Padre De Agostini e la Patagonia
di Giuseppe Miotti
(pubblicato su Cuadernos patagonicos n. 2)
“De Agostini? Lo ricordo ancora molto bene. Era venuto nel nostro istituto per parlare ai bambini delle sue esplorazioni.
Era un uomo alto e magro, ma la cosa che ricordo più chiaramente era il suo sguardo, sempre in movimento. Sembrava che le quattro pareti che delimitavano l’aula lo facessero sentire come in una trappola per topi, e forse era proprio così. Abituato ai grandi spazi, al senso di libertà illimitata e selvaggia delle terre di Magellano, doveva essersi sentito davvero a disagio e forse con i suoi pensieri si sarebbe perso nelle vaste foreste, tra le montagne e i ghiacci della Patagonia”.
Direi che basta questa brevissima testimonianza di monsignor Gandini, parroco di Seregno e lui stesso alpinista, per fare una prima presentazione dell’ultimo grande esploratore della Patagonia e della Terra del Fuoco. Don Alberto María De Agostini: un missionario salesiano che, come nessun altro, ha saputo fondere l’opera della carità cristiana con quella, apparentemente opposta, dell’esploratore. In questa monografia, quindi, ci occuperemo di uno dei più grandi esploratori della Patagonia, delle sue opere, delle sue fotografie documentarie e del suo alpinismo, ma avremo anche modo di conoscere l’uomo De Agostini. E forse questa è proprio l’impresa più difficile, poiché della sua vita privata si sa poco.
Terre di Magellano: la prima esplorazione di De Agostini
Subito dopo la scoperta del continente americano, quando ci si rese conto che non si trattava delle Indie Orientali ma di una terra completamente nuova, iniziarono i viaggi di esplorazione con lo scopo di trovare un passaggio che permettesse di superare l’ostacolo e penetrare nell’Oceano Pacifico. L’onore di questa scoperta spetta al portoghese Ferdinando Magellano, che, dopo aver lasciato la penisola iberica nel settembre 1519, entrò nello stretto che avrebbe poi preso il suo nome il 1 novembre 1520. Magellano continuò il suo viaggio ed entrò nell’Oceano Pacifico, raggiunse le Indie Orientali e perse la vita nelle Filippine, in un incontro con le tribù indigene.
La “Victoria” fu l’unica delle cinque navi che fece ritorno al punto di partenza, il 7 novembre 1522. Fu la prima nave ad aver circumnavigato il globo, ma tornò con a bordo solo diciotto sopravvissuti.
Gli anni successivi videro aumentare l’importanza dello Stretto di Magellano, che fu presto utilizzato anche da Francis Drake, il corsaro inglese, per cogliere di sorpresa le colonie spagnole nel Pacifico. La Spagna rispose a questa incursione cercando di fondare due colonie per controllare il passo, ma purtroppo l’iniziativa ebbe vita breve e tutti i suoi abitanti morirono nel giro di pochi anni.
Nonostante questa sfortunata iniziativa, sia l’Inghilterra che la Spagna hanno cercato di ottenere altrettante informazioni topografiche e oceanografiche per migliorare la loro presenza a quelle latitudini. Tra il 1826 e il 1834 l’Ammiragliato britannico organizzò la prima grande ricognizione dei mari dell’America Latina e della Terra del Fuoco. La compagnia era capitanata da Philip Parker King e da Robert Fitz Roy sulle navi “Beagle” e “Adventure”. Nel 1831 si unì alla spedizione il famoso naturalista Charles Darwin, che con Fitz Roy risalì il fiume Santa Cruz fin quasi al Lago Argentino. L’imponente opera degli inglesi diede inizio all’era della colonizzazione e di una più profonda conoscenza di queste terre.
Fino ad allora erano stati pochissimi i viaggi in zone non costiere, rimaste, in pratica, sconosciute. Fanno eccezione le esplorazioni del missionario italiano Nicolò Mascardi e, successivamente, quella di Thomas Falkner, che per vent’anni fece vari viaggi nell’entroterra.
Ulteriori conoscenze della regione andina e della pampa sono venute dall’opera di altri studiosi, come Antonio Viedma e Alberto Malaspina, seguiti, alla fine del 1800, dagli argentini Luis Piedrabuena e Carlo Moyano, il cui contributo alla conoscenza della Patagonia è, senza dubbio, uno dei maggiori in senso assoluto.
Dopo Moyano e pochi altri, la storia delle esplorazioni delle terre di Magellano ci tocca da vicino perché, dal 1910, è anche quella di padre Alberto Maria De Agostini.
Alberto Maria De Agostini nasce a Pollone, un piccolo paese piemontese in provincia di Biella, il 2 novembre 1883.
Fu certamente la felice collocazione della regione natale, ai piedi delle Alpi, e la vicinanza di Biella, culla dell’alpinismo italiano, a influenzare, fin da giovane, l’umore e le preferenze di De Agostini.
Con lui crebbe la passione per la montagna, per i grandi spazi e le aree inesplorate, e già sulle Alpi seppe distinguersi come esperto alpinista che accompagnava, insieme all’azione, la ricerca, la scrittura e la documentazione fotografica.
Nel 1909, all’età di ventisei anni, consacrato sacerdote nell’ordine salesiano, lasciò subito l’Italia e si recò missionario in una delle regioni meno conosciute e più inospitali del globo: la Terra del Fuoco. Cos’è che lo ha portato lì? Certamente, la vocazione sacerdotale e le esigenze del suo ordine, ma anche, senza dubbio, quello spirito di esplorazione in cui è stata appena menzionata l’influenza del fratello Giovanni, fondatore dell’Istituto Geografico che porta il suo cognome.
Già don Giovanni Bosco, fondatore dell’Ordine Salesiano, parlava di quelle terre lontane con una conoscenza superiore al comune. Nei sogni aveva avuto una visione delle ricchezze e delle bellezze naturali ancora nascoste nelle regioni interne della Patagonia e della Terra del Fuoco. Nell’opera esplorativa del De Agostini si può certamente intravedere anche una volontà permanente che tendeva a dimostrare pienamente la realtà del sogno di Don Bosco, che, data l’entità del materiale raccolto, può ritenersi realizzato. Fu con questo sfondo che iniziò una delle opere missionarie più complete conosciute: l’ecclesiastico si unì all’antropologo, al fotografo, al geologo, all’etnologo e all’alpinista, e tutti questi aspetti, agendo come forze congiunte, permisero a De Agostini di raggiungere quella statura umana e spirituale che tutti gli riconoscono.
Il giovane sacerdote giunse a Punta Arenas nel 1910 e trovò i suoi fratelli dell’ordine impegnati nel tentativo di salvare dal declino e dalla distruzione gli ultimi nuclei degli indiani Fuegiani.
Per diversi anni questo lavoro è stato svolto con determinazione dal prefetto apostolico dei territori di Magellano, monsignor José Fagnano. Con grande abilità diplomatica, Fagnano riuscì ad ottenere l’appoggio delle più importanti famiglie di coloni, i Menéndeze e i Braun, ma la situazione era già compromessa e molto presto sarebbe precipitata. L’introduzione dell’allevamento del bestiame innescò la caccia agli indiani e diede definitivamente il colpo di grazia alla cultura indigena. I Salesiani si sforzarono di preservare gli indiani dall’invasione della cultura occidentale, raggruppandoli in missioni opportunamente costruite, ma l’impresa non fu facile, poiché dovevano anche mantenere una buona convivenza con i coloni e con i ricchi proprietari che abitavano a i grandi centri. In questo quadro De Agostini iniziò la sua opera, l’insegnamento nelle missioni e nelle opere salesiane. Solo nel tempo libero si dedicava alle esplorazioni che lo resero così famoso. Tuttavia, quel poco tempo fu sufficiente per consentirgli di documentare integralmente tutti i territori di Magellano.
Le esplorazioni
Punta Arenas fu il punto di partenza per le prime esplorazioni di Alberto De Agostini, che, non a caso, manifestò ben presto il suo interesse per la catena montuosa fuegiana nota come Cordillera Darwin. Nei primi due anni della sua permanenza, il sacerdote aveva avuto modo di effettuare, via terra e via mare, un primo sopralluogo dell’arcipelago fuegiano e, su tale base, farsi un’idea delle zone più interessanti e le difficoltà che avrebbe incontrato… Nel 1912 De Agostini si diresse quindi verso la Cordillera Darwin, che con le sue imponenti vette non poteva che attirare il suo spirito di alpinista. La Cordillera Darwin, ultima propaggine meridionale della catena andina, si trova nel settore occidentale dell’isola della Terra del Fuoco, e presenta vette di notevole altezza, che raggiungono i 2300-2400 metri. Il sistema orografico si estende per circa 100 chilometri ed è delimitato a sud dal Canale di Beagle e a nord da Admiralty Bay. A est e a ovest, rispettivamente, la valle di Jendegaia e il fiordo Contraalmirante Martínez stabiliscono i loro confini.
La vetta più alta della catena è il monte Sarmiento, che, con la sua bianca sagoma, si erge direttamente dal mare, dando un’impressione di enorme potenza.
De Agostini dice al riguardo: “È una cosa che non si può dimenticare. Quando, alcuni anni dopo questi miei viaggi, ebbi l’opportunità di vedere da vicino il monte Aconcagua, alto 7000 metri, quella visione non provocò in me nemmeno un pallido riflesso di quella forte emozione, un misto di meraviglia e orrore, che provai quando mi sono ritrovato davanti all’imponente piramide di Sarmiento”. Tra il 1913 e il 1914 il Salesiano fece due tentativi per raggiungere quella vetta, ma le avversità del tempo e le enormi difficoltà di avvicinamento e orientamento li vanificarono.
Di ritorno dal primo tentativo fallito al Monte Sarmiento, De Agostini si recò nella Baia dell’Ammiragliato e, con le guide Abel e Agustín Pession e il dottor De Gásperi, fece la prima traversata della Cordillera attraversando la Sierra Valdivieso fino a Ushuaia, la città argentina più meridionale.
Raggiunto il piccolo centro abitato, i suoi interessi si volsero subito al monte Olivia, che domina con le sue forme slanciate la baia del paese. I tre alpinisti – De Agostini e i Pession – sono partiti per la montagna senza De Gásperi. La salita non è stata priva di ostacoli e pericoli, dovuti principalmente alle rocce scistose facilmente sgretolate che ne componevano la vetta. Una cresta ripida e inaffidabile ha creato alcune difficoltà, ma alle 10.30 lo stendardo argentino volava in cima. A Ushuaia, la popolazione aveva sentito parlare dell’evento, che è stato senza mezzi termini certificato dal governatore della Terra del Fuoco, Francisco J. Cubas.
Ma il Monte Sarmiento era il sogno e l’ossessione di De Agostini, il quale, nonostante tutto, capì che la tecnica alpinistica di quegli anni non gli avrebbe permesso di superare un ostacolo del genere. Seppe però attendere, al punto da dedicare a questa impresa le sue ultime forze e vedere coronato il suo desiderio quarantadue anni dopo. Gli anni 1914 e 1915 furono ancora dedicati all’esplorazione della Cordillera Darwin, la cui parte interna era ancora praticamente sconosciuta. Nella Sierra Alvear, sul lago di Fagnano, il sacerdote scalò il monte Corbajal, e sulla Darwin tentò la scalata del monte Italia e raggiunse il monte Belvedere.
Última Esperanza e Monte Mayo
Tra il 1916 e il 1917 le esplorazioni di De Agostini ebbero come campo d’azione la Patagonia e, appunto, i gruppi Balmaceda e Paine. Il primo massiccio sorge ai piedi della baia di Última Esperanza, a una settantina di chilometri a nord-est di Puerto Natales. Intorno alle pendici del monte De Agostini effettuò alcuni rilievi per meglio definire l’orografia. Piuttosto più laboriosa e interessante è stata l’esplorazione del massiccio del Paine, situato poco più a nord di Balmaceda.
Dalle descrizioni che abbiamo è facile capire che questo gruppo di montagne impressionò molto il missionario, sia per la maestosità delle cime, sia per la bellezza dell’ambiente naturale. Nella regione di Última Esperanza, De Agostini ha visto – e non si sbagliava – un angolo di paradiso terrestre che per anni era stato nascosto agli occhi umani. Più volte fece escursioni nella zona, lasciandoci nei suoi libri una mirabile descrizione e accompagnandola con splendide fotografie.
A proposito del Paine si esprime così: “Il luogo è uno dei più selvaggi e grandiosi. Giungle, laghi, fiumi, cascate, costituiscono il piedistallo di questo fantastico castello turrito, con mura gigantesche, corazzate di ghiaccio, sormontate da aghi dall’aspetto terrificante che offrono tanta seduzione al coraggio degli alpinisti“.
Nel 1929 De Agostini effettuò l’esplorazione dell’ultima estremità del territorio ancora sconosciuto della catena, il bacino terminale del Paine, che, per la sua forma perfettamente circolare, fu confuso da Moyano, che lo intravide in lontananza, con il cratere di un vulcano estinto. Dello stesso anno è la traversata della Sierra de Los Baguales, massiccio basaltico che separa il Paine dal Lago Argentino. Il gruppo montuoso, isolato e selvaggio, riservava all’esploratore nuovi e inconsueti panorami poiché, in sole sette ore a cavallo, si arrivava dal ranch “Los Leones” al ranch “Anita”, sulle sponde del lago Argentino. Dopo questa campagna, il Salesiano ha proiettato il suo interesse più a nord, sullo stesso Lago Argentino e verso i ghiacciai che vi precipitano, alimentandosi nel cuore della Cordigliera. La regione era praticamente inesplorata e il paesaggio e la topografia interna erano sconosciuti. Tra il dicembre 1930 e il gennaio 1932 De Agostini colmò queste lacune geografiche visitando i fiordi Mayo e Spegazzini. Come sempre la sua prima preoccupazione è stata quella di cercare di raggiungere una vetta che potesse essere un punto panoramico per i rilievi. Con le guide Evaristo Croux e Leone Bron e con il dottor Egidio Feruglio, padre De Agostini si recò prima sul ghiacciaio interno e poi tentò la salita dell’imponente piramide del Monte Mayo. Favoriti da un raro periodo di bel tempo, i quattro riuscirono a scalarlo e raggiunsero la vetta di 2430 metri, da cui potevano dominare il fiordo e la terra che si estende lontano dal mare. Era il 14 gennaio 1931, e dall’alto De Agostini aveva una visuale completa del territorio circostante.
“Uno stupendo panorama, indescrivibile per la profonda vastità dell’orizzonte e la sublime grandezza delle centinaia di vette… sono i primi sguardi umani che contemplano queste gelide solitudini tra esplosioni di gioia e sbalordito ricordo… Lo sguardo è diretto avidamente attraverso quella immensa distesa di neve, ghiaccio e cime, che la trasparenza cristallina dell’atmosfera e la luce abbagliante del sole rendono ancora più chiara, e cerco di scrutarne i segreti”.
Bastano queste parole per chiarire le idee su che tipo di esploratore fosse De Agostini: uno scienziato rigoroso, ma anche e soprattutto un uomo assetato di conoscenza, spinto da un forte desiderio romantico verso la solitudine e l’ignoto, e inoltre un uomo di fede sempre pronta a stupirsi delle meraviglie della creazione.
La traversata del ghiaccio continentale e del Fitz Roy
Sempre del 1931 è la prima traversata dello Hielo Continental e della Cordigliera della Patagonia Meridionale, compiuta anche con i tre compagni che lo avevano seguito nella salita al Monte Mayo. L’impresa si è svolta tra il 24 gennaio e il 13 febbraio. Abbastanza faticosa è stata soprattutto la traversata dell’immenso ghiacciaio Upsala, uno dei più grandi della Cordigliera. Oltre l’imponente viale ghiacciato, alle pendici del Monte Cono, gli esploratori trovarono un’oasi di verde con anche qualche faggio nano, sperduto tra morene e ghiaccio.
“È una piccola oasi verdeggiante e fiorita tra l’aridità dei ghiacciai e le rocce, in una splendida posizione per stabilire il nostro accampamento”. Proseguendo il viaggio, il gruppo entrò in un ghiacciaio sconosciuto, che prese il nome di “Bertacchi”. Fu poi scoperto un immenso altopiano, che prese il nome di Meseta Italia. I quattro raggiunsero finalmente la vetta vergine del Monte Torino, da dove si affacciavano sul sottostante Fiordo Falcón e sulla costa del Pacifico. Anche se non compiuto in tutti i suoi obiettivi, si può dire che il viaggio è stato completato, e il ritorno è stato effettuato per via di andata.
Questa realizzazione è una delle pietre miliari nella storia delle esplorazioni della Patagonia, e solo molti anni dopo sarà ripetuta e completamente completata (1955-56; spedizione della Royal Geographic Society; Harold William Bill Tilman e il cileno Jorge Quinteros, dal fiordo Calvo al lago Argentino).
Con metodica progressione, sempre alla ricerca di nuovi orizzonti, dal 1932 al 1935 padre De Agostini visitò in altre occasioni il massiccio del Fitz Roy, sicuramente il gruppo montuoso più complesso e imponente dell’intera Cordillera. In successive campagne di esplorazione, entrò nelle valli che, dalle pendici dei monti principali, confluiscono nel Río de las Vueltas. Ospite al ranch “Masden”, trascorse il Natale ai piedi della Cordigliera, ascoltando i racconti del suo ospite, che ricordava i tempi in cui quei luoghi erano isolati e selvaggi. Ed è così che ha deciso di stabilirsi lì.
Ritroviamo, in questo breve periodo di riposo, un De Agostini uomo di Dio. Quando invece si fermava nelle stanze, il salesiano abbandonava sempre le abitudini dell’esploratore e riprendeva quelle del sacerdote, celebrando messe, consacrando matrimoni, amministrando i sacramenti o anche solo pronunciando parole di consiglio o confortando gli animi.
Ma il richiamo della natura selvaggia e della ricerca era sempre presente e il riposo non faceva che dare a quegli impulsi maggior vigore. Terminati i suoi doveri di sacerdote, De Agostini tornava ad essere un uomo d’avventura.
Già nel 1931 aveva potuto ammirare da vicino l’elegante piramide del Fitz Roy e ne aveva ricevuto una vivida impressione. “Ma l’attrazione più imponente è il monte Fitz Roy… È il signore di tutta questa vasta regione montuosa, è un altro Cervino, un po’ più modesto in elevazione ma non meno terribile per la verticalità delle sue pareti e la maestosità della sua vertice. Il Fitz Roy è senza dubbio una delle montagne più belle e imponenti della Cordigliera della Patagonia…”
In quella prima spedizione di prova, De Agostini perlustrò la valle del fiume Fitz Roy e penetrò fino all’ultimo cerchio, racchiuso tra le audacissime guglie del Cerro Torre, – “che si erge imponente ad occidente, mostrando la sua aggraziata, altissima vetta , coronato da un pennacchio di ghiaccio, e le sue formidabili pareti di granito…” – e l’imponente parete nord-ovest del Fitz Roy.
Durante il secondo viaggio nella regione, il padre salesiano entrò nell’ampia vallata del Río de las Vueltas, ancora allora sconosciuta nella sua parte alta. Ovviamente erano sconosciute anche le valli affluenti, anche se qualche occidentale le aveva viste. Nel 1909 un avventuriero tedesco era entrato in questi territori alla ricerca di favolosi tesori dalle miniere. Quell’uomo si stabilì definitivamente nella regione, in una valle il cui toponimo ricorda il suo soprannome: era infatti conosciuto come Milodón, per essere stato lo scopritore della famosa grotta di Milodon, nella regione di Última Esperanza. L’uomo condusse in quei luoghi una vita solitaria che durò dal 1913 al 1931, anno della sua morte. Il suo vero nome era Albert Conrad e il suo corpo fu ritrovato nella sua caserma con i suoi presunti tesori: dei cristalli di quarzo.
In quegli anni si parlava anche di un’altra leggenda vivente, un individuo che potremmo definire un misto di Robin Hood, Billy the Kid e Robinson Crusoe. Si trattava di un bandito uruguaiano, Asencio Brunel, ladro di cavalli e di armenti, terrore degli indiani Tehuelche e dei primi allevatori. Vestito con pelli di puma, Asencio ha dominato la regione come il signore incontrastato, compiendo imprese quasi leggendarie, finendo per essere ucciso da alcuni coloni in una sparatoria degna dei migliori film western. Torniamo, quindi, al protagonista della nostra monografia, che ha continuato senza sosta la sua ricognizione della montagna. Abbastanza proficua è stata la spedizione nella valle del Río Eléctrico alla ricerca di una visione completa e della conoscenza delle pendici settentrionali del Fitz Roy. Del gruppo faceva parte anche la guida alpina Carrel, valdostano. Il campo base fu installato a valle, nei pressi di un gigantesco masso erratico che da quel giorno, in memoria del sacerdote esploratore, è noto come Piedra del Fraile. Costruita una capanna di tronchi, a causa del maltempo il gruppo fu costretto a rimanere inattivo per circa un mese. Al termine dell’attesa forzata, il ritorno del bel tempo ha permesso di attraversare la parte alta della valle del Río Eléctrico, affacciarsi sullo Hielo Continental e da lì dirigersi verso il versante nord-ovest del Cap Bianco. Nel corso dell’escursione è stata individuata e descritta una nuova catena montuosa a nord del Cerro Torre, chiamata Cordón Guglielmo Marconi. È stato anche possibile stabilire la posizione geografica dei ghiacciai affluenti del lago San Martín. Il campo base fu installato a valle, nei pressi di un gigantesco masso erratico che da quel giorno, in memoria del sacerdote esploratore, è noto come Piedra del Fraile. Costruita una capanna di tronchi, a causa del maltempo il gruppo fu costretto a rimanere inattivo per circa un mese. Al termine dell’attesa forzata, il ritorno del bel tempo ha permesso di attraversare la parte alta della valle del Río Eléctrico, affacciarsi sul Ghiaccio Continentale e da lì dirigersi verso il versante nord-ovest del Cap Bianco. Nel corso dell’escursione è stata individuata e descritta una nuova catena montuosa a nord del Cerro Torre, chiamata Cordón Guglielmo Marconi. È stato anche possibile stabilire la posizione geografica dei ghiacciai affluenti del lago San Martín.
Lago San Martino e Monte San Lorenzo
La regione di San Martín sarebbe proprio la prossima meta dei viaggi di De Agostini, che trascorse nella zona buona parte del 1937. Utilizzando come punto di partenza i ranch “La Ramona” e “Los Ventisqueros”, il Salesiano gestiva in maniera primo tentativo, scalare il monte Milanesio, ottimo punto panoramico che si affaccia sulla catena interna e sui ghiacciai O’Higgins e Chico, che si tuffano nel braccio meridionale del Lago di San Martín. Siamo così giunti all’ultima tappa delle esplorazioni di Alberto De Agostini. Dirigendosi ancora più a nord, diresse i suoi sforzi verso il massiccio montuoso che, per la sua altezza, è il secondo dell’intera catena della Patagonia meridionale: il monte San Lorenzo. È una montagna di ghiaccio e roccia, dalle forme ardite e imponenti, vero e regale signore della Cordigliera. L’intera regione del San Lorenzo era praticamente inesplorata, se si escludono le rapide visite dei periti militari argentini e cileni allo scopo di definire i confini tra le due nazioni. Nel 1940, terminata una seconda e veloce escursione nella regione di San Martín, De Agostini si diresse verso i nuovi territori.
I lavori sono iniziati con l’esplorazione e i rilievi geografici e geologici delle pendici meridionali, orientali e settentrionali del San Lorenzo, dai cui ghiacciai hanno origine il Río Lácteo, il Río Platten e il Río Tranquilo. Per quanto riguarda la montagna, De Agostini si esprime nella sua opera Andes Patagónicos: “Il massiccio del San Lorenzo (3.700 m.) è, dopo il monte San Valentín (4.050 m.), il più alto della Cordigliera della Patagonia meridionale. Nonostante la relativa facilità di accesso – le cui basi sono facilmente raggiungibili risalendo le valli orientali – è rimasta fino ad oggi quasi del tutto ignorata nel mondo geografico e alpinistico, e quasi nulla si sapeva, fino al nostro arrivo, della sua struttura e struttura. dei suoi aspetti più interessanti e imponenti, e nessuno era penetrato al suo interno… Il San Lorenzo, per la sua particolare posizione, costituisce il punto culminante di quel sistema montuoso che, allontanandosi dall’asse della Cordigliera Andina, si avvicina alla parte orientale altipiani, rimanendo circoscritto a nord-nord-est dalle profonde depressioni del fiume Baker e del lago Cochrane-Pueyrredón, e a sud dal bacino del lago San Martín”.
Tra l’altro, questo vertice, nelle sue forme più eleganti, deve aver suggerito non poco al sacerdote missionario, tanto che, leggendo la sua relazione sull’esplorazione, il San Lorenzo è sempre presente, osservato, ammirato quasi come qualcosa di soprannaturale e misterioso.
Durante il primo viaggio è stata effettuata la traversata della Milky River Valley, “una delle più pittoresche che ho conosciuto nella Cordigliera, non solo perché mantiene ancora intatta la vegetazione arborea, sotto forma di macchie di faggi sparsi con grazia qua e là, quasi artisticamente, sulle pendici, ma soprattutto per la vista sul San Lorenzo, che domina tutto lo sfondo ad ovest, e di altri due monti abbastanza alti, il Penitentes (2.750 m.) a sud-ovest, e l’Hermoso (2.100 m. .) a nord, in una continuazione diretta della valle del Río Lácteo”.
Poco tempo dopo è stata la volta della valle del fiume Platten, che secondo De Agostini ha poche attrattive, ma, tuttavia, è piuttosto importante perché permette di osservare le pendici settentrionali del San Lorenzo. Dopo una serie di giorni di maltempo ventoso, alla fine sembrò realizzarsi la speranza di poter conoscere e fotografare il lato nord della montagna. Poterono bearsi di una vista incomparabile sul massiccio.
In quei giorni probabilmente nacque il progetto di scalare la montagna, e per individuare un pendio meno impervio, De Agostini si diresse ancora più a nord, verso la valle del Río Tranquilo, affluente del Río del Salto, che poi scorre nel pacifico. A nord-ovest del massiccio principale veniva individuata e descritta un’altra catena montuosa, quella dei Monti Cochrane, ma molto più interessante fu la scoperta che si poteva scalare il versante nord-ovest del San Lorenzo, sebbene ricoperto da immensi ghiacciai. Una seconda incursione nella valle del Río Tranquilo e nella parte alta del Río del Salto ha confermato che la salita era fattibile e ha permesso di ottenere ulteriori dati documentali.
Anche in questo caso De Agostini si avvalse della generosa ospitalità dei pochissimi coloni della regione, stabilendo la sua base presso l’estancia “Elorragia”. Nelle sue descrizioni non trascura i dettagli della vita e del lavoro degli allevatori, e talvolta cerca di offrirne un profilo psicologico. “Pochi sono i coloni che vivono ancora sparsi in queste solitarie valli andine, così lontane dai centri abitati, per le difficoltà di accesso dovute all’asperità delle strade appena tracciate tra dirupi e paludi, per i pericolosi guadi degli impetuosi fiumi che rendono difficile l’approvvigionamento alimentare e l’esportazione di prodotti lanieri dai quali ottengono i mezzi per sostenersi, sicché i guadagni sono alquanto scarsi e la vita è dura e piena di privazioni. Nonostante queste difficoltà e avversità, un profondo affetto lega i coloni a queste solitarie valli andine, come se fossero soggiogati da un fascino misterioso. Di tanto in tanto il ricordo nostalgico dei luoghi più confortevoli e popolati dove hanno trascorso i primi anni della loro vita, e il desiderio di rivedere parenti e amici li induce ad allontanarsi per qualche tempo, ma presto tornano con gioia in queste oasi di pace e di solitudine, annoiati e infastiditi dal trambusto e dai pettegolezzi della società”.
De Agostini ambientalista e la salita al San Lorenzo
Ai precisissimi resoconti di viaggio, alle descrizioni di valli e catene montuose che spesso conferiscono ai racconti di De Agostini un’atmosfera piuttosto monotona e fredda, si aggiungono talvolta considerazioni di carattere ambientale che testimoniano, al contrario, l’amore per la natura del grande esploratore. In essi troviamo una costante preoccupazione dell’autore per la progressiva invasione delle valli da parte dei coloni, invasione che ha portato a inevitabili perturbazioni degli equilibri ecologici.
Possiamo trovare descrizioni in questo senso quando, ad esempio, con grande tristezza descrive la grande e improvvisa distruzione della foresta di Última Esperanza. “Quando vi giunse don Orosimbo, immense aree boschive mai calpestate da alcun essere umano ricoprivano questa vasta regione premontana, ma in pochi anni, per cause fortuite o intenzionali, furono distrutte da colossali incendi, durati intere settimane e mesi , favorita dalla straordinaria forza e continuità dei venti. Questo è il destino che è toccato ora a tutte le foreste precordigliere della Patagonia sul suo versante orientale”. Altri frammenti legati all’ambiente descrivono, invece, alcune specie di animali in via di estinzione, come l’huemul o cervo della Cordigliera. “L’huemul (Hippocamelus bisulcus, Mol) è ancora numerosa nelle valli andine, ma, man mano che queste si popolano, scompare rapidamente. I suoi principali nemici sono il leone e l’uomo. Il primo lo caccia per soddisfare la fame; il secondo, per divertimento o per ragioni ancor meno giustificabili, approfittando della sua estrema timidezza e docilità”.
Con questa piccola digressione siamo arrivati all’ultima esplorazione di De Agostini: il viaggio nelle valli del Rio Baker e del Rio Chacabuco. Il Salesiano raggiunse così i limiti settentrionali della Cordigliera. Da questa esperienza ci lascia nei suoi libri più impressioni sulle persone e le loro condizioni di vita che note geografiche. Sottolinea la grave mancanza di strade, che ha portato i coloni a un grave isolamento e ha permesso ai banditi di impossessarsi della regione. Uno dei coloni, conosciuto da De Agostini, che ebbe l’opportunità di essere suo ospite, gli raccontò di un individuo che aveva rubato e ucciso il suo bestiame. Il colono è stato ucciso dallo stesso bandito poco dopo la partenza del missionario. Tra le note di quest’ultimo viaggio, molto caratteristica è anche la descrizione di Vilches, strano tipo di colono che viveva in una baraccopoli miserabile. “Non riuscivamo proprio a capire come questo singolare eremita, con così tanto legno della foresta e tempo a sua disposizione, non si fosse costruito una stanza più confortevole in un clima così tempestoso e freddo; ma, sembrava, il brav’uomo era pienamente soddisfatto e contento, non mostrando alcun desiderio di procurarsi altre cose oltre a ciò che possedeva“.
Nel cuore di De Agostini, già sessantenne, però, restava il desiderio di raggiungere la cima del monte San Lorenzo, la cui ascesa avrebbe potuto anche simboleggiare il degno coronamento di trent’anni di lavoro nella Cordigliera.
Il momento giusto arrivò nella primavera del 1943. A causa della situazione di guerra mondiale, gli fu impossibile chiamare in Argentina le Guide Alpine italiane, di cui si era sempre servito. Al Circolo Andino di Bariloche trovò però due compagni che sembravano più che adeguati al compito: la guida svizzera Alexander Hemmi e Heriberto Schmoll. Favoriti da una serie di nuove strade, i tre raggiunsero rapidamente le pendici della montagna, ma poi persero tempo prezioso in attesa di 500 chilogrammi di materiale per la spedizione. Una volta risolto il problema, grazie a un lasso di tempo quasi incredibilmente splendido – quindici giorni – il gruppo è riuscito a installare un campo avanzato a quota 2320 metri, sul ghiacciaio del San Lorenzo. Il 3 dicembre un primo assalto alla vetta è stato vanificato dal maltempo. I tre si sono fermati a quota 2925 metri e da lì sono scesi al campo base, nella valle del Río del Salto. Fino al 14 il tempo è rimasto brutto, impedendo qualsiasi attività, ma il giorno successivo è spuntata l’alba, piena di promesse, e il gruppo ha deciso di partire. Dopo aver raggiunto il campo base avanzato, un breve peggioramento ha costretto gli alpinisti a una sosta forzata, e solo il 17 sono riusciti a partire per la vetta grazie a un inaspettato miglioramento del tempo. L’intera salita si è svolta tra difficoltà tecniche, neve e ghiaccio, e con la preoccupazione che il tempo, già incerto, potesse tornare a peggiorare e impedire di raggiungere la meta.
“… I nostri occhi sono puntati con ansia verso le catene montuose che si ergono all’orizzonte come per assicurarci che i segni del bel tempo continueranno.” Una fitta nebbia ha accompagnato il tratto finale della spedizione, mantenendo gli alpinisti in un costante stato di tensione e aspettativa che si è attenuato solo in vetta. “Sono passate tre ore da quando abbiamo iniziato la salita di questa parete di ghiaccio (parete nord-ovest) ed Hemmi, che avanza con cautela mi chiede frequentemente: “A che punto siamo?”.
Arrivando a un’altezza prossima alla vetta, la nebbia si è dissipata per un istante, rivelando la vetta principale. “… Appare davanti a noi a sud, in tutta la sua imponenza e maestosità, l’alta vetta di San Lorenzo. Un brivido di gioia invade il nostro spirito, mentre in coro esclamiamo: la cima! la cima!“.
Intorno alle 16.30: “Hemmi affronta un canale di ghiaccio… Procediamo con molta cautela, uno alla volta, con l’intera corda tesa sul percorso non sicuro, perché una caduta vorrebbe dire un salto verticale di 2400 metri. In pochi minuti abbiamo raggiunto la vetta immacolata. Sono le 17.30… Prendo dal mio zaino una statuetta di Maria Ausiliatrice e, dopo averla assicurata ad un palo appositamente predisposto, la guido nella neve. La Beata Vergine, Da questo vertice dominante che costituisce il confine tra Argentina e Cile, veglierà sulla pace delle nazioni sorelle e sulla prosperità e trionfo dell’opera salesiana in Patagonia. Schmoll, intanto, ha legato ad un palo la bandiera argentina e il gagliardetto del Club Andino di Bariloche… Aggiungo una bandierina tricolore italiana… le due bandiere sventolano galanti sulla vetta augusta… e il nobile argentino Alfiere sembra sciogliere i suoi colori bianco e azzurro in una mirabile armonia con l’innocenza delle nevi e l’azzurro del cielo. Celebriamo la nostra vittoria bevendo un bicchiere di cognac…”.
La notizia dell’ascensione fu accolta con incredulità e diffusa ovunque nella pampa. Durante una tappa del viaggio di ritorno, De Agostini ha avuto modo di ascoltare il parere che un gaucho ha formulato sull’incredibile impresa, vantandosi con i presenti: “Non me la contano – ha detto – Ho visto bene la cima del San Lorenzo: è terribile. Se non l’hanno presa al lazo, non è possibile che l’abbiano scalata”.
Esplorazione aerea della regione di Última Esperanza
Tra le tante iniziative volte alla conoscenza della Cordigliera, è senza dubbio necessario ricordare anche il volo su una parte di essa, effettuato da De Agostini nel 1937.
Uomo aperto e attento a ogni novità, il missionario aveva già saputo fare un uso magnifico della tecnica fotografica per documentare le proprie conquiste, e sapeva sempre sfruttare ogni nuova possibilità offerta dal progresso. Fu quindi spontaneo in lui cercare di poter utilizzare mezzi aerei per avere una visuale ancora più nitida della catena montuosa. Il volo del 1937 fa sempre parte di quelli intrapresi dai pionieri dell’aviazione, perché, nonostante i progressi del settore, le particolari condizioni climatiche della Patagonia rendevano in ogni modo arduo il volo normale.
A tal proposito De Agostini afferma: “La navigazione aerea in questo settore meridionale delle Ande è una delle più difficili al mondo… le raffiche di vento… sono terribilmente potenti e vertiginose, e durante il tragitto producono sacche d’aria e forti vortici che può abbassare improvvisamente il velivolo di centinaia di metri”.
Il primo volo sulle terre di Magellano era stato effettuato dal francese Omar Page non molti anni prima. Il 23 agosto 1914 si lanciò nel cielo di Punta Arenas davanti agli occhi stupiti dei potenti e degli umili. Pochi giorni dopo lo stesso Page sorvolò Capo Horn. Nel 1916 i cileni David Fuentes e Luis Castro, con un Bleriot da 80 CV, effettuarono la prima traversata dello Stretto di Magellano, in 23 minuti. Subito dopo il conflitto mondiale nasce l’Aero Club di Punta Arenas, e il 21 maggio 1921 la SVA da 220 cavalli del club, comandata da Mario Pozzatti, effettua il primo volo postale dal Sud America, trasportando una valigia con lettere da Punta Arenas a Rio Gallegos. Il secondo volo fu effettuato da Punta Arenas a Ushuaia nel 1928 dal tedesco Gunther Plüschow, con l’idrovolante “Cóndor de Plata”.
Plüschow riuscì anche a sorvolare il terribile monte Sarmiento e, sulla via del ritorno, a superare il Fiordo De Agostini. Di questo brano ha lasciato un’impronta scritta: “Oh, monsignor De Agostini! Tu che hai lavorato tanto per scoprire le bellezze della Terra del Fuoco. Ora provo l’immensa emozione che hai provato scoprendo questo magnifico fiordo, che porta appunto il tuo nome!” Dopo questa storia necessariamente breve dei pionieri dell’aeronautica nelle terre di Magellano, torniamo a De Agostini e al suo volo sulla Balmaceda e sul Paine, che gli ha permesso di raccogliere un’enorme documentazione fotografica, che ha continuato ad essere, per molti anni, indispensabile e unico per la conoscenza di quelle regioni.
Un collega in compagnia e pilota del monoplano “Saturno” fu uno degli animatori dell’Aero Club di Punta Arenas, Franco Bianco, figlio di piemontese, divenuto famoso per aver completato la Punta Arenas – Santiago – Mendoza – Buenos Aires – raid Punta Arenas: 6700 chilometri viaggiando da solo.
Per iniziare il volo De Agostini si è recato a Puerto Natales, dove ha aspettato un paio di giorni affinché il tempo migliorasse. Il terzo giorno, il 13 aprile, si schiarì. “Alle 10 mando un fonogramma a Bianco: ‘Tempo ottimo – Cordillera scoperta. Risposta immediata: ‘Vado alla pista e parto‘”. Quel pomeriggio iniziò il volo.
“Due carabinieri cileni fanno la guardia al dispositivo… Quando entro in cabina, uno di loro mi chiede perché non indosso il paracadute. Penso tra me e me che l’unico paracadute che porto sempre con me è una reliquia di san Giovanni Bosco, che invoco nelle difficoltà e nei pericoli». L’aereo decolla.
“È la prima volta che sorvolo l’immensa catena montuosa della Patagonia, che per tanti anni è stata la meta preferita dei miei studi e delle mie ricerche. In pochi minuti l’aereo, in rapida salita, è a grande altezza”. L’apparecchio lucente ha raggiunto i 2000 metri e penetra nella stretta valle tra Balmaceda e Cerro Prat. “... Quando improvvisamente sento che l’apparecchio scende e cade verticalmente nel vuoto, come se avesse perso le ali, ad una velocità impressionante, cinquanta, cento metri? Franco mi assicurò in seguito che doveva essere di duecento metri.
Non mi sono ancora ripreso dalla sorpresa di quel salto acrobatico, quando ora una forza invisibile ci lancia veloce verso l’alto in una salita tremenda. Il ‘Saturno’ trema e oscilla, affonda e si alza come se fosse in balia di un gigantesco maremoto… Franco comanda l’apparato con maestria e certezza, e alle mie domande impaurite risponde che, appena usciamo di quella gola, entreremo in una zona più tranquilla“. C’è appena il tempo di prendere la macchina fotografica e l’aereo è già sopra il Paine, “che assorbe il nostro sguardo con la bellezza e la maestosità di innumerevoli piramidi, torri e pinnacoli, che la fanno sembrare una gigantesca cattedrale gotica… Con una salita a tutto motore, Franco porta l’aereo a 3200 metri”.
Da lassù l’orizzonte si apre su angoli noti e sconosciuti, risvegliando l’entusiasmo del missionario.
“Ovunque ghiaccio e neve eterna, catene montuose di cui le mappe non danno notizie, lasciando solo uno spazio bianco con la scritta ‘inesplorato’… Ora i nostri occhi sono irresistibilmente attratti da quell’immensa striscia di ghiaccio che la Cordillera proietta con forza verso il cielo”.
Il volo prosegue sul Lago Argentino. I due passano dalle cime del Monte Mayo e si dirigono poco più a nord, fino ad entrare nello Hielo Continental. “Più a nord si estende l’immenso viale di ghiaccio del Ghiacciaio Upsala, delimitato su entrambi i lati da montagne imbiancate dalla neve, tra le quali spicca, svettante e dominante, l’imponente torre del Fitz Roy.
Siamo entrati nel misterioso regno delle bianche solitudini, dove il vento e le tempeste regnano sovrani, ma oggi tutto è leggero e profondo silenzio, ferito solo dal rombo del motore.
Rimango assorto nell’affascinante spettacolo e assaporerò in attesa la gioia di svelare gli ultimi segreti di questi ghiacci eterni”.
Dopo quattro ore di volo, il “Saturno” torna alla base con De Agostini consapevole di aver dato l’ultima pennellata al già completo quadro delle sue esplorazioni.
De Agostini scrittore e fotografo
È ormai certo che il sogno di san Giovanni Bosco, in cui il santo vedeva le ricchezze e le possibilità inutilizzate delle terre di Magellano, influì non poco sull’attività di De Agostini. La sua missione in Patagonia non consisteva solo nell’essere pastore di anime: a questo doveva aggiungere l’attività di esplorazione, attività volta anche a confermare con dati tangibili il sogno di Don Bosco.
Ovviamente per fare questo bisognava essere un appassionato di avventura, un alpinista, un fotografo, uno scrittore. Indubbiamente, queste caratteristiche si ritrovano insieme in padre De Agostini. I suoi contemporanei furono numerosi alpinisti-fotografi di quella che potrebbe essere considerata la “scuola di Biella”, i cui massimi rappresentanti furono Vittorio Sella e i fratelli Piacenza. E ancor prima di partire per il Sud America, aveva mostrato insolite doti di fotografo, partecipando ad alcuni concorsi a tema paesaggistico in Italia, ottenendo anche un primo premio. Sebbene molto incline alla fotografia artistica, che caratterizzò anche parte delle sue prime realizzazioni americane (con cui partecipò a concorsi fotografici a Rio de Janeiro, Santiago, Valparaíso e Concepción), il salesiano dovette rinunciare a questa inclinazione per dedicarsi alla mera fotografia documentaristica. Non fu certo una scelta difficile, e comunque necessaria poiché la documentazione di terre e montagne sconosciute occupava, per la sua importanza, la prima posizione. Il tempo fisico e meteorologico non permettevano, tra l’altro, di sbizzarrirsi in elaborazioni stravaganti e laboriose: l’importante era raccogliere più dati possibili, soprattutto dal punto di vista fotografico.
De Agostini svolge pienamente questo compito, considerando che i suoi libri e le fotografie che li illustrano sono ancora oggi un prezioso scrigno di informazioni sulle terre di Magellano. Oltre al voluminoso lavoro fotografico, vanno ricordati anche due film, Tierras Magallánicas e Tierra del Fuego, trasmessi sia in America Latina che in Europa.
Se fotografie e documentari sono stati forse lo strumento più importante utilizzato dall’esploratore nato a Pollone, non bisogna però dimenticare l’immensa opera letteraria che ad essi si aggiunge.
Sono ventidue i libri e le guide, anche turistiche (Guida turistica agli stretti di Magellano e Fuegian e Guida turistica ai laghi argentini e alla Terra del Fuoco ), scritti tra il 1924 e il 1960, in italiano o in spagnolo. Sicuramente i più noti sono Ande Patagoniche – viaggi di esplorazione nella Cordigliera Patagonica australe , del 1949, Trent’anni in Terra del Fuoco, pubblicato nel 1955, e Sfingi (“Sfingi di ghiaccio”), del 1958. Oltre ai libri, c’è un numero incredibile di articoli e saggi apparsi su giornali e riviste in Italia, Argentina e Cile. In tutti questi scritti la parte della geografia e delle scienze naturali occupa un posto preponderante, al punto da farli sembrare a volte monotoni e noiosi. Tuttavia, una lettura più attenta è spesso possibile per cogliere la dimensione umana dell’autore, la sua sete di spazi sconosciuti, la sua ricerca di un mondo ancora incontaminato e primordiale, dove la divinità era ancora chiaramente percepibile e mostrava i suoi volti senza veli.
L’opera scritta, come quella fotografica, costituisce una testimonianza importante tutta volta a migliorare e diffondere la conoscenza delle regioni di Magellano, ma in entrambe c’è qualcosa in più, che le rende senza dubbio più ricche e complete. Questo qualcosa è la volontà costante di confermare quel sogno di Don Bosco che vide: “… nelle viscere dei monti, nel fondo della pianura. Aveva in vista le incomparabili ricchezze di queste regioni, che un giorno si sarebbero scoperte…”.
Il problema degli Indios
In molti dei testi di De Agostini troviamo uno spazio speciale dedicato agli studi etnografici e alle considerazioni sulle condizioni delle tribù indigene che andavano via via scomparendo sotto le vessazioni della civiltà bianca.
Evidentemente il salesiano ha preso molto sul serio il problema; inoltre, lui, come molti dei suoi fratelli nell’ordine, si trovò quasi impotente di fronte al progressivo declino di queste popolazioni.
Durante il suo pellegrinaggio ebbe modo di conoscere i rappresentanti di tutte le etnie: gli Ona, gli Yamana e gli Alacalufe della Terra del Fuoco; i Tehueíches e gli Araucani della Patagonia. Anche in questo caso De Agostini si mostra molto capace di descrivere e ci lascia precisi appunti sulle caratteristiche antropomorfe delle varie tribù, sulle loro tradizioni e costumi, sulle loro credenze religiose e legami sociali. L’opera del missionario è di enorme importanza in questo senso, poiché ci permette di scoprire una realtà oggi scomparsa.
La situazione precaria degli indigeni e le continue persecuzioni a cui erano sottoposti erano una grande fonte di angoscia per il sacerdote, che si trovava, per così dire, tra due stati d’animo diversi. Da un lato, come uomo di carità, doveva prendersi cura delle popolazioni indigene: era suo dovere proteggerle e cercare di integrarle nel modo meno traumatico possibile nella nuova situazione sociale che si andava imponendo. D’altra parte, però, De Agostini era perfettamente consapevole di essere lui stesso, insieme alla civiltà bianca, un perturbatore degli equilibri secolari derivati da un miracoloso accordo tra uomo e natura. Non poteva però dimenticare i suoi fedeli, i coloni, i minatori e tutti coloro che erano venuti in quelle terre in cerca di fortuna.
Nonostante ciò, De Agostini molto spesso denunciò apertamente i delitti che gli allevatori commettevano contro gli indiani e arrivò addirittura ad accusare Manuel Senoret, governatore di Punta Arenas, in un suo libro, di aver deportato intere tribù, spingendole verso Punta Arenas con il pretesto di “toglierli dalla miseria e assicurare loro il cibo e il vestiario che loro mancavano. La responsabilità di queste guerre di sterminio contro gli Ona ricade in gran parte sul governatore Senoret… Per proteggere gli interessi di alcuni… e anche per opporsi ai missionari salesiani che avrebbe voluto espellere dall’isola di Dawson, della quale brama il boschi e pascoli, favorirono le persecuzioni più indegne. Esposti quasi nudi per le vie della città, gli Indios furono messi a disposizione (tramite vere e proprie aste di Indios) di coloro che li volevano come schiavi“.
Questo non è che l’episodio più significativo della lotta di De Agostini per gli indiani, una lotta d’anticipo davvero difficile e persa. Nei suoi scritti si legge ancora: “I pastori, in gran parte anglosassoni, furono quelli che vedevano negli indigeni il maggior impedimento alla diffusione dei loro armenti, e da qui la caccia spietata a cui erano sottoposti come se fossero animali feroci. L’inglese Sam Jslop si vantava persino di utilizzare cinghie fatte con la pelle degli indigeni, che ottenne dalle schiene di questi sfortunati. Un altro terribile persecutore degli Onas fu lo scozzese Mac Lennan, amministratore del ranch ‘Primera Argentina’… Per vantarsi dei suoi nefandi stermini, equiparava il numero delle sue vittime al numero di whisky che aveva bevuto, i quali non dovevano essere pochi visto che era in perenne stato di ebbrezza. Dato che gli indigeni, affamati, si cibavano senza ripugnanaza degli animali morti che trovavano in giro, i pastori spargevano grandi pezzi di carne avvelenata con stricnina per liberarsi iniquamente di quei poveretti“.
Concludiamo questo capitolo anche con alcune considerazioni di De Agostini sul problema indigeno. “Anche qui, come nel Far West, come nella Pampa e nel Chaco, il destino degli indigeni fu segnato inesorabilmente; anche qui, l’identica storia di tutte le colonizzazioni… In questo triste e rapido declino della razza fuegiana, i missionari salesiani ebbero il nobile ma ingrato compito di difendere gli indigeni contro i bianchi, i deboli contro l’audace e intelligente pioniere, avido di profitto, cui sorrise una fortuna facile e immensa nella conquista di quelle terre, fino ad allora dominio assoluto degli Ona… Le foreste vergini non ascolteranno più, nel profondo silenzio di una notte lunare, l’antica leggenda dell’eroe Kuanip, figlio della montagna rossa, e della sua sfortunata moglie, la graziosa Oklta, trasformata in pipistrello. Il koliot (straniero), venuto da regioni lontane, assetato di ricchezze e possessore di armi micidiali, ha rapidamente compiuto la sua nefasta opera, distruggendo per sempre la felicità secolare di questa razza primitiva, che per secoli aveva vissuto sola e innocua nella regione più singolare della Terra“.
Nonostante l’età avanzata, De Agostini continuò a lavorare attivamente, riordinando gli studi e pensando sempre alle terre della Patagonia.
Aveva la voglia insoddisfatta di conquistare la vetta del Sarmiento, ma anche questa doveva essere realizzata dalla sua tenace volontà: fu De Agostini, già anziano, a guidare la spedizione italiana che nel 1956-57 conquistò la vetta con Clemente Maffei e Carlo Mauri, un gruppo che poi ha scalato il Monte Italia.
Ritornato in Italia, dove trascorreva spesso i mesi meno buoni in Patagonia, Padre De Agostini morì il 25 dicembre 1960 presso la Casa Madre Salesiana di Torino.
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Dall’edizione originale, in spagnolo
El Padre De Agostini y la Patagonia
de Giuseppe Miotti
“¿De Agostini? Lo recuerdo muy bien todavía. Había venido a nuestro instituto para hablarles a los niños acerca de sus exploraciones.
Era un hombre alto, delgado, pero la cosa que recuerdo con mayor nitidez era su mirada, siempre en movimiento. Parecía que las cuatro paredes que delimitaban el aula lo hiciesen sentir en una ratonera, y tal vez era exactamente así. Habituado a los grandes espacios, al sentido de ilimitada y salvaje libertad de las tierras magallánicas, él debía sentirse efectivamente incómodo y quizá con el pensamiento se perdía en los extensos bosques, entre los montes y los hielos de la Patagonia“.
Diría yo que es suficiente este brevísimo testimonio de monseñor Gandini, párroco de Seregno y alpinista también él, para hacer una primera presentación del último gran explorador de la Patagonia y de la Tierra del Fuego. Padre Alberto María De Agostini: un misionero salesiano que como ninguno ha sabido fusionar la obra de caridad cristiana con aquella, aparentemente opuesta, del explorador. En esta monografía nos ocuparemos, pues, de uno de los mayores exploradores patagónicos, de sus obras, de sus fotografías documentales y de su montañismo, pero también tendremos la manera de conocer al hombre De Agostini. Y tal vez sea por cierto ésta la empresa más ardua, por cuanto se conoce bien poco de su vida privada.
Tierras Magallánicas: la primera exploración de De Agostini
Inmediatamente después del descubrimiento del continente americano, cuando se comprendió que no se trataba de las Indias Orientales sino de una tierra completamente nueva, se iniciaron los viajes de exploración con el propósito de hallar un paso que permitiese superar el obstáculo y penetrar en el Océano Pacífico. El honor de este descubrimento corresponde al portugués Fernando de Magallanes, quien, habiendo partido de la península ibérica en setiembre de 1519, se internó en el estrecho que después tomaría su nombre el 1° de noviembre de 1520. Magallanes prosiguió el viaje y entró en el Océano Pacífico, alcanzó las Indias Orientales y perdió la vida en las Filipinas, en un encuentro con las tribus indígenas.
La “Victoria” fue la única de las cinco naves que retornó a su punto de partida, el 7 de noviembre de 1522. Era la primera embarcación que había circunnavegado el globo, pero retornaba con tan solo dieciocho sobrevivientes a bordo.
Los años sucesivos vieron aumentar cade vez más la importancia del Estrecho de Magallanes, que fue pronto aprovechado también por Francis Drake, el corsario inglés, para tomar por sorpresa a las colonias españolas del Pacífico. A esta incursión España respondió intentando fundar dos colonias que controlaran el paso, pero por desgracia la iniciativa tuvo corta vida y todos sus habitantes perecieron en el lapso de pocos años.
No obstante esta infortunada iniciativa, tanto Inglaterra como España procuraron obtener el mayor número de informaciones topográficas y oceanógraficas con él fin de mejorar su presencia en aquellas latitudes. Entre 1826 y 1834 el Almirantazgo Británico organizó el primer gran relevamiento de los mares de la América Latina y de la Tierra del Fuego. La empresa fue capitaneada por Philip Parker King y por Fitz Roy sobre las naves “Beagle” y “Adventure”. En 1831 se unió a la expedición el célebre naturalista Charles Darwin, quien con Fitz Roy remontó el Río Santa Cruz casi hasta el Lago Argentino. El imponente trabajo de los ingleses iniciaba la era de la colonización y de un más profundo conocimiento de esas tierras.
Bien pocos habían sido hasta entonces los viajes a las zonas no costeras, que permanecían, en la práctica, desconocidas. Constituyen excepción las exploraciones del misionero italiano Nicolás Mascardi y, más tarde, la de Tomás Falkner, quien durante veinte años realizó diversos viajes por el interior.
Ulteriores conocimientos de la región cordillerana y de la pampa provinieron del trabajo de otros estudiosos, como Antonio Viedma y Alberto Malaspina, seguidos, a fines del ochocientos, por los argentinos Piedrabuena y Moyano, cuyo aporte al conocimiento de la Patagonia es, sin duda, uno de los mayores en sentido absoluto.
Después de Moyano y otros pocos, la historia de las exploraciones de las tierras magallánicas nos toca de cerca porque, a partir de 1910, es también la del padre Alberto María De Agostini.
Alberto María De Agostini nació en Pollone, pequeño pueblo de Piamonte, en las cercanías de Biella, el 2 de noviembre de 1883.
Fue ciertamente la feliz ubicación de la región natal, al pie de los Alpes, y la vecindad de Biella, cuna del alpinismo italiano, las que influyeron, desde la juventud, en el ánimo y las preferencias de De Agostini.
La pasión por la montaña, por los grandes espacios y las zonas inexploradas creció con él, y ya sobre los Alpes supo destacarse como experto alpinista que acompañaba, junto a la acción, la investigación, los escritos y la documentación fotográfica.
En 1909, a los veintiséis años, consagrado sacerdote en la orden salesiana, abandonó inmediatamente Italia y partió como misionero hacia una de las regiones menos conocidas y más inhóspitas del globo: la Tierra del Fuego. ¿Qué era lo que lo impulsaba hacia allá? Ciertamente, la vocación sacerdotal y las exigencias de su orden, pero también, sin duda, ese espíritu de exploración en el cual apenas se ha mencionado la influencia de su hermano Juan, fundador del Instituto Geográfico que lleva su apellido.
Ya Don Bosco, fundador de la orden de los salesianos, hablaba de aquellas lejanas tierras con conocimientos superiores a los comunes. En sueños había tenido la visión de las riquezas y bellezas naturales aún ocultas en las regiones interiores de la Patagonia y de la Tierra del Fuego. En la obra de exploración de De Agostini podemos entrever por cierto también una voluntad permanente que tendía al propósito de demostrar en forma cabal que el sueño de Don Bosco era verídico, lo que, ante la magnitud del material reunido, puede considerarse logrado. Fue con estos antecedentes que inició una de las más completas obras misioneras que se conozcan: el eclesiástico se conjugó con el antropólogo, con el fotógrafo, con el geólogo, con el etnólogo y con el montañista, y todos estos aspectos, actuando como fuerzas conjuntas, permitieron a De Agostini alcanzar aquella estatura humana y espiritual que todos le reconocen.
El joven sacerdote llegó a Punta Arenas en 1910 y halló a sus hermanos de orden empeñados en la tentativa de sustraer de la declinación y de la destrucción a los últimos núcleos de los indios fueguinos.
Desde varios años atrás esa obra era llevada adelante con tesón por el prefecto apostólico de los territorios magallánicos, monseñor José Fagnano. Con gran habilidad diplomática, Fagnano logró obtener el apoyo de las más importantes familias de colonos, los Menéndez y los Braun, pero la situación era ya comprometida y se precipitaría muy pronto. La introducción de la cría de ganado desencadenó la caza del indio y dio definitivamente el golpe de gracia a la cultura indígena. Los salesianos se empeñaron esforzadamente en preservar de la invasión de la cultura occidental a los indios, agrupándolos en misiones adecuadamente construidas, pero la empresa no era fácil, dado que se debía también mantener una buena convivencia con los colonos y con los ricos proprietarios que habitaban en los grandes centros. En este cuadro De Agostini inició su obra, enseñando en las misiones y en los centros salesianos. Tan solo en el tiempo libre se dedicaba a las exploraciones que lo hicieron tan famoso. No obstante, ese escaso tiempo fue suficiente para permitirle documentar de manera completa todos los territorios magallánicos.
Las exploraciones
Punta Arenas fue la base de partida para las primeras exploraciones de Alberto De Agostini, quien no por casualidad mostró muy pronto su interés por la cordillera fueguina conocida como Cordillera Darwin. En los primeros dos años de su permanencia el sacerdote había tenido ocasión de realizar, por tierra y por mar, una pesquisa preliminar del archipiélago fueguino y, sobre esa base, de hacerse una idea de las zonas más interesantes y de las dificultades que habría encontrado. En 1912 De Agostini se dirigió, pues, a la Cordillera Darwin, que con sus imponentes cumbres no podía menos de atraer su espíritu de montañista. La Cordillera Darwin, última estribación meridional de la cadena andina, se halla en el sector occidental de la isla de Tierra del Fuego, y presenta cimas de notable altura, que alcanzan a los 2300-2400 metros. El sistema orográfico se extiende cerca de 100 kilómetros y está delimitado al sud por el canal de Beagle y al norte por la bahía del Almirantazgo. Al este y al oeste establecen sus confines, respectivamente, el valle de Jendegaia y el fiordo Contraalmirante Martínez.
La cima más alta de la cadena es el Monte Sarmiento, que, con su blanca silueta, se eleva directamente del mar, dando una impresión de enorme poderío.
Dice al respecto De Agostini: “Es algo que no se puede olvidar. Cuando, algunos años después de estos viajes míos, tuve ocasión de ver de cerca el monte Aconcagua, de 7000 metros de altura, esa visión no causó en mí ni siquiera un pálido reflejo de esa fuerte emoción, mezcla de maravilla y espanto, que sentí cuando me hallé frente a la imponente pirámide del Sarmiento“. Entre 1913 y 1914 el salesiano realizó dos tentativas por alcanzar esa cima, pero la adversidad del tiempo y las enormes dificultades de acercamiento y orientación las frustraron.
De regreso de la primera fallida tentativa al Monte Sarmiento, De Agostini se dirigió a la bahía del Almirantazgo y, con los guías Abel y Agustín Pession y el doctor De Gásperi, realizó la primera travesía de la Cordillera cruzando la Sierra Valdivieso hasta Ushuaia, la más austral ciudad argentina.
Una vez alcanzado el pequeño centro habitado, sus intereses se orientaron inmediatamente hacia el Monte Olivia, que domina la bahía de la población con sus formas esbeltas. Los tres andinistas – De Agostini y los Pession – partieron hacia la montaña sin De Gásperi. La escalada no estuvo exenta de obstáculos y peligros debidos principalmente a las rocas esquistosas fácilmente desmenuzarles que constituían la cumbre. Una escarpada y poco segura cresta creó algunas dificultades, pero a las 10,30 el estandarte argentino flameaba en la cima. En Ushuaia la población había tenido noticia del acontecimiento, que fue certificado sin rodeos por el gobernador de Tierra del Fuego, Francisco J. Cubas. Otros veinticinco notables de la población afirmaron por escrito haber “… observado con ayuda del telescopio flamear sobre un pilón de piedra en la cumbre más elevada del Monte Olivia la bandera nacional, que había sido colocada el día anterior como a las diez y media a. m. por una expedición alpinistica que dirigió el R.P. Salesiano D. Alberto De Agostini, en compañia de los dos guías Abel y Agustín Pession, lo que certificamos para que sirva de constancia…“.
Pero era el Monte Sarmiento el sueño y la obsesión de De Agostini, quien, con todo, se daba cuenta de que la técnica del montañismo de aquellos años no habría permitido vencer tamaño obstáculo. Con todo, supo esperar, hasta el punto de dedicar a este empeño sus útimas fuerzas y ver coronado su deseo cuarenta y dos años más tarde. Los años 1914 y 1915 estuvieron todavía dedicados a la exploración de la Cordillera Darwin, cuya parte interna era aún prácticamente desconocida. En la Sierra Alvear, sobre el Lago Fagnano, el sacerdote escaló el Monte Corbajal, y en la Darwin intentó la ascensión del Monte Italia y logró la del Monte Belvedere.
Última esperanza y Monte Mayo
Entre 1916 y 1917 las exploraciones de De Agostini tuvieron como campo de acción la Patagonia y, precisamente, los grupos del Balmaceda y del Paine. El primer macizo surge al fondo de la bahía Última Esperanza, unos setenta kilómetros al nordeste de Puerto Natales. Alrededor de las laderas de la montaña De Agostini realizó algunos relevamientos para mejor definir la orografía. Bastante más laboriosa e interesante fue la exploración del macizo del Paine, situado un poco más al norte del Balmaceda.
De las descripciones conservadas es fácil comprender que ese grupo montañoso suscitó en el misionero una muy fuerte impresión, ya sea por la majestuosidad de las cimas como por la belleza del ambiente natural. En la región Última Esperanza, De Agostini veía – y no se equivocaba – un rincón del paraíso terrestre que había quedado oculto, durante años, a los ojos humanos. Varias veces efectuó excursiones por la zona, dejándonos una admirable descripción en sus libros y acompañándola de espléndidas fotografías.
A propósito del Paine se expresa así: “El lugar es de los más salvajes y grandiosos. Selvas, lagos, ríos, cascadas, constituyen el pedestal de este fantástico castillo torreado, con murallones gigantescos, acorazado de hielos, sobrepasado por agujas de terrible aspecto que tanta seducción ofrecen al denuedo de los montañistas“. En 1929 De Agostini efectuó la exploración del último extremo de territorio aún desconocido de la cadena, la cuenca terminal del Paine, que, por su forma perfectamente circular, fue confundida por Moyano, quien la entrevio a la distancia, con el cráter de un volcán extinguido. Del mismo año es la travesía de la Sierra de Los Baguales, macizo basáltico que separa el Paine del Lago Argentino. El grupo montañoso, aislado y salvaje, reservaba nuevas e inusitadas vistas al explorador, quien, en sólo siete horas de caballo, llegó de la estancia “Los Leones” a la estancia “Anita”, sobre las orillas del Lago Argentino. Concluida esta campaña, el salesiano proyectó su interés más al norte, sobre el mismo Lago Argentino y hacia los glaciares que allí se precipitan alimentándose en el corazón de la Cordillera. La región estaba prácticamente inexplorada, y eran desconocidos el paisaje y la orografía interna. Entre diciembre de 1930 y enero de 1932 De Agostini colmó estas lagunas geográficas visitando los fiordos Mayo y Spegazzini. Como siempre, su primera preocupación fue procurar alcanzar alguna cima que pudiese ser punto panorámico para los relevamientos. Con los guías Croux y Bron y con el doctor Egidio Feruglio, el padre De Agostini se dirigió primeramente al glaciar interno y después intentó la ascensión de la imponente pirámide del Monte Mayo. Favorecidos por un poco común período de buen tiempo, los cuatro lograron escalarlo y alcanzaron sin problemas los 2430 metros de la cima, de la cual podían dominar el fiordo y las tierras que se extienden lejos del mar. Era el 14 de enero de 1931, y desde la cima De Agostini tuvo una vista completa del territorio que lo circundaba.
“Un panorama estupendo, indescriptible por la profunda vastedad del horizonte y por la sublime grandiosidad de los centenares de cumbres… son las primeras miradas humanas que contemplan estas soledades de hielo entre arrebatos de alegría y atónito recogimiento… La mirada se dirige ávida a través de aquella inmensa extensión de nieves, de hielo y de cumbres, que la cristalina transparencia de la atmósfera y la fulgurante luz del sol tornan aún más nítida, y procuro escrutar sus secretos”.
Bastan estas palabras para aclarar las ideas acerca de qué tipo de explorador fue De Agostini: un científico riguroso, pero también y sobre todo un hombre sediento de conocimientos, impulsado por un fuerte deseo romántico hacia las soledades y lo desconocido, y además, un hombre de fe siempre pronto para asombrase ante las maravillas de la creación.
La travesía del Hielo Continental y el Fitz Roy
También de 1931 es la primera travesía del Hielo Continental y de la Cordillera Patagónica Austral, cumplida asimismo con los tres compañeros que lo habían seguido en la ascensión al Monte Mayo. La empresa fue llevada a cabo entre el 24 de enero y el 13 de febrero. Bastante laboriosa fue, sobre todo, la travesía del inmenso glaciar Upsala, uno de los más extensos de la Cordillera. Más allá de la impresionante avenida helada, en las laderas del Monte Cono, los exploradores hallaron un oasis de verdura hasta con algunas hayas enanas, perdidas entre las morenas y los hielos.
“Es un pequeño oasis verdegueante y florido entre la aridez de los glaciares y de las rocas, en una espléndida posición para establecer nuestro campamento“. Prosiguiendo la travesía, el grupo entró en un glaciar desconocido, que fue bautizado “Bertacchi”. Luego fue descubierta una inmensa altiplanicie, que tomó el nombre de Meseta Italia. Los cuatro alcanzaron finalmente la cima virgen del Monte Torino, de donde contemplaron el subyacente fiordo Falcón y la costa del Pacífico. Si bien no concluida en todos sus objetivos, bien se puede decir que la travesía se cumplió, y el retorno se llevó a cabo por el camino de ida.
Esta realización es una de las piedras miliares de la historia de las exploraciones patagónicas, y solo muchos años más tarde será repetida y completada enteramente (1955-56; expedición de la Royal Geographic Society; Harold William Bill Tilman y el chileno Jorge Quinteros, desde el fiordo Calvo hasta el Lago Argentino).
Con metódica progresión, siempre en busca de nuevos horizontes, de 1932 a 1935 el padre De Agostini visitó otras veces el macizo del Fitz Roy, seguramente el grupo montañoso más complejo e imponente de toda la Cordillera. En sucesivas campañas de exploración se adentró en los valles que, de las laderas de las montañas principales, confluyen en el Río de las Vueltas. Huésped de la estancia “Masden”, pasó Navidad al pie de la Cordillera, escuchando las narraciones de su anfitrión, quien recordaba los tiempos en que esos lugares eran aislados y salvajes. Y así fue como decidió establecerse allí.
Encontramos, en este breve período de descanso, a un De Agostini hombre de Dios. Por otra parte, cuando se detenía en las estancias, el salesiano abandonaba siempre los hábitos del explorador y retomaba los del sacerdote, celebrando misas, consagrando matrimonios, administrando los sacramentos o también pronunciando tan sólo palabras de consejo o confortando los espíritus.
Pero el llamado de la naturaleza salvaje y de la investigación estaban siempre presentes y los reposos no hacían más que dar a esos impulsos mayor vigor. Terminadas sus funciones como sacerdote, De Agostini volvía a ser hombre de aventura.
Ya en 1931 había podido admirar de cerca la elegante pirámide del Fitz Roy y había recibido una vivísima impresión. “Pero la atracción más imponente la constituye el Monte Fitz Roy… Es el señor de toda esta vasta región montañosa, es otro Cervino, algo más modesto en cuanto a elevación pero no menos terrible por la verticalidad de sus paredes y la majestuosidad de su cúspide. El Fitz Roy es sin duda una de las montañas más bellas e imponentes de la Cordillera Patagónica...”.
En aquella primera expedición de ensayo, De Agostini efectuó el reconocimiento del valle del Río Fitz Roy y penetró hasta el círculo terminal, encerrado entre las muy audaces agujas del Cerro Torre, – “que se yergue imponente al oeste, ostentando su grácil cima, altísima, coronada por un penacho de hielo, y sus formidables paredes de granito…” – y la impresionante muralla noroeste del Fitz Roy.
Durante el segundo viaje a la región, el padre salesiano se adentró en el amplio valle del Río de las Vueltas, todavía entonces desconocido en su parte superior. Obviamente, tampoco eran conocidos los valles tributarios, aun cuando algún occidental los hubiese visto. En 1909 había penetrado en esos territorios un aventurero alemán en busca de fabulosos tesoros de las minas. Ese hombre se estableció definitivamente en la región, en un valle cuyo topónimo recuerda su sobrenombre: en efecto, él era conocido como Milodón, por haber sido el descrubridor de la célebre gruta del Milodonte, en la región de Última Esperanza. El hombre llevó en aquellos lugares una vida solitaria que duró de 1913 a 1931, año de su muerte. Su verdadero nombre era Alberto Conrad y su cadáver fue hallado en su barraca con sus supuestos tesoros: algunos cristales de cuarzo.
En aquellos años se hablaba también de otra leyenda viviente, un individuo que podríamos describir como una mezcla de Robin Hood, Billy the Kid y Robinson Crusoe. Se trataba de un bandido uruguayo, Asencio Brunel, ladrón de caballos y de rebaños, terror de los indios tehuelches y de los primeros estancieros. Vestido de pieles de puma, Asencio dominó, como señor indiscutido, la región, y cumplió gestas casi legendarias, para terminar muerto por algunos colonos en un tiroteo digno de las mejores películas del Oeste. Retornemos, pues, al protagonista de nuestra monografía, el cual proseguía sin pausas el reconocimiento de las montañas. Bastante provechosa fue la expedición al valle de Río Eléctrico en busca de una completa visión y conocimiento de las vertientes septentrionales del Fitz Roy. Formaba parte del grupo también el guía alpino Carrel, de la región de Aosta. El campamento de base fue instalado en el valle, cerca de un gigantesco peñasco errático que desde ese día, en memoria del sacerdote explorador, es conocido como Piedra del Fraile. Construida una cabana de troncos, a causa del mal tiempo el grupo fue obligado a permanecer inactivo durante cerca de un mes. Al término de la forzada espera, el retorno del buen tiempo permitió recorrer la parte superior del valle del Río Eléctrico, asomarse al Hielo Continental y de allí dirigirse a la ladera noroeste de la Gorra Blanca. En el curso de la excursión, fue localizada y descripta una nueva cadena montañosa al norte del Cerro Torre, que fue llamada Cordón Guillermo Marconi. Se pudo además establecer la posición geográfica de los glaciares tributarios del lago San Martín.
Lago San Martín y Monte San Lorenzo
Sería justamente la región del San Martín la próxima meta de los viajes de De Agostini, quien pasó en la zona buena parte del año 1937. Usando, como base de partida, las estancias “La Ramona” y “Los Ventisqueros”, el salesiano logró, en una primera tentativa, escalar el Monte Milanesio, óptimo punto panorámico que se asoma a la cadena interna y a los glaciares O’Higgins y Chico, los cuales se lanzan sobre el brazo sur del Lago San Martín. Hemos llegado así a la última etapa de las exploraciones de Alberto De Agostini. Dirigiéndose aún más al norte, orientó sus esfuerzos hacia el macizo del monte que, por su altura, es el segundo de toda la Cordillera Patagónica Austral: el Monte San Lorenzo. Se trata de una montaña de hielo y roca, de formas audaces e imponentes, un verdadero y real señor de la Cordillera. Toda la región del San Lorenzo estaba prácticamente inexplorada, si se excluyen las rápidas visitas cumplidas por los topógrafos militares argentinos y chilenos con el propósito de definir los confines entre las dos naciones. En 1940, terminada una segunda y veloz excursión en la región del San Martín, De Agostini se dirigió hacia los nuevos territorios.
El trabajo se inició con la exploración y los relevamientos geográficos y geológicos de las vertientes sud, este y norte del San Lorenzo, de cuyos glaciares se originan el Río Lácteo, el Río Platten y el Río Tranquilo. A propósito de la montaña se expresa así De Agostini en su obra Andes Patagónicos: “El macizo de San Lorenzo (3700 m.) es, después del Monte San Valentín (4050 m.) el más elevado de la Cordillera Patagónica Austral. No obstante la relativa facilidad de acceso – sus bases se pueden alcanzar fácilmente ascendiendo por los valles orientales – ha permanecido hasta hoy ignorado casi del todo en el mundo geográfico y del montañismo, y casi nada se conocía, hasta nuestra llegada, de su estructura y de sus interesantísimos e imponentes aspectos, y ninguno había penetrado en su interior… El San Lorenzo, por su especial posición, constituye el punto culminante de aquel sistema montañoso que, alejándose del eje de la Cordillera andina, se aproxima a las mesetas orientales, quedando circunscripto al nord-nord-este por las profundas depresiones del Río Baker y del Lago Cochrane-Pueyrredón, y al sud por la cuenca del Lago San Martín“.
Por cierto, esta cima, de formas elegantísimas, debió sugestionar no poco al sacerdote misionero, tanto que, leyendo su informe de la exploración, el San Lorenzo está siempre presente, observado, admirado casi como algo sobrenatural y misterioso.
Durante el primer viaje se realizó la travesía del Valle del Río Lácteo, “uno de los más pintorescos que yo haya conocido en la Cordillera, no sólo porque mantiene todavía intacta la vegetación arbórea, en forma de manchas de hayas esparcidas graciosamente aquí y allá, casi artísticamente, sobre las laderas, sino sobre todo por la vista del San Lorenzo, que domina todo el fondo hacia el poniente, y de otros dos montes bastante elevados, el Penitentes (2750 m.) al sudoeste, y el Hermoso (2100 m.) al norte, en directa continuación del valle del Río Lácteo“.
Poco tiempo después le tocó el turno al valle del Río Platten, de pocos atractivos según De Agostini, pero, con todo, bastante importante porque permite observar la vertiente norte del San Lorenzo. Después de una serie de días de tiempo malo y ventoso, por fin se tornó realidad la esperanza de poder conocer y fotografiar el lado norte de la montaña, y los exploradores gozaron de una incomparable vista del macizo.
Por aquellos días nació probablemente el proyecto de escalar la montaña, y con el propósito de localizar una vertiente menos ardua, De Agostini se dirigió aún más al norte, hacia el valle del Río Tranquilo, tributario del Río del Salto, que después desemboca en el Pacífico. Al noroeste del macizo principal fue localizada y descripta otra cadena montañosa, la de los montes Cochrane, pero bastante más interesante fue el descubrimiento de que el lado noroeste del San Lorenzo, aunque cubierto de inmensos glaciares, podía ser escalado. Una segunda incursión en el valle del Río Tranquilo y en la parte superior del Río del Salto confirmó que la ascensión era factible y permitió obtener ulteriores datos documentales.
También en este caso, De Agostini se valió de la generosa hospitalidad de los muy pocos colonos de la región, y estableció su base cerca de la estancia “Elorragia”. En sus descripciones él no pasa por alto los detalles de la vida y del trabajo de los estancieros, y a veces intenta ofrecer un perfil psicológico de ellos. “Pocos son los colonos que todavía hoy viven desparramados en estos solitarios valles andinos, tan alejados de los centros habitados, por las dificultades de acceso debidas a la aspereza de los caminos apenas trazados entre despeñaderos y pantanos, por los peligrosos vados de los ríos impetuosos que tornan difícil el abastecimiento de los víveres y la exportación de los productos laneros de los cuales obtienen los medios para sustentarse, de modo que las ganancias son bastante escasas y la vida dura y llena de privaciones. No obstante estas dificultades y penurias, un profundo afecto liga a los colonos a estos solitarios valles andinos, como si estuviesen subyugados por un encanto misterioso. De cuando en cuando el nostálgico recuerdo de lugares más cómodos y poblados donde transcurrieron los primeros años de sus vidas, y el deseo de volver a ver a parientes y amigos los induce a alejarse por algún tiempo, pero pronto retornan con alegría a estos oasis de paz y soledad, aburridos y fastidiados del alboroto y de las habladurías de la sociedad”.
De Agostini ambientalista y la ascensión al San Lorenzo
Junto a los muy precisos informes de viaje, a las descripciones de valles y sistemas montañosos que otorgan a menudo a las narraciones de De Agostini una atmósfera más bien monótona y fría, se agregan a veces consideraciones de carácter ambiental que testimonian, por el contrario, el amor por la naturaleza del gran explorador. Hallamos en ellas una constante preocupación del autor respecto de la progresiva invasión de los valles por parte de los colonos, invasión que conducía a inevitables perturbaciones del equilibrio ecológico.
Podemos hallar descripciones en este sentido cuando, por ejemplo, con gran tristeza describe las grandes y súbitas destrucciones forestales de Última Esperanza. “Cuando llegó allá don Orosimbo, inmensas zonas boscosas jamás holladas por ser humano alguno cubrían esta vasta región premontañosa, pero en pocos años, por causas fortuitas o intencionales, fueron destruidas por colosales incendios, que duraron semanas y meses enteros, favorecidos por la extraordinaria fuerza y continuidad de los vientos. Esta es la suerte que ahora les ha correspondido a todos los bosques precordilleranos de la Patagonia en su vertiente oriental“. Otros fragmentos relativos al ambiente nos describen, por otra parte, algunas especies de animales en vías de extinción, como por ejemplo el huemul o ciervo de la Cordillera. “El huemul (Hippocamelus bisulcus, Mol) es todavía numeroso en los valles cordilleranos, pero, a medida que estos se van poblando, desaparece rápidamente. Sus principales enemigos son el león y el hombre. El primero lo caza para saciar el hambre; el segundo, por diversión o por razones aún menos justificables, aprovechando de su extrema timidez y docilidad”.
Con esta pequeña digresión hemos llegado a la última exploración de De Agostini: el viaje a los valles del Río Baker y del Río Chacabuco. El salesiano alcanzó así los límites septentrionales de la Cordillera. De esta experiencia nos deja en sus libros más impresiones sobre la gente y sobre sus condiciones de vida que notas geográficas. Puntualiza las graves carencias respecto de caminos, cosa que llevaba a los colonos a un grave aislamiento y permitía que los bandidos se enseñorearan de la región. Uno de los colonos, conocido por De Agostini, quien tuvo ocasión de ser su huésped, le contó de un individuo que le robaba y mataba su ganado. El colono fue asesinado por ese mismo bandolero poco después de la partida del misionero. Entre las notas de este ultimo viaje, muy característica es también la descripción de Vilches, extraño tipo de colono que vivía en un mísero tugurio. “No llegábamos en verdad a comprender cómo este singular ermitaño, con tanta madera del bosque a su disposición y con tanto tiempo disponible, no se había construido una habitación más confortable en un clima tan tempestuoso y frío, pero, por lo que parecía, el buen hombre estaba plenamente satisfecho y contento, sin demostrar ningún deseo de procurarse otras cosas fuera de las que poseía“.
En el corazón de De Agostini, ya sexagenario, permanecía empero el deseo de alcanzar la cima del monte San Lorenzo, cuya ascensión podía también simbolizar el digno coronamiento de un trabajo de treinta años en la Cordillera.
El momento propicio se presentó en la primavera de 1943. A causa de la situación bélica mundial, le fue imposible llamar a la Argentina a los guías alpinos italianos de los cuales siempre se había valido. Con todo, en el Club Andino de Bariloche encontró dos compañeros que parecían ser más que adecuados para la empresa: el guía suizo Alexander Hemmi y Heriberto Schmoll. Favorecidos por una serie de nuevas carreteras, los tres llegaron rápidamente a las laderas de la montaña, pero luego perdieron un tiempo precioso a la espera de 500 kilogramos de materiales para la expedición. Una vez resuelto el problema, gracias a un casi increible período de tiempo espléndido – quince días – el grupo logró instalar un campamento de avanzada en la cota de los 2320 metros, sobre el glaciar del San Lorenzo. El día 3 de diciembre, un primer asalto a la cima fue frustrado por el mal tiempo. Los tres se detuvieron en la cota de los 2925 metros y de allí descendieron hasta el campamento base, en el valle del Río del Salto. Hasta el día 14 el tiempo se mantuvo malo, impidiendo cualquier actividad, pero el alba del día siguiente despuntó grávida de promesas y el grupo decidió partir. Habiendo alcanzado el campamento de avanzada, un breve empeoramiento obligó a los escaladores a una pausa forzada, y sólo el 17 pudieron partir hacia la cima gracias a un inesperado mejoramiento del tiempo. Toda la ascensión se desarrolló entre dificultades técnicas, nieve y hielo, y con la preocupación de que el tiempo, ya inseguro, pudiese llegar a ser de nuevo malo e impidiese alcanzar la meta. “… Nuestra mirada se dirige con ansiedad hacia las cadenas de montañas que se yerguen en el horizonte como para asegurarnos que continuarán los indicios de buen tiempo”. Una espesa niebla acompañó el trecho final de la expedición, manteniendo a los escaladores en un constante estado de tensión y expectativa que se relajó tan solo en la cima. “Han transcurrido tres horas desde que emprendimos la ascensión de esta pared de hielo (vertiente noroeste) y emmi, que avanza cautamente, me pregunta con frecuencia: ¿En qué punto estamos?”.
Llegados a una altura cercana a la cima, la niebla se disipó por un instante, dejando entrever la cumbre principal. “… Aparece frente a nosotros hacia el sur, en toda su grandeza y majestad, la cúspide excelsa del San Lorenzo. Un estremecimiento de alegría invade nuestro espíritu, mientras en coro exclamamos: ¡la cima! ¡la cima!”. Hacia las 16.30: “Hemmi se interna en una canaleta de hielo… Avanzamos con mucha cautela, uno por vez, con toda la cuerda tendida sobre el inseguro trayecto, porque una caída representaría un salto vertical de 2400 metros. En pocos minutos alcanzamos la inmaculada cumbre. Son las 17.30… Extraigo de la mochila una estatuilla de María Auxiliadora y, después de haberla asegurado a un asta preparada a propósito, la clavo profundamente en la nieve. La Virgen Santísima, desde esta cumbre dominante que constituye el confín entre la Argentina y Chile, velará por la paz de las naciones hermanas y por la prosperidad y el triunfo de la obra salesiana en la Patagonia. Schmoll, entre tanto, ha atado a un asta la bandera argentina y el gallardete del Club Andino de Bariloche… Agrego una banderita tricolor italiana… las dos banderas flamean gallardas sobre la cima augusta… y la noble enseña argentina parece fundir sus colores blanco y celeste en una admirable armonia con la candidez de las nieves y el azul del cielo. Festejamos nuestra victoria bebiendo una copita de coñac...”.
La noticia de la ascensión fue recibida con incredulidad y se difundió por doquiera en la pampa. Duranta una etapa del viaje de retorno, De Agostini tuvo ocasión de escuchar el juicio que un gaucho formulaba sobre la increíble empresa, presumiendo ante los allí presentes: “A mí no me la cuentan – decía – yo he visto de cerca la cima del San Lorenzo: es terrible. Si no la han enlazado, no es posible que la hayan escalado”.
Exploración aérea de la región Última Esperanza
Entre las tantas iniciativas tendientes al conocimiento de la Cordillera, es necesario sin duda recordar también el vuelo sobre una parte de ella, cumplido por De Agostini en 1937.
Hombre abierto y atento a toda novedad, el misionero ya había sabido valerse magnificamente de la técnica fotográfica para documentar sus propios logros, y supo utilizar siempre toda nueva posibilidad ofrecida por el progreso. Fue, pues, espontáneo en él tratar de poder emplear también los medios aéreos para tener una visión aún más clara de la cadena montañosa. El vuelo de 1937 forma siempre parte de aquellos emprendidos por los pioneros de la aviación, por cuanto, no obstante los progresos de la industria, las particulares condiciones climáticas de la Patagonia tornaban arduo, de cualquier modo, el normal vuelo en avión.
Dice al respecto De Agostini: “La navegación aérea en este sector austral de los Andes es una de las más difíciles del mundo… las ráfagas de viento… son terriblemente poderosas y vertiginosas, y producen en su carrera pozos de aire y fuertes remolinos que pueden hacer descender de golpe al aparato centenares de metros“.
El primer vuelo sobre tierras magallánicas había sido realizado por el francés Ornar Page no muchos años antes. El 23 de agosto de 1914 se lanzó al cielo de Punta Arenas frente a los ojos maravillados de poderosos y humildes. Pocos días más tarde el mismo Page sobrevolaba el Cabo de Hornos. En 1916 los chilenos Fuentes y Castro, con un Bleriot de 80 HP, efectuaron la primera travesía del Estrecho de Magallanes, en 23 minutos. Inmediatamente después del conflicto mundial nació el Aero Club de Punta Arenas, y el 21 de mayo de 1921, el SVA de 220 caballos del club, comandado por Mario Pozzatti, efectuaba el primer vuelo postal de la América Austral, transportando una valija con cartas de Punta Arenas a Río Gallegos. El segundo vuelo fue cumplido de Punta Arenas a Ushuaia en 1928 por el alemán Gunther Plüschow, con el hidroavión “Cóndor de Plata”. Este piloto debe ser considerado un pionero, precursor de una nueva era: sus vuelos con propósitos de exploración aportaron una riquísima documentación acerca de toda la región.
Plüschow logró sobrevolar también el terrible Monte Sarmiento y, de regreso, pasó sobre el fiordo De Agostini. De este pasaje dejó una impresión escrita: “Oh, monseñor De Agostini! Tú que tanto has trabajado por descubrir las bellezas de la Tierra del Fuego. Ahora experimento la emoción inmensa que sentiste tú al descubrir este magnífico fiordo, que justamente lleva tu nombre!” Después de esta necesariamente breve historia de los pioneros de la aeronáutica en las tierras magallánicas, volvamos a De Agostini y a su vuelo sobre el Balmaceda y el Paine, que le permitió reunir una enorme documentación fotográfica, la que continuó siendo, durante muchos años, indispensable y única para el conocimiento de esas regiones.
Compañero en la empresa y piloto del monoplano “Saturno” era uno de los animadores del Aero Club de Punta Arenas, Franco Bianco, hijo de piamonteses, que llegó a ser famoso por haber cumplido el raid Punta Arenas – Santiago – Mendoza – Buenos Aires – Punta Arenas: 6700 kilómetros viajando solo.
Para emprender el vuelo De Agostini se dirigió a Puerto Natales, donde esperó un par de días que el tiempo mejorara. Al tercer día, el 13 de abril, aclaró. “A las 10 envío un fonograma a Bianco: ‘Tiempo óptimo – Cordillera al descubierto’. Respuesta inmediata: ‘Voy al campo y parto’.” Esa tarde iniciaba el vuelo.
“Dos carabineros chilenos vigilan el aparato… Cuando subo a la carlinga, uno de ellos me pregunta por qué no me coloco el paracaídas. Pienso entre mí que el único paracaídas que llevo siempre conmigo es una reliquia de San Juan Bosco, a quien invoco en las dificultades y peligros“. El avión despega.
“Es la primera vez que sobrevuelo la inmensa Cordillera Patagónica, que desde tantos años es meta predilecta de mis estudios y de mis investigaciones. En pocos minutos el avión, con rápida subida, está a gran altura“. El liviano aparato ha llegado a los 2000 metros, y penetra en el estrecho valle entre el Balmaceda y el Cerro Prat. “… Cuando de pronto siento que el aparato desciende y cae verticalmente en el vacío, como si hubiese perdido las alas, a una velocidad impresionante, cincuenta, cien metros? Franco me aseguró después que debían ser doscientos metros.
No me he todavía recuperado de la sorpresa de aquel salto acrobático, cuando ahora una fuerza invisible nos lanza velozmente hacia lo alto en tremenda subida. El ‘Saturno’ tiembla y oscila, se hunde y se eleva como si estuviese a la merced de una gigantesca marejada… Franco domina con maestría y seguridad el aparato, y a mis temerosas preguntas responde que, apenas salidos de esa garganta, entraremos en una zona de mayor calma”. Apenas hay tiempo de tomar la máquina fotográfica y ya el avión está sobre el Paine, “que absorbe nuestras miradas con la belleza y majestad de innumerables pirámides, torres y penachos, que lo hacen aparecer como una gigantesca catedral gótica… Con una subida a todo motor, Franco lleva el aparato a 3200 metros“.
Desde allí arriba el horizonte se abre sobre ángulos conocidos y desconocidos, despertando el entusiasmo del misionero.
“Por todas partes hielo y nieves eternas, cadenas de montañas de las cuales los mapas no dan noticia alguna, dejando solamente un espacio en blanco con la inscripción ‘inexploradas’.. Ahora nuestros ojos son irresistiblemente atraídos por una inmensa avenida de hielo que la Cordillera, horrendamente revuelta, regurgita”.
El vuelo prosigue sobre el Lago Argentino. Los dos pasan junto a las cimas del Monte Mayo y se dirigen un poco más al norte, hasta entrar en el Hielo Continental. “Más a septentrión se extiende la inmensa avenida de hielo del Glaciar Upsala, bordeada por ambos costados por montañas que blanquean por la nieve, entre las cuales se destaca, altísima y dominadora, la imponente torre del Fitz Roy.
Hemos entrado en el reino misterioso de las blancas soledades, donde el viento y las tempestades imperan como soberanos, pero hoy todo es luz y silencio profundo, herido tan solo por el rugir del motor.
Permanezco absorto ante el fascinante espectáculo y saboreo anticipadamente la alegría de develar los últimos secretos de estos hielos eternos.”
Después de cuatro horas de vuelo, el “Saturno” retorna a la base con De Agostini consciente de haber dado la última pincelada al ya completo cuadro de sus exploraciones.
De Agostini escritor y fotógrafo
Es ahora ya seguro que el sueño de San Juan Bosco, en el cual el santo vio las riquezas y las posibilidades aún no aprovechadas de las tierras magallánicas, influyó no poco en la actividad de De Agostini. Su misión en la Patagonia no consistía sólo en ser pastor de almas: a ello debía sumarse la actividad de exploración, actividad encaminada también a confirmar con datos tangibles el sueño de Don Bosco.
Evidentemente, para hacer esto se necesitaba ser un apasionado de la aventura, alpinista, fotógrafo, escritor. Sin lugar a dudas, estas características se hallaban reunidas en el padre De Agostini. Tenía por coetáneos a numerosos alpinistas-fotógrafos de aquella que se podría considerar la “escuela de Biella”, que tuvo sus máximos representantes en Vittorio Sella y en los hermanos Piacenza. Y ya antes de partir para América del Sud había manifestado dotes no comunes de fotógrafo, participando en algunos concursos de temas paisajísticos en Italia, habiendo obtenido también un primer premio. Si bien muy inclinado hacia la fotografía artística, que caracterizó también parte de sus primeras realizaciones americanas (con las cuales participó en concursos fotográficos en Río de Janeiro, Santiago, Valparaíso y Concepción), el salesiano debió renunciar a esta inclinación para dedicarse a la fotografía meramente documental. No fue por cierto una elección difícil, y de cualquier modo era necesaria por cuanto la documentación de tierras y montañas desconocidas ocupaba, por su importancia, el primer puesto. El tiempo físico y meteorológico no permitían, por cierto, entregarse a elaboraciones extravagantes y laboriosas: lo más importante era reunir la mayor cantidad posible de datos, sobre todo desde el punto de vista fotográfico.
De Agostini cumplió en efecto plenamente esta tarea, considerando que sus libros y las fotografías que los ilustran son aún hoy un precioso cofre de informaciones sobre las tierras magallánicas. Junto al voluminoso trabajo fotográfico debemos recordar también dos filmaciones, Tierras Magallánicas y Tierra del Fuego, difundidas tanto en América Latina como en Europa.
Si fotografías y documentales fueron tal vez el instrumento más importante usado por el explorador nacido en Pollone, no debemos con todo olvidar la inmensa obra literaria que se agrega a ellos.
Veintidós son los libros y las guías, aun turísticas (Guía Turística de Magallanes y Canales Fueguinos y Guía Turística de los Lagos Argentinos y Tierra del Fuego), escritos entre 1924 y 1960, ya sea en italiano o en castellano. Ciertamente los más conocidos son Ande Patagoniche – viaggi di esplorazione nella Cordigliera Patagónica australe, de 1949, Trent’anni nella Terra del Fuoco, publicado en 1955, y Sfingi di ghiaccio (“Esfinges de hielo”), de 1958. Además de los libros existe una increible cantidad de artículos y ensayos aparecidos en diarios y revistas en Italia, la Argentina y Chile. En todos estos escritos, la parte de la geografía y las ciencias naturales ocupa un lugar preponderante, hasta el punto de hacerlos parecer por momentos monótonos y tediosos. No obstante, de una más atenta lectura es a menudo posible captar la dimensión humana del autor, su sed de espacios desconocidos, su búsqueda de un mundo todavía incontaminado y primordial, donde la divinidad fuese todavía bien perceptible y mostrase sin velos sus rostros.
La obra escrita, como la fotográfica, constituye un importante testimonio tendiente por entero a mejorar y difundir el conocimiento de las regiones magallánicas, pero en ambas se encuentra algo más, que sin duda las torna más ricas y completas. Este algo es la constante voluntad de confirmar a aquel sueño de Don Bosco que vio: “… en las visceras de las montañas, en las profundidades de las llanuras. Tenía en vista las riquezas incomparables de estas regiones, que un día serían descubiertas...”.
El problema de los Indios
En muchos textos de De Agostini hallamos un espacio especial dedicado a estudios etnográficos y a consideraciones sobre las condiciones de las tribus indígenas que iban gradualmente desapareciendo bajo el acoso de la civilización blanca.
Evidentemente, el salesiano tomaba muy a pecho el problema; él, por lo demás, como muchos de sus hermanos de orden, se hallaba casi impotente frente a la progresiva declinación de esas gentes.
En su peregrinar tuvo ocasión de familiarizarse con los representantes de todas las etnias: los onas, los yamanas y los alacalufes de la Tierra del Fuego; los tehueíches y los araucanos de la Patagonia. También en este caso De Agostini se muestra muy capacitado para describir y nos deja precisas apuntaciones sobre las características antropomórficas de las diversas tribus, sobre sus tradiciones y usos, sobre sus creencias religiosas y vínculos sociales. La obra del misionero reviste en este sentido enorme importancia, pues permite conocer una realidad hoy desaparecida.
La precaria situación de los indígenas y las continuas persecuciones de que eran objeto fueron gran motivo de congoja para el sacerdote, quien por decirlo así se hallaba entre dos estados de ánimo diversos. Por un lado, como hombre de caridad, debía mirar por las poblaciones indígenas: era preciso deber suyo protegerlas y procurar integrarlas de manera lo menos traumática posible en la nueva situación social que estaba imponiéndose. Por otra parte, empero, De Agostini se daba perfecta cuenta de ser él mismo, junto con la civilización blanca, un perturbador de los equilibrios seculares derivados de un milagroso acuerdo entre hombre y naturaleza. No obstante, no podía tampoco olvidar a sus fieles, los colonos, los mineros y todos los que habían llegado a aquellas tierras en busca de fortuna.
No obstante ello, muy a menudo De Agostini denunció abiertamente los delitos que los estancieros cometían contra los indios y llegó hasta a acusar en un libro suyo a Manuel Senoret, gobernador de Punta Arenas, Éste había deportado tribus enteras, empujándolas hacia Punta Arenas con el pretexto de “sustraerlas de la miseria y asegurarles el alimento y el vestido de que carecían. La responsabilidad de estas guerras de exterminio contra los onas recae en gran parte sobre el gobernador Senoret… Para proteger los intereses de algunos… y también para oponerse a los misioneros salesianos que él habría querido expulsar de la isla de Dawson, de la cual codicia los bosques y los pastos, favoreció la más indigna de las persecuciones. Expuestos casi desnudos por las calles de la ciudad, los indios fueron distribuidos entre cuantos los requerían (remate de indios) sin tener en cuenta los antecendetes de tales solicitantes…”.
Este no es sino el episodio más significativo de la lucha de De Agostini en favor de los indios, lucha verdaderamente difícil y perdida de antemano. En sus escritos todavía leemos: “Los pastores, en gran parte anglosajones, eran quienes veían en los indígenas el mayor impedimento para la propagación de sus rebaños, y de allí la caza sin piedad a que se los sometía como si fuesen animales feroces. El inglés Sam Jslop se vanagloriaba hasta de usar correas fabricadas con la piel de los indígenas, que obtenía de las espaldas de estos infelices. Otro terrible perseguidor de onas fue el escocés Mac Lennan, administrador de la estancia ‘Primera Argentina’… Para gloriarse de sus nefandos exterminios, equiparaba el número de sus víctimas con el de los whiskies que había bebido, y que no debían de ser pocos porque se hallaba en perenne estado de embriaguez. Dado que los indígenas, para así mitigar el hambre, se cebaban sin repugnancia en los animales que encontraban muertos por el campo, los pastores envenenaban grandes trozos de carne con estricnina para triunfar más fácilmente en su inicua campaña“.
Concluyamos este capítulo también con algunas consideraciones de De Agostini a propósito del problema indígena. “También aquí, como en el Lejano Oeste, como en la Pampa y en el Chaco, la suerte de los indígenas estaba inexorablemente marcada; también aquí, la idéntica historia de todas las colonizaciones… En este triste y rápido declinar de la raza fueguina les correspondió a los misioneros salesianos la noble aunque ingrata tarea de defender al indígena contra el blanco, al débil contra el pionero audaz e inteligente, ávido de lucro, al cual sonreía una fácil e inmensa fortuna en la conquista de esas tierras, hasta entonces dominio absoluto de los onas… Ya no escucharán más las selvas vírgenes, en la quietud profunda de una noche lunar, las antiguas leyendas del héroe Kuanip, hijo de la montaña roja, y de su infortunada esposa, la graciosa Oklta, transformada en murciélago. El koliot (forastero), venido de regiones lejanas, sediento de riquezas y dueño de armas mortíferas, ha cumplido con rapidez su obra nefasta, destruyendo para siempre la felicidad secular de esta raza primitiva, que desde hacía siglos vivía solitaria e innocua en la más singular región de la tierra“. No obstante su avanzada edad, De Agostini continuó trabajando activamente, reordenando sus estudios y pensando siempre en las tierras patagónicas.
Le había quedado el deseo insatisfecho de conquistar la cima del Sarmiento, pero también esto debía ser alcanzado por su tesonera voluntad: fue De Agostini, ya viejo, quien guió la expedición italiana que en 1956-57 conquistó la cima con Clemente Maffei y Carlo Mauri, grupo que después escaló el Monte Italia.
Vuelto a Italia, donde a menudo solía pasar los meses que en la Patagonia eran menos buenos, el padre De Agostini murió el 25 de diciembre 1960 en la Casa Matriz de los Salesianos de Turín.