Secondo un’analisi di Bloomberg le emissioni delle imprese statali nei settori dell’energia, dell’acciaio, del cemento, della raffinazione del petrolio sono uguali a quelle di intere altre nazioni. Il gruppo siderurgico Bowu emette più gas serra del Pakistan, Sinopec group quanto tutto il Canada. Per invertire la tendenza sul cambiamento climatico e rispettare gli accordi di Parigi, bisognerà fare i conti anche con queste società.
La Cina inquina più di Usa, India, Russia e Giappone messe insieme
di Giorgia Colucci
(pubblicato su ilfattoquotidiano.it del 27 ottobre 2021)
I destini climatici del pianeta si giocheranno anche e soprattutto nelle grandi aziende cinesi. È quanto emerge da una dettagliata analisi di Bloomberg sui dati pubblici raccolti nel 2019 da Crea – un gruppo di ricerca ambientale, con sede in Finlandia. Il documento mostra come in un solo anno Pechino sia stata in grado di produrre la stessa quantità di Stati Uniti, India, Russia e Giappone messi insieme. Da sola la Cina, emette infatti ogni anno 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (il triplo rispetto al 2001), contro i 6,6 miliardi degli Usa, i circa 6 miliardi dell’intera Europa, i 2,2 miliardi dell’India. Quello che più colpisce è però il peso che hanno alcuni singoli gruppi industriali, per lo più statali, capaci di generare quantità di gas serra superiori a quelle di intere nazioni.
Lo scorso anno China Baowu, leader mondiale nel settore dell’acciaio, ha ad esempio riversato nell’atmosfera più Co2 del Pakistan: 211 milioni di tonnellate. Il gigante petrolifero Sinopec Group – con la sussidiaria China Petroleum & Chemical – contribuisce al riscaldamento globale più del Canada. E se fosse uno Stato, sarebbe l’11esimo al mondo per per contributo di Co2. All’intero settore cinese dell’edilizia sono riconducibili quasi 4 miliardi di tonnellate. L’azienda automobilista Saic Motor Corp emette ogni anno 158 milioni di tonnellate, l’equivalente dell’Argentina. Mentre le 317 tonnellate di Huaneng Power Int, specializzata nell’elettrica – superano quelle di tutto il Regno Unito. E questi sono solo alcuni esempi.
I dati diffusi dall’indagine cozzano violentemente con i propositi ufficiali presentati da Pechino che mirano ad un azzeramento delle emissioni nette entro il 2060 con i primi effetti tangibili già dal 2025. Obiettivi che secondo molti esperti difficilmente si possono conciliare con la situazione di partenza e i modesti sforzi fatti sinora dal paese per limitare il suo impatto climatico. Lo studio viene pubblicato a pochi giorni dall’inizio del cruciale vertice Cop 26 che si è aperto domenica 31 ottobre 2021 a Glasgow, in Scozia.
“Le emissioni di numerose imprese statali nei settori dell’energia, dell’acciaio, del cemento, della raffinazione del petrolio sono uguali a quelle di intere nazioni – ha spiegato a Bloomberg Lauri Myllyvirta, analista del Center for Research on Energy and Clean Air – e nel 2021 sono aumentate molto più velocemente, invece di rallentare”. Per combattere la recente crisi energetica, ha aumentato l’estrazione e la lavorazione di carbone di circa 100 tonnellate all’anno e intende continuare fino al 2026. La situazione attuale quindi è in contrasto con le linee guida ideali, pubblicate ieri dal governo, per abbattere il consumo di combustibili fossili sotto la soglia del 20% in 40 anni.
Eppure a Pechino converrebbe investire sull’energia eolica e solare – come ha intenzione di fare anche all’estero: è infatti leader sia nello sviluppo di tecnologie per i veicoli elettrici, sia in quello delle batteria e potrebbe facilmente imporsi anche nelle ricerche per l’utilizzo di idrogeno e carbonio. Ha inoltre sviluppato un progetto per ricavare 100 gigawatt da fonti rinnovabili nel deserto su un’area più grande di tutti i dispositivi simili installati in India. Prima però si dovrà confrontare con il fabbisogno energetico – circa il 60% di origine fossile – che sostiene la maggior parte dei suoi colossi industriali statali in diversi campi.
Il settore energetico è responsabile del 33% delle emissioni nazionali
La produzione elettrica della Cina dipende in gran parte dalle Big Five, le principali società di servizi pubblici cinesi: Huaneng Group Co., Huadian Corp., China Energy Investment Corp., State Power Investment Corp e Datang Co. Secondo i dati disponibili sulla produzione di energia termica, nel 2020 hanno generato circa 960 milioni di tonnellate di Co₂, più del doppio della Russia. Tutte e cinque si sono impegnati a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025, ma hanno aumentato la produzione di carbone come sicurezza, in concomitanza dell’avvicinarsi dell’inverno. Nella prima metà di quest’anno, hanno presentato progetti per 43 nuove centrali e, al momento, ne sono state costruite per soddisfare una richiesta di 15 Gigawatt.
Il settore della produzione di acciaio è responsabile del 21% delle emissioni
Più di un quinto del carbone cinese viene usato dall’industria siderurgica. Le emissioni del settore sono aumentate di oltre il 40% dal 2010 al 2020, anche se il consumo medio di energia per tonnellata di acciaio è diminuito. L’industria si è impegnata a ridurre la produzione di Co2 del 30%, con un picco nel 2030. Poi intende sostituire le attrezzature ormai obsolete, come gli attuali altiforni, con alcune più nuove e più pulite. Il passaggio però potrebbe essere critico. Per questo Pechino ha imposto di limitare la produzione, rispetto al 2020: nei primi mesi di quest’anno però è salita ai massimi storici, il che significa che negli ultimi sei mesi dovrebbe calare dell’11% per centrare l’obiettivo fissato dal governo.
Non mancheranno conseguenze su un settore che fabbrica circa 1 milione di tonnellate di acciaio per il mercato interno e ne esporta il 6,2% in 200 paesi del mondo Qualcosa lentamente si muove, alcuni colossi industriali stanno testando nuove tecnologie meno inquinanti. Baowu sta sperimentando l’uso delle microonde durante il processo di sintetizzazione e, come altri gruppi, vuole costruire un forno da 1 milione di tonnellate che utilizzerà l’idrogeno – con una buona rete di distribuzione nel Paese – generato da energia rinnovabile, anche se il metodo è ancora cinque volte più costoso dei metodi tradizionali.
Dall’edilizia quasi un terzo di tutte le emissioni
La costruzione di nuovi edifici – case e centri commerciali – ha comportato nel 2019 circa 4 miliardi di tonnellate di Co₂. Il 95% proveniva dalla produzione di acciaio e cemento. A queste si devono aggiungere le emissioni derivanti dalla gestione degli edifici. Le proprietà esistenti generano – per il consumo di elettricità, riscaldamento e condizionamento – 2,1 miliardi di tonnellate di gas serra all’anno, secondo la Società cinese per gli studi urbani. Il rallentamento del settore, trainato dal debito di società immobiliari – come Evergrande Group – potrebbe, tra i tanti effetti economici negativi, almeno aiutare a ridurre tali emissioni, parallelamente alla ricerca di materiali più ecologici. Una soluzione è catturare il carbonio e immagazzinarlo. Anhui Conch Group Co., il produttore di cemento numero 2 in Cina, ha investito 60 milioni di yuan per separare e purificare e immagazzinare 50 mila tonnellate di Co₂ in uno dei suoi impianti. Mentre China National Building Material Group Co., il più grande produttore di materiali per l’edilizia, si sta impegnando per sostituire il carbone con energia solare e derivata dalle biomasse, oltre che per migliorare l’efficienza della combustione.
Il settore petrolchimico è responsabile del 14% della Co2 prodotta
La maggior parte delle emissioni di petrolio e gas avviene lontano dalla fonte di produzione – nei tubi di scappamento delle auto o sui fornelli a gas – quindi difficile da controllare per le aziende. Sinopec Group, il più grande raffinatore nazionale, e China National Petroleum Corp (Cnpc) mirano entrambi a raggiungere il picco di emissioni entro il 2025 e lo zero entro la metà del secolo. Al momento però le loro iniziative sono ferme ai blocchi di partenza: PetroChina, la sussidiaria Cnpc, ha emesso 167,4 milioni di tonnellate di Co₂ nell’ultimo anno. China Petroleum & Chemical Corp., – di Sinopec – ha aggiunto 171 milioni di tonnellate. Insieme alle loro aziende madri hanno eguagliato le emissioni di quattro Stati: Canada, Spagna, Corea del Sud e Vietnam. Entro il 2025 saranno costruite 10 mega raffinerie, per lavorare oltre 200 milioni di tonnellate di greggio all’anno (1,1 miliardi all’anno in tutto il Paese).
Il 7% viene dai trasporti
Anche se l’avvento dell’elettrico sta spostando molti investimenti sulla plastica, più della metà del petrolio cinese viene utilizzato per il trasporto. Al momento il governo sta intervenendo per potenziare la sua flotta di veicoli non a benzina: un’auto nuova su cinque entro il 2025, dovrà essere elettrica. Al momento lo è solo il 5% del totale. Restano però le emissioni legate alle operazioni di assemblaggio. Saic Motor Corp, il più grande produttore del paese, ha generato 98 milioni di tonnellate di Co₂ dalle sue operazioni, consumo di elettricità e produzione di acciaio nel 2020. Rimangono poi le difficoltà nell’elettrificare mezzi più pesanti come camion, treni, aeroplani e navi. Le possibili soluzioni, come l’idrogeno e l’ammoniaca, sono lungi dall’essere economicamente praticabili.
Il peso, non trascurabile, dell’agricoltura
Secondo alcune ricerche del 2014 del ministero dell’Agricoltura e degli affari rurali cinese, l’uso di energia per le attrezzature meccaniche ha superato i fertilizzanti come fonte di gas serra. Secondo Crea, nel 2019 il consumo del settore è stato responsabile di 188 milioni di tonnellate di emissioni. Non è però calcolato il gas metano prodotto dai suini e bovini e sul territorio, che intrappola 80 volte più calore della normale Co₂ nei suoi primi due decenni della sua permanenza nell’atmosfera. I 48,6 milioni di maiali – due terzi in più rispetto alla media mondiale nell’industria alimentare – dei cinque maggiori allevatori della Cina hanno prodotto 14 milioni di tonnellate di anidride. Si tratta però solo un decimo della mandria nazionale, destinata a crescere con l’aumento dei redditi e i cittadini e all’incremento di carne nelle loro diete.