo superiore del nevaio pensile. Assicurato alle corde scavai nella neve per farmi una truna e proteggermi dal continuo martellamento di frammenti di ghiaccio provenienti dal fungo sommitale. Ma trovai subito il ghiaccio vivo. Invano provai più in basso, al limite delle corde. Stare fermo per cinque o sei ore ad attendere l’alba come un condannato alla sedia elettrica che aspetta la scarica mortifera, non era umanamente sopportabile. Mi rimproverai di aver usato l’ultimo chiodo da ghiaccio per rafforzare l’ancoraggio della precedente calata. Ma se un chiodo solo non avesse tenuto, cosa mi sarebbe servito risparmiare l’altro? Rinunciai subito a tentare di raggiungere le corde fisse di canapa in arrampicata e senza assicurazione. Io non ero Egger né tanto meno Maestri. Avrei potuto usare la piccozza come ancoraggio, ma avrei dovuto abbandonarla, e la piccozza è assolutamente indispensabile per uscire dalla crepaccia terminale e percorrere i duecento metri di ghiacciaio per raggiungere la truna. Mi sorpresi a inveire contro le teste dure dei miei compagni rimasti sul colle e che l’indomani con ogni probabilità sarebbero tornati indietro. Tanto sarebbe valso scendere assieme! Mi calmai quando, alzandomi un po’ su per il cono del ghiacciaio pensile, trovai la neve sufficientemente alta da permettermi di costruirmi un ancoraggio con un fungo di ghiaccio. Scavai un solco a forma di pera il più profondo possibile e avvolsi la corda attorno al “fungo” così ricavato, avendo cura di tenerla isolata dalla neve con la mia giacca a vento arrotolata. Il riflesso della luce delle stelle sulla neve e la mancanza di ombre mi dava sufficiente visibilità per lavorare senza grossi intoppi e portare a termine la delicata manovra.

Seguendo le orme ancora abbastanza visibili anche se semicancellate dalla neve, pendolando un po’ qua un po’ là sotto il bordo del nevaio, approdai finalmente sul tanto desiderato terrazzino dove avevano inizio le pesanti ma sicurissime corde fisse di canapa di dodici millimetri.

Recuperai le corde con relativa facilità e con un colpo di fortuna anche la giacca a vento. Ben assicurato con due cordini alle corde fisse, a contatto con la roccia, finalmente sentii cedere la tensione e affiorare la stanchezza. Una stanchezza infinita, dopo ventiquattro ore consecutive di incessante spasmodica tensione.

Adesso, sospeso sopra l’enorme diedro strapiombante a quattrocento metri dal ghiacciaio e dalla truna, mi sembrava di essere ormai a casa. In un’ora avrei potuto essere in fondo alle corde fisse. Un’altra ora per superare la terminale. E mezz’ora per raggiungere l’igloo. In totale due ore e mezza. All’alba avrei potuto essere in tenda al sicuro, comodamente sdraiato nel sacco a pelo, e al caldo. Due ore e mezza. Vado, non vado, vado, non vado… Infine mi addormentai.

Uno schianto brutale mi riportò dal mio stato di semi-incoscienza alla cruda realtà; ciò che tanto temevo mi colse proprio mentre ero addormentato e stanco. Mi appiattii contro la parete deciso a non lasciare che rivoli di neve si accumulassero tra me e la roccia. Il tonfo sordo, con la sua lunga coda sonora che si smorzava lentamente nell’infinito, mi indicò finalmente che la mostruosa valanga proveniva dalla spalla della cresta est-sud-est, e non dal fungo sommitale. Interpretai comunque l’accaduto come un monito a non indugiare. Mi agganciai alla corda fissa e, dopo aver stretto le cinghie allentate dei ramponi, scesi lentamente giù per il grande diedro strapiombante trascinando con me la corda. Queste corde di canapa quando sono asciutte offrono una presa eccellente; alla minima tensione il nodo prusik morde e blocca immediatamente. Prive quasi di elasticità danno un senso di sicurezza assoluta. Il superamento della crepaccia terminale fu meno complicato di quanto temevo: ancorata la corda doppia alla corda fissa, scesi dentro il crepaccio seguendo le corde di canapa e, lavorando di piccozza, risalii quei quattro o cinque metri che mi separavano dal bordo. Per recuperare la corda mi legai a un capo e, scivolando sulla schiena, mi infilai giù per il ripido pendio fino in fondo al valloncello formato dal cono di deiezione con un altro di una guglia adiacente.

Mi sforzai un poco per controllare l’ansia mentre mi dirigevo verso la truna, ormai così vicina. C’erano tre ponti di neve da imboccare, ma sarebbero stati ancora sufficientemente resistenti? La traccia lasciata il giorno prima era ancora visibile, ma era meglio assicurarsi.

Sull’entrata della truna mi fermai, slegai la corda e la lasciai lì. Superato l’angolo retto dello stretto cunicolo d’entrata rimasi un secondo in ascolto. No, non c’era nessuno. Fino all’ultimo momento avevo sperato di trovare due dei ragazzi. Angelo Vincitorio e Spikermann o Spikermann e Augusto Dalbagni. Ma tutto era sommerso dal gelo e dal silenzio. M’invase un senso di triste solitudine.

… … … … …

Ora abbiamo tempo di fissare il Torre.
Una seconda soluzione ci sarebbe anche sulla parete ovest. Una lunga attraversata sembra sfociare in un camino, che potrebbe portarci alla base dello strapiombo, sulla cresta sud-ovest (questo è un errore, non si comprende come Maestri potesse vedere qualcosa della parete ovest dal colle della Conquista, NdR). La scartiamo per decidere di salire la parete nord sul suo filo nord-ovest. La pendenza sembra forte a tratti, ma ci sono delle fessure che forse ci aiuteranno a salire.

Così viene sera; ci sediamo vicini nel nostro covo di ghiaccio, e ci lasciamo prendere dai timori.

Sopra di noi c’è una notte troppo calma, non soffia il vento; il rumore delle acque ci raggiunge dal basso fino quassù.

Cesarino sarà nella nostra grotta al campo III, solo nella tenda che ci ha ospitato. Penserà a noi, come noi pensiamo a lui.

Toni mi parla dell’avvenire, dei suoi progetti; nessuno dei due nomina il Torre, eppure è in noi, come sono in noi il sangue e le ossa.

Stenta a venire il sonno, questa notte. Migliaia di pensieri mi passano nel cervello e si accavallano. Devo riuscire a dormire, oppure domani sarò morto di stanchezza. Finalmente nel silenzio della notte il sonno viene e ci aiuta a districarci, almeno per qualche ora, dal groviglio di paure e di dubbi che ci assilla.

29 gennaio (data aggiunta, NdR)
Prestissimo, lontano, al di là della zona visibile, il sole accende larghi fanali, li fa splendere in mezzo a un’immensa distesa d’ombra. Poi il sole nasce in una culla di un rosso violento e il Torre si illumina. Sentiamo rinascere dentro di noi il desiderio della lotta, della vittoria.

Portiamo una corda di duecento metri, alla quale ci leghiamo tenendola doppia, dieci staffe, trenta chiodi da roccia (almeno 6 Kg, NdES), cento chiodi a espansione, trenta chiodi da ghiaccio (oltre 9 Kg, NdES), cunei di legno, trenta metri di cordini, viveri per tre-quattro giorni ed equipaggiamento vario per bivacchi. Gli zaini sono pesantissimi, venticinque chili circa.

Saliamo fino in cima al pilastro sulla cresta nord-ovest (questa frase è incomprensibile: loro si trovano alla base della parete nord e della cresta nord-ovest, NdR).

Sopra di noi, sale vertiginosa la parete nord. Placche, canali, fessure, tutto è ricoperto da uno strato di neve gelata, che ci dà immediatamente l’impressione di essere posticcia e provvisoria.

Toni mi guarda, io taccio. Così comincia la nostra lotta. Ora si tratta di seguire tutte le anfrattuosità della parete, i canali, le placche meno verticali per usufruire il più possibile della neve.

Toni sembra volare sulla crosta e ogni passo rimbomba con un sordo rumore di vuoto. A volte, la neve dura si lascia appena scalfire dai ramponi, a volte vi si affonda con tutta la scarpa.

Toni continua a salire: i chiodi posti per assicurazione entrano con le mani. Si ferma. Abbiamo deciso di non perdere tempo nel cercare fessure da chiodare, così scaviamo la crosta che ricopre le placche e piantiamo uno o due chiodi a espansione.

Salgo a mia volta; il mio peso è molto superiore a quello di Toni e la crosta sottile, che ha resistito sotto di lui, sotto di me cede. A volte larghe zone di neve si abbassano con soffi da mettere i brividi.

Toni starà sempre in testa finché non arriverà il ghiaccio solido. Nei tratti ripidi, Toni mi lascia anche il suo zaino e nel risalire la via tortuosa per arrivare da lui, i sacchi mi pesano, mi segano le spalle; il mio fiato diventa pesante quanto il carico. In questi momenti chiudo gli occhi quasi a strizzare fuori il sudore e la fatica, stringo i denti per non sentire il dolore, e niente altro conta se non arrivare a depositare gli zaini.

Toni deve continuamente salire senza una direzione precisa. A volte, traversate pericolose portano a canali pieni di neve che ci alzano con minor difficoltà e rischio.

A ogni posto di assicurazione, mille colpi di martello per forare la roccia, per picchiare in essa i due piccoli chiodi, gli unici amici in questa battaglia.

Sopra di noi, grandi, minacciosi e strapiombanti funghi di ghiaccio ci ricordano che la nostra vita non vale niente in questo mare di pericoli. Ogni tanto, piccole lavine di neve polverosa passano lungo la parete, con il loro caratteristico rumore di chicchi di riso gettati sul pavimento.

Sono quasi dodici ore che arrampichiamo. Siamo ormai vicini al limite degli strapiombi di ghiaccio.

Sono dodici ore che i nostri passi risuonano, come se camminassimo su una cassa vuota; ci assicuriamo a chiodi che entrano nella neve con troppa facilità o, incontrata quasi subito la roccia, sporgono per metà della loro lunghezza. Da dodici ore saliamo su una coltre di neve, stesa su questa parete nord, lasciandoci dietro una scala di tacche, e ora siamo al limite estremo sia del tratto di roccia ricoperta dalla neve, sia della nostra resistenza nervosa.

Sotto di noi, circa trecento metri, la forcella. E, ancora settecento metri più in basso, il ghiaccio. Chissà che cosa farà Cesarino.

Potessimo alzarci ancora un centinaio di metri, avremmo un magnifico terrazzo per bivaccare, ma siamo troppo stanchi ed è troppo tardi. Sopra la nostra testa ci sono cornici e paretine ripide; anche volendo, non arriveremo mai al terrazzino.

Decidiamo di fermarci qui, dove il ghiaccio ha già uno spessore consistente. Levato il primo strato squamoso, la neve diventa dura, difficile da rompere. Impieghiamo molto tempo a spianare e allargare il piccolo ripiano che ci ospita. Alla fine ci dolgono le braccia a furia di picchiare.

Prepariamo le assicurazioni, ci facciamo da mangiare. Toni segna su un quaderno le impressioni della giornata, mentre io penso alle cose più strane, cose alle quali non ho mai dato importanza. Non riesco a fissare i miei pensieri, l’uno scaccia l’altro, la testa mi duole, vorrei addormentarmi subito.

Nel mio saccopiuma fa troppo caldo, levo fuori le braccia ma il caldo non passa. Per fortuna Toni parla della guerra e ancora dei suoi progetti. Siamo qui sdraiati e questo mi ricorda una sera in riva al fiume con una ragazza: imbruna come allora, c’è un leggero vento in alto come allora. La parete nord sembra un gran fiume, che scorre lento e sparisce lontano, e noi siamo seduti sulla sua sponda come quella sera.

Vorrei che tutto fosse finito. E poter tornare a vivere di piccole cose: odorare un fiore, guardare gli uccelli volare, stringere forte la mia donna. Eppure mi pare che tutto questo non potrà più aver valore, se non arriverò sulla cima del Torre.

Parlo al singolare, perché Toni non è così. Toni sarà felice se potrà arrivare sulla cima, ma non deve arrivare. Io devo perché me lo sono ordinato. La notte passa veloce e nella mente c’è solo volontà di battaglia.

30 gennaio (data aggiunta, NdR)
Salgo io e lavoro di piccozza per superare una paretina che termina sotto una cornice. Alla base di questa, preparo un posto comodo per cominciare a forare il tetto di ghiaccio. Per circa due ore picchio, allargo, scavo il buco e riesco infine a uscire sulla cresta vera e propria. Ancora mezzo dentro, mi guardo attorno, come le marmotte quando escono dalla tana e, come le marmotte, mi scuoto la neve di dosso quando mi ritrovo in piedi sulla cresta.

Siamo felici. Ora parte Toni, supera ripide paretine con grande maestria: a vederlo così, da sotto, sembra che nulla lo tenga e che sia lì in aria per un magico incantesimo.

Qui il ghiaccio è sferzato dal vento, è liscio e verde, a volte ricoperto da un ponticello di neve e di ghiaccio squamoso che ricorda quei cancri bitorzoluti delle piante. Sopra Toni, c’è uno strapiombo di ghiaccio che lo costringe a fermarsi. Salgo a mai volta. Attraverso a destra, e trovo un canaletto che mi porta velocemente al primo terrazzino.

Di qui, è un susseguirsi di piccole pareti verticali, di strapiombi, di canaletti formati dal vento. A volte si sale su ghiaccio che si sfalda, a volte su ghiaccio duro come la roccia. Superiamo, sempre alternandoci al comando, tratti ripidissimi.

Dopo uno di questi, trovandomi in testa, devo assicurare Toni, ma la terrazza che mi ospita è ricoperta di neve profonda e di ghiaccio inconsistente e squamoso. La piccozza non basta e i chiodi non tengono. Faccio così un buco profondo mezzo metro e più, depongo la mia piccozza sul fondo in piano, dopo avervi fatto passare un cordino che esce dal foro per una ventina di centimetri. Poi ricopro tutto con la neve pesandola bene con i pugni e con i piedi. Quando ho sotterrato bene il mio tesoro, aggancio un moschettone al cordino e assicuro Toni mentre sale.

Il sistema dà buoni risultati, perché la neve si amalgama quasi subito con i lati del foro.

Toni sale una ripida paretina e a me tocca uno strapiombo di circa dieci metri, ricoperto di ghiaccio squamoso.

Aggirarlo è impossibile, devo superarlo direttamente. Anche qui i chiodi non entrano. Niente paura, ormai la tecnica della talpa è diventata la soluzione di tanti problemi. Così mi scavo una vera e propria fessura nella quale mi incastro e riesco lentamente a superare il passaggio. Più avanti, verso sera, ancora una cornice da forare, per fortuna meno grossa della prima. Usciti di qui, troviamo un canalino che ci porta facilmente e velocemente sull’ultima terrazza alla base del tratto terminale del Torre. Sono circa le 18. Continuiamo a salire da oltre tredici ore. Su questo comodo ripiano, poniamo così il terzo bivacco.

Pestiamo la neve polverosa e scaviamo un buco. Verso le 20 tutto è pronto, mangiamo e per la terza volta entriamo nei nostri saccopiuma. L’altimetro segna 3250 m; domani sarà brutto tempo. Oggi abbiamo avvertito questo cambiamento. Soltanto ora sentiamo che fa un po’ troppo caldo per essere sera. Il Mariano Moreno è ricoperto di nebbia. Certamente, pochi metri ci separano dalla cima.

Questa sera non voglio pensare. Domani la cima sarà nostra. E dopo? Dovremo ritornare. Come sempre.

Come sempre, il sonno ci porta in silenzio un nuovo mattino. Oggi non c’è il sole. Attorno al Torre corrono dense nuvole sospinte da raffiche non molto forti di vento. Mangiamo. Lasciamo nel buco due tavolette di cioccolata e un po’ di prugne. Portiamo nello zaino altre due tavolette di cioccolata e una scatola di frutta sciroppata.

31 gennaio (data aggiunta, NdR)
Toni parte e supera una parete molto ripida, quasi verticale. Sale piantando un chiodo dopo l’altro.

Poi salgo io e lascio i chiodi in parete. Continuo e supero un testone abbastanza ripido. Qui Toni passa uno strapiombetto di ghiaccio e urla: “Cesare, la cima!”.

Questo richiamo l’ho sognato per tanto tempo, è stato il mio incubo di tante notti. In mille sogni ho visto le nostre bandiere sventolare al sole sulla cima. E ora rimango quasi indifferente. Abbrutito dalla fatica, con i nervi a pezzi, mi preparo a consumare il sacrificio alla più stupida manifestazione umana: la vanità.

Ed ecco improvvisamente, con un colpo ciclopico, quasi un applauso scrosciante della natura alla nostra fatica, arriva il vento. E’ una forza indomabile, che si schianta contro il primo grande ostacolo che le si para dinanzi nella sua lunga corsa dal Pacifico a qui. Le raffiche investono la calotta terminale con la violenza di un cataclisma. Ci ancoriamo alle nostre piccozze, rannicchiandoci il più possibile.

Ora il vento trasporta nuvole e neve a una velocità vertiginosa. A carponi, riesco a muovermi tra una raffica e l’altra.

Assicurato da Toni attendo che io vento si calmi, poi salgo veloce il ripido pendio, ma un altro colpo di vento mi è addosso e devo fermarmi. Mi sembra di essere ritornato in guerra. Avanzo a balzi, approfittando dei momenti di calma, per poi rannicchiarmi ogni volta che sono investito da una nuova raffica. Arrivo così fra i grandi strapiombi di ghiaccio, che si affacciano sulle pareti est e ovest con cornici paurose.

Toni sale. Piantiamo le piccozze fino al ferro e così inginocchiati, legati al Torre, ci abbracciamo. Non è un abbraccio felice: è paura. Un vento caldo soffia feroce da ovest, la neve sarà presto fradicia e cadranno le valanghe.

Ecco la cima. Per questo momento ho lottato e vissuto, ne valeva la pena?

Mai, come ora, mi rendo conto che nessuna montagna vale una vita. Mi prende schifo per questa cima. Che schifo questo vento, le foto scattate, le firme depositate. No, non ne valeva la pena.

Era il mio principio di passare vittorioso dove altri non erano passati; ma qui vince il vento, vincono le nuvole che corrono veloci.

Andiamo via. Siamo arrivati su questa cima, abbiamo dimostrato che per vincere non servono i milioni, abbiamo dimostrato che cosa può fare la volontà. Ma a chi? Mi sento sminuito, a chi l’ho dimostrato? Andiamo via.

Cominciamo a scendere. Sopra il piccolo strapiombo fabbrichiamo un grande fungo di neve, cui passiamo attorno un cordino. Gettiamo la corda doppia, ma questa si alza nell’aria come un uccello spaventato.

Toni si lega ai capi della corda e io lo calo di peso, passando la corda fra due moschettoni. Toni si ferma, mi dà tre strattoni; io lascio che Toni recuperi un po’ di corda per provare se scorre, poi a mia volta scendo a corda doppia. Toni ha già preparato il posto di partenza su due chiodi da ghiaccio. Durante la terza corda doppia, Toni recupera i chiodi lasciati da me in parete e scendo anch’io.

Siamo sul terrazzino del terzo bivacco, questa notte ci fermeremo qui. Il vento ha chiuso in parte il foro di accesso alla nostra grotta. L’allarghiamo un po’ e ci troviamo d’improvviso al riparo dalla violenza del vento. Stendiamo la corda sulla neve perché ci faccia un po’ da isolante. Fa un caldo pesante, la neve è molle.

Le pareti del Torre cominciano a scaricare neve con boati e scricchiolii. Siamo circondati da nebbie che corrono veloci, il vento trascina con sé neve e nuvole.

Mangiamo le nostre ultime, scarse provviste. Da questo momento sarà difficile resistere, ma certamente riusciremo a porre piede sul ghiacciaio del Torre, a rifare per l’ultima volta stanchi, sfiniti ma vittoriosi, come aveva detto Toni, la strada del ritorno.

Ma quale vittoria tengo in pugno? Una vittoria riportata con risentimento, con rabbia, con il cuore gonfio di amarezza e di astio. Quanto diversa dalle mie vittorie solitarie, fatte di tecnica e di gioia di vivere.

Che cosa mi ha spinto quassù? Uomini che dovrebbero difendere i nostri interessi alpinistici agendo in modo parziale mi avevano irritato e offeso; uomini che sfruttando un particolare momento volevano dimostrare una volta di più la loro bravura. Ma se fossi stato più calmo e avessi continuato a vivere senza compromessi, non avrei gettato via la mia vita ancor prima di partire, quasi volessi pagare anticipatamente la salita al Torre.

Penso solo alla mia vita, Toni è un’entità a parte. Lui è un uomo prudente e ora si trova per caso in questa situazione pericolosa. Qui è la differenza: Toni, se avesse previsto il pericolo, non sarebbe salito; io sì, sono voluto salire nonostante tutto.

Questo modo di pensare e di agire offende i principi che ho sempre rispettato. E’ un tormento che non mi lascia dormire, come il tremendo rumore del vento che non smette un attimo di urlare. Passiamo una notte insonne.

La parete nord del Cerro Torre vista dall’aereo. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

1 febbraio (data aggiunta, NdR)
Anche oggi le nuvole gravano sopra di noi e il vento, sempre più forte, sempre più caldo, continua a corrodere le nevi del Torre. Attorno non si ode che rumore di vento e di valanghe.

Cominciamo a scendere calandoci a vicenda; chi scende per primo deve, dopo essersi autoassicurato, preparare il terrazzino per la nuova corda doppia, tenere le corde in mano finché il compagno sia sceso a sua volta, e recuperare anche la corda. Quando abbandoniamo il capo, questo si alza e noi lo guardiamo salire spaventati. Se si impigliasse, sarebbe la fine. La corda fischia e si contorce quando, liberata, cade sopra di noi.

E riprendiamo a scendere. Funghi di ghiaccio o chiodi, ogni volta ci afferra una grande paura: scenderà la corda?

Verso sera siamo al termine del ghiaccio. Sotto di noi la parete nord è irriconoscibile, le ripide pareti sono spazzate da continue valanghe che scendono dalla cima.

Comincia la fatica della preparazione dei posti di partenza. Due chiodi a espansione per volta. Ogni volta mille colpi. Qui, al limite destro della parete, non arrivano molte valanghe, ma di tanto in tanto una più grossa ci investe e ci ricopre di neve, e noi ci aggrappiamo alla corda per non essere portati via dal suo peso. Il vento è ora insopportabile come il suo urlo.

Poniamo il quinto bivacco, più basso del secondo, e passiamo la notte fra il vento che continua a urlare e la neve che ci investe. Siamo sempre in attesa di una valanga più grossa che ci schiacci sotto il suo peso.

Restiamo tutti e due rannicchiati nei nostri saccopiuma, la testa fra le mani per ripararla, con il corpo ricoperto da un mucchio di neve. Passa anche la quinta notte e riprendiamo a scendere. A tratti non sentiamo nemmeno la fame: dal 31 sera non sappiamo che cosa voglia dire mangiare o bere. Il nostro piccolo fornello ad alcol solido non sta più acceso. Dormiremo e mangeremo al campo con Cesarino. Chissà che cosa farò Cesarino? A tratti, invece, ci sentiamo dentro un vuoto terribile, guardiamo nei sacchi se fra i chiodi, cordini e cunei di legno troviamo qualche cosa da mettere sotto i denti.

Abbandoniamo dieci cunei che certamente non ci serviranno. Ne teniamo un certo numero per ogni evenienza. Il tempo è sempre brutto, il vento soffia sempre con la stessa violenza. Tutt’intorno c’è il buio, carico di brutto tempo.

2 febbraio (data aggiunta, NdR)
Oggi si tratta di scendere e attraversare lungo la parete nord, spazzata da valanghe di tutte le dimensioni. Caliamo il più delle volte su chiodi a espansione sotto la continua caduta delle valanghe. Quando le vediamo arrivare, ci copriamo la testa con le mani e cerchiamo di aderire alla parete fino a fare tutt’uno con essa.

A circa cento o centocinquanta metri dalla forcella, cominciamo a tagliare la parete verso est, lungo una costola che arriva a circa metà parete nord. E’ nostra intenzione arrivare al termine inferiore della traversata per non doverla rifare, ora che Cesarino l’ha disattrezzata per scendere a corda doppia. Verso il centro della parete le scariche si susseguono con ritmo quasi continuo.

Non facciamo nemmeno più caso alla neve che frana giù. Ognuno di noi fa in modo di essere sempre autoassicurato e assicurato dal compagno. Siamo bagnati fradici e sebbene ci sia un’aria calda, pesante, afosa, tremiamo di freddo e di stanchezza.

Continuiamo a scendere sempre verso est, finché arriviamo proprio alla fine della traversata. Due brevi corde doppie ci portano sul terrazzino alla base del gran diedro strapiombante. Qui non c’è più vento. Lo sentiamo passare sopra le nostre teste fischiando nella forcella. Saettano orizzontali, a grande velocità, pezzi di ghiaccio portati dal vento. Ci fermiamo un momento; finalmente possiamo capirci senza urlare, senza farci segnali con le corde.

Siamo sfiniti, ma ormai possiamo scendere lungo la corda senza essere sbattuti contro la parete come fantocci. E’ possibile recuperare le corde senza vederle portare in alto dal vento. E fra poco saremo alle corde fisse.

Io sono propenso a fermarmi qui, al riparo dalle scariche che cadono sul piccolo nevaio dalla cima. Certamente non potremo scendere in queste condizioni lungo le corde fisse, di notte.

Toni tace e si guarda intorno, mentre io preparo i buchi per i chiodi a espansione. Ne pianto tre. Sono quasi le 19.

“Allora Toni, che cosa facciamo?”.
“Io cercherei un posto più in basso per bivaccare”.

So che cosa pensa Toni, ma non vuole dirmelo. Non vuole bivaccare un’altra notte. Vorrebbe farmi scendere con la scusa del bivacco poi, arrivati alle corde fisse, farmi decidere a scendere.

“Restiamo qui, Toni, domani scenderemo meglio. Qui si sta meglio”.
“Voglio prima scendere a vedere. Assicurami”.

Mentre mi preparo a calarlo, penso dentro di me: “Io non scenderò, così sarai obbligato a risalire”. Preferisco passare qui la notte che sulle staffe alle corde fisse, perché non ho la forza di tenermi.

Passo la corda a spalle e poi nei moschettoni a freno, come sempre. Toni parte. Si mette a fianco con la parte sinistra del corpo a valle e tenendosi con la mano destra alla corda per l’equilibrio, comincia a scendere. E’ a circa venti-trenta metri da me quando, sopra la testa, sento un rumore strano e un soffio più pesante del vento. Mi sporgo per guardare e blocco le corde a Toni. Anche lui ha avvertito qualche cosa perché per un attimo guarda in alto, poi riprende a scendere mentre io lo calo lentamente.

Non riesco a togliere lo sguardo dalla nuvolaglia che ricopre la parete del Torre. Sento in me qualche cosa di strano. Quando immensa, improvvisa, esce dalla nebbia una montagna di neve e mentre urlo: “Attento Toni!” blocco le corde e mi addosso il più possibile alla parete.

Toni al mio urlo ha fatto il tentativo di risalire. Poi non ho più nessuna sensazione precisa. Lo strappo improvviso, la neve che cade, il continuo tonfo sordo, i pezzi di ghiaccio che mi investono, mi colpiscono. Poi tutto cessa; sento solo l’urlo del vento, mentre recupero la corda senza peso.

Quante volte ho ripetuto questo gesto arrampicando da solo. Ogni volta gioivo nel vedere i due capi salire dondolando nel vuoto. Ma ora sono l’uomo più solo del mondo.

Mi affaccio sul nevaio. E’ bianco, pulito. I blocchi di ghiaccio conficcati qua e là mi provano che non sto sognando. Sono solo.

“Perché mi hai lasciato solo, Toni?” Parlo a voce sommessa, quasi lo chiedessi timidamente a Toni, ancora vicino a me.

“Toni!” Ora urlo il suo nome, ma non c’è altro rumore che quello del vento in alto, e delle valanghe che rotolano tutt’intorno. La valanga ha portato via anche il mio sacco, dove non c’era che del materiale e l’equipaggiamento per il bivacco. Mi rannicchio vicino alla parete.

Ora ho fame, sete, ho desiderio di vedere Cesarino e i ragazzi, e dentro di me ho un dolore profondo, insopportabile. Potessi almeno piangere. Perché sei caduto Toni? Non dovevi morire. Io, io avrei dovuto cadere, io che ho voluto mettere in gioco la mia vita. Ma domani sarò con te, perché non è possibile che io sopravviva a questo inferno. Certamente la morte mi colpirà alle spalle come ha fatto con te.

Il vento urla, urla sempre là in alto, le valanghe cadono, il pensiero di Toni mi scorre nelle vene e un tremito invincibile mi scuote. Si facesse almeno giorno, si calmasse il vento. Ho fame e mi dolgono le mani.

Cesarino, dove sei? Che cosa fai?

Mi fossi ferito nell’incidente stradale mentre venivo a cercarti, Toni, ora saresti vivo. Non mi avessi mai scritto. Non dovevi morire. Io dovevo morire.

Ma ora ho voglia di vivere. Non cederò certamente. Domani scenderò stringendo i denti, finché cadrò sfinito o finché non mi investirà una valanga.

Riuscirò a sopportare il pensiero di Toni? Sento che lo porterò sempre in me e il suo ricordo mi procurerà sempre lo stesso dolore, come due vene tagliate e non più rimarginate.

Si facesse almeno giorno, si calmasse il vento.

Quante volte sono rimasto solo in parete? Ma all’attacco ero solo, e da solo avevo superato i passaggi; qui, invece, siamo partiti in due, in due abbiamo bivaccato, in due abbiamo vinto. E ora sono solo. Solo. Mai questa parola mi ha procurato tanto dolore.

L’alba è vicina; la sento nell’aria e nei brividi che mi scuotono, sempre più violenti. Nevica fortissimo e il vento continua a fischiare attorno al Torre e nella valle. Oggi si deciderà la mia vita.

Non alzerò la testa, se un soffio pesante mi avvertirà che la valanga cadrà possente. Non urlerò se tutto, in un attimo, diventerà teso e silenzioso; non potrò sentirmi felice se metterò piede sul ghiacciaio, alla base.

Ora sono solo e da solo dovrò arrivare al campo. Mi alzo.

3 febbraio (data aggiunta, NdR)
Sono sfinito, le ginocchia si piegano, le mani non riescono a stringere la corda. Respiro profondamente, come se volessi aspirare il mondo; preparo la corda doppia, me ne sono rimasti circa centoventi metri, e mi calo diagonalmente verso l’inizio delle corde fisse. Grosse valanghe insozzano il piccolo nevaio, ma niente riesce più a farmi alzare la testa. Continuo a discendere e così arrivo alle corde fisse. Trovo il piccolo deposito, mi libero del materiale che ho ancora addosso e che non mi può servire. Ora posso stringere fra le mani questa corda di ghiaccio, e solo qualche metro più in giù le valanghe non potranno più investirmi.

Su queste corde avrei dovuto scendere vittorioso con Toni, e invece sono solo.

Getto nel vuoto una corda che trovo nel magazzino, sparisce alla mia vista, ma so dove arriverà. Ogni tanto mi passano sopra il capo blocchi di neve.

Ho tanto desiderio di vivere. Continuo a discendere con la mia corda tranciata dalla valanga. Il tempo passa e la neve continua a cadere rabbiosa. Sono quasi arrivato in fondo, ancora uno sforzo. A circa dieci metri da me c’è la neve, il grosso cono di deiezione ripidissimo.

A un tratto, i piedi scivolano, annaspo con le mani nell’aria, cerco disperatamente gli appigli troppo lontani. La neve mi entra negli occhi spalancati nello sforzo di rimanere sulla parete; riesco ad afferrare qualche cosa, è una corda, la serro forte, la stringo come fosse la vita che volesse fuggire da me. Sì, tutto mi sfugge, eppure ho la corda in mano. In un attimo tutto è chiaro: devo aver afferrato un solo capo della corda doppia.

La parete si rovescia, la roccia diviene un ciclo pieno di nuvole, la corda si allunga come se fosse di elastico. Sono una macchina fotografica che registra le ultime immagini prima di sfasciarsi. Tutto termina con un colpo sordo, ho la bocca piena di neve e mi manca il respiro, mi manca l’aria, mi manca la vita…

Più tardi, molto più tardi, Fava esce dalla sua tana di ghiaccio dove ha vissuto sei giorni da solo. Dopo averci lasciati lassù sulla forcella, ha cominciato a discendere da solo lungo l’immane parete con il continuo terrore che la corda non scorresse più. A sera, quando il sole illumina solamente la punta del Fitz Roy, è sul ghiacciaio.

E’ stanco, il suo pensiero è molto più stanco dei suoi muscoli; ha corso tanto dal campo alla forcella dove ci ha lasciati, ha rifatto il percorso mille volte mentre i muscoli attenti lo aiutavano a scendere. Ora è solo nella grotta, e quel buco gli sembra smisuratamente grande per lui.

Il giorno dopo il sole splende e Fava scende un centinaio di metri a stendersi al sole, con gli occhi fissi al Torre. I ragazzi sono sempre al campo II e Fava spera che salga qualcuno a fargli un po’ di compagnia. Viene sera e la grotta è illuminata dalle candele che ingigantiscono la sua ombra solitaria.

La mattina del giorno 30 risale verso la base del Torre, sale per un pezzo la parete. Non riesce a star fermo. Ritorna al campo, i ragazzi nel frattempo sono saliti e ridiscesi e hanno lasciato un biglietto.

La notte dal 30 al 31 è lunga. Domani, pensa Fava, saranno qui. Ma il giorno dopo, il pomeriggio, nevica. Il tempo è cambiato improvvisamente; già nella mattinata Cesarino ha avvertito l’aria farsi afosa, pesante. Poi tutto precipita: le nuvole corrono veloci e le valanghe cominciano a cadere a valle.

Oggi saremmo dovuti arrivare. Fava passa una notte tragica, rotta solo dal rumore di una piccola goccia che cade ritmica sulla tenda nella grotta.

La mattina seguente, Cesarino deve scavarsi la via d’uscita. La neve caduta e trasportata dal vento ha occluso la breccia d’uscita. Sale faticosamente fino alla base della parete e ci rimane fino a sera.

Rimane fermo, sentinella avanzata, fermo con i suoi poveri piedi mutilati, con il suo coraggio, ad aspettarci, finché la notte e il freddo non lo costringono a tornare. Lascia agganciata all’ultimo chiodo della parete una corda che scende lungo il cono di deiezione, pensando che ci servirà quando scenderemo sfiniti. Se torneremo.

La stanchezza e un presentimento di morte non lo lasciano dormire; ogni momento crede di sentirci arrivare; ma è solo il frenetico lavorio della sua povera testa affaticata che gli fa sentire il rumore dei nostri passi, il suono delle nostre voci. Passa questa notte e oggi, 2 febbraio, è un giorno cupo, che gli fa pensare che non ritorneremo più.

Noncurante del maltempo, Cesarino sfonda l’uscita e cerca di salire ancora alla base della parete, ma l’impresa si presenta impossibile. Sotto metri di neve fresca, i crepacci non si scorgono più. Cesarino si affida al suo senso d’orientamento, ma percorsi qualche centinaio di metri è sfinito, la neve lo investe. Impossibile salire.

Ritorna sui suoi passi, la testa bassa, avvilito. Sul suo viso la neve si mescola alle lacrime. Rientra nella grotta e tutto gli ricorda i compagni, che certamente hanno pagato con la vita il loro ardimento.

Un’altra notte tragica, vissuta con gli occhi spalancati nel vuoto, finché si annuncia un nuovo giorno con vento e neve.

E’ il 3 febbraio. Non è più logico aspettare e sperare. Cesarino si prepara a scendere. Andrà a portare la triste notizia agli altri, giù al campo II.

Si guarda in giro prima di scendere; addio ragazzi, addio. Esce, il vento lo investe. Comincia a scendere volgendo l’occhio verso le nuvole che coprono il Torre. Strano, sopra un grande crepaccio c’è una macchia nera: sarà uno dei soliti scherzi della solitudine. Continua a scendere, ma si volta ancora. Per scrupolo risale, la macchia nera è immobile. Accelera il passo, anche se il fiato si fa grosso e il cuore picchia violento nel cranio.

La macchia nera è una giacca a vento, il resto è coperto dalla neve. Attraversa il crepaccio, rialza quel mucchio di carne e stracci e vede chi dei due è sopravvissuto.

Cesarino mi fa delle domande alle quali so rispondere soltanto: Toni, Toni è caduto, Toni è caduto.

Mi trascina di peso nella grotta, cerca di rianimarmi con pillole eccitanti e coramina. Esagera nella dose. E io ripiombo nello sfinimento e nell’incoscienza. Mi deve ancora trascinare di peso, poi dove il ghiaccio diventa piano, mi abbandona. Corre dai ragazzi, li avverte di ciò che è accaduto. Si precipitano da me e mi portano sotto il sasso.

Per un momento capisco dove sono e riconosco le loro facce tese. Poi un silenzio cupo, pesante; affondo di nuovo nel buio dell’incoscienza. Il mio panorama ora è la pietra che ci ripara. Il bianco e il nero del granito si sovrappongono.

Vorrei parlare, vorrei raccontare ai compagni i giorni terribili, ma ho la lingua gonfia, la gola stretta. Potessi almeno sollevarmi, non fissare più questa pietra, che mi pesa come il coperchio di un sarcofago. Potessi guardare il vento, le nuvole. Una fitta continua e dolorosa allo stomaco mi fa boccheggiare.

Vorrei parlare, vorrei urlare che Toni è morto. Questo urlo rimbomba e picchia contro le pareti del mio cranio, mi pare che mi debba uscire dagli occhi spalancati. La gola è sempre più arida, la lingua è sempre più gonfia.

Angelo, il dottore, si sforza di farmi mangiare qualche cosa che vomito immediatamente. Il saccopiuma dove mi hanno infilato è caldo, anche se intorno nevica e fa freddo.

C’è un gran silenzio sotto questo sasso; solo il rumore del vento si accompagna al nostro pianto muto. Il vento sospinge giù per il sasso un rigagnolo d’acqua che comincia a gocciolare lento sopra il mio sacco. La goccia nesce sul bordo del sacco, avanza tentennando, finché è sopra di me e cade.

Anche Toni è caduto. Anche Toni è caduto.

Verso sera, quando l’urlo del vento e il turbinio della neve sembrano calmarsi, comincio a parlare. La voce mi esce a fatica, come se venisse di lontano, forse nessuno riesce a sentirmi. Mi sforzo di parlare più forte.

I ragazzi mi si fanno intorno premurosi. Ho un gran dolore dentro il petto. Dovrò raccontare. Dovrò rivivere la mia pesante tragedia.

Respiro a fatica, quasi cercando l’aria, e il racconto esce a pezzi. Nella mia testa ritornano le ore di paura, di freddo, le lunghe ore solitarie quando m’era compagno solo l’urlo del vento.

Toni, vorrei che fossi tu qui a raccontare di me, sdraiato sotto questo sasso, vorrei che fossi tu a raccontare la mia fatica e il tuo dolore. Vorrei essere lassù al tuo posto, con la bocca e gli occhi pieni di neve.

Ho finito di raccontare. Il silenzio cade pesante, rotto solo dal vento, dal rumore del fornello primus, dal singhiozzo di uno dei ragazzi. A una notte pesante, percossa dal vento, segue un’alba triste.

4 febbraio (data aggiunta, NdR)
Il giorno nasce fra neve e vento. La temperatura si è abbassata, nevica continuamente e rabbiosamente: sembra un nostro paesaggio invernale quando nevica fitto.

Fava e i ragazzi si preparano: saliranno a cercare Toni. Lasciano con me il dottore ed escono silenziosamente. Risaliranno a fatica i ripidi pendii morenici, poi lotteranno con la neve fresca affondando fino alla cintola. Salire è faticoso e pericoloso, la neve nuova ha ricoperto tutti i crepacci. Fava guida sicuro i ragazzi.

Il loro solco profondo, pochi minuti dopo che sono passati, è livellato dal vento che trasporta turbini di neve. Gli occhiali non servono, la neve si attacca alle lenti. Arrivano al campo III. Soltanto la perizia di Fava permette loro di ritrovare l’ingresso sepolto da molti metri di neve. Sfondano l’ingombro, si preparano qualche cosa di caldo e riprendono la salita verso la base del Torre. Ora nevica più rabbiosamente di prima. La visuale è ridotta a qualche metro. Fava esita sulla via da scegliere.

Tutto è spianato, ricoperto di neve. La furia del vento ha cambiato volto al percorso. Ogni passo in avanti è un suicidio, sembra che il Torre si sia trasformato in un blocco di neve immerso nella nebbia, difeso dal vento. In un’ora riescono a superare pochi metri di dislivello. Intorno è un inferno. Tutto sparisce e diventa bianco. Proseguire sarebbe una vera pazzia. Decidono di ritornare.

Si fermano al campo III, si caricano delle cose di Toni rimaste al campo. Nel riporle nello zaino, il loro cuore si stringe come se sentissero sopra di loro il peso della neve che ricopre Toni e, dentro, lo stesso freddo. Senza voltarsi, con le mascelle strette per non piangere, abbandonano la grotta che fu la nostra casa. Volgono le spalle al Torre e riaffondano nella neve mentre scendono a sera verso il nostro sasso.

Quando ritornano è già tardi. Sono sfiniti, bagnati, oppressi dal pensiero di essersi dovuti fermare. Attorno a noi nevica e il vento continua a urlare, scendendo dalla valle del Torre.

Rimanere sotto il sasso diventa insopportabile, l’atmosfera è pesante; il dottore è preoccupato per le mie condizioni. Passa un’altra notte.

Una tenda della spedizione dopo una tempesta di neve. Foto: da Arrampicare è il mio mestiere.

5 febbraio (data aggiunta, NdR)
Al mattino, la neve continua a cadere e il vento continua a urlare. Tutto è bianco intorno; provo ad alzarmi in piedi, ma la testa mi gira, ronza, negli orecchi ho un fischio acuto, continuo. Sono costretto a rimettermi a sedere. Provo a mangiare qualche cosa, ma lo stomaco lo rifiuta. Prepariamo i nostri zaini. Il mio è semivuoto, non mi è rimasto nulla; soltanto pochi indumenti di ricambio.

Toni dopo la vittoria aveva intenzione di fare un falò d’addio con la benzina rimasta. Vuoto la canestra di benzina e le do fuoco. Le fiamme si alzano alte e improvvise, corrono come un fiume incendiato. Il sasso si annerisce per il fumo. Spento il fuoco, il grosso blocco scurito è come una grande tomba, nella quale abbiamo sotterrata la nostra vittoria.

Voltiamo le spalle anche al campo II e barcollando, affondando nei piccoli crepacci pieni d’acqua, ci portiamo lentamente verso il campo I trascinandoci dentro il pensiero di Toni rimasto lassù, solo, in mezzo a tanto freddo e a tanta neve.

Non sembra più quello di qualche giorno fa, il nostro campo I: nevica anche qui, e tutto è triste e spoglio. Accendiamo il fuoco aiutandoci con la benzina. La fiamma alzandosi scioglie la neve facendo friggere la legna. Il fuoco ci riconforta un po’. Montiamo la seconda tenda e, bevuto qualche cosa di caldo, ci ritiriamo al coperto.

Sembra strano che la vita continui come sempre, che come sempre sopraggiungeva i sonno, che la notte passi e segua il giorno, come sempre. Riaccendiamo il fuoco, smontiamo le tende e prepariamo i carichi. Domani i ragazzi saliranno con i cavalli per portare via quel poco che ci resta.

6 febbraio (data aggiunta, NdR)
Facciamo l’inventario della roba di Toni, ripiombiamo nel dolore.

Fra qualche minuto partiremo. I nostri zaini sono allineati sul tavolo. Si ripete la scena di un anno fa. Allora ero soltanto triste, oggi sono affranto. Allora un nodo mi serrava la gola, oggi le lacrime mi scorrono lungo il viso.

Oggi la vittoria è nostra, ma l’abbiamo pagata a troppo caro prezzo.

Ognuno di noi si carica del proprio zaino e lo sento pesante, tanto pesante che le gambe si piegano; ancora una volta fuggiamo da questi luoghi, che erano diventati nostri.

Mentre ci avviamo verso la vita. Voltandomi indietro, mi accorgo di lasciare dietro di me un luogo spoglio e nudo; più in alto, neve e vento, una cima vinta e un compagno perduto.

Mi giro di scatto e raggiungo di corsa, come fuggendo, i miei compagni con un violento desiderio di vomitare.

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