di Smaranda Chifu, pubblicato su Insalita in data 17 maggio 2020
Ma poi che vuol dire affetti stabili? Ma Conte ma tu lo sai che alla mia generazione la parola “stabile” suona un po’ gracchiante? Siamo cresciuti con i contratti coccodè e quando i nostri genitori ci hanno detto che alla nostra età loro erano già genitori, a noi c’è parso giusto fare spallucce e rispondere a tono “io invece ho finalmente deciso qual è il mio gusto di gelato preferito, son traguardi ma’, sto andando con calma!”. Affetti stabili. Ma che affetti stabili vuoi che c’abbiamo noi che come passione ci siamo scelti questa cosa che sei sulla punta del piede e se cadi muori, che ti vibra la gamba e se ti vibra muori, che infili un coso in metallo che si incastra in un pezzo di roccia e se lo infili male muori. Affetti stabili a me pare un po’ troppo.
Sono ripartita da ciò che conosco, sono uscita dalla tana un po’ anestetizzata come un orso sotto sedativi, ho lasciato che la nostalgia mi guidasse lungo strade già percorse e ho ripreso a camminare dal punto dove camminare mi era sicuro, dove per orientarmi avevo dei riferimenti, dove la bussola non era ancora impazzita. Dal punto dove sento che ogni cosa è leggera. Perché penso che non sia questo il tempo e il luogo per lottare, perché per combattere bisogna essere pronti alla battaglia e ora vi dirò che non sono pronta.
I miei affetti sono così instabili che un pomeriggio il Pelo mi ha scritto “io parto da casa in bici – che son 72 km da google maps, non so se mi spiego – e vado al Passo della Presolana, penso di salire alla Malga e bivaccare, mi raggiungi?”
Ma certo che ti raggiungo mio caro affetto instabile! Come si fa a dire di no ad un’idea così. Danno solo pioggia tutta notte, certo che ti raggiungo! Non abbiamo acqua, certo che ti raggiungo! Portiamo pure il materiale che il giorno dopo andiamo a scalare sulla parete fradicia, certo che ti raggiungo! Bivaccare senza senso sotto il tetto della Malga che sta un’ora distante dalla macchina e un’ora sotto l’attacco delle vie, quando puoi dormire nel letto a casa, ma certo, ma ovvio che ti raggiungo, mi ritrovo a sorridere all’idea di dormire in un sacco a pelo in giro: stabile a me pare puntare un po’ troppo in alto, definirei la mia esistenza come l’apostrofo rosa tra una bestemmia e l’infarto.
Ed è così che mi ritrovo sotto la pioggerellina al Passo della Presolana alle dieci di sera. Gli faccio caricare la bici da Giro d’Italia (si fa per dire) sul mio furgone, carichiamo gli zaini e saliamo.
Saliamo al buio, quanto mi mancava la frontale, arriviamo e ci infiliamo sotto la tettoia della Malga dove per fortuna troviamo dei tavoli così non ci tocca dormire a terra! Il Pelo tira fuori un tappetino mare con sopra i delfini e da uomo impavido, che scala le placche di VI con gli scarponi, mi confessa che ha paura a dormire sopra un tavolo…perché poi di notte cade. Dio esiste, penso, esiste perché quest’uomo ha fatto slegato da solo con l’attrezzatura di Bonatti le peggio cose, ma in un modo o nell’altro la gravità si vendica con tutti, ad alcuni regala il terrore di rotolare giù da un tavolo alto un metro. Accendo il fornetto e guardo le luci a valle. Mi infilo nel sacco a pelo e le chiacchiere si confondo pian piano con il rumore della pioggia che lentamente e inesorabilmente ….ci sta bagnando la parete! E’ questa la normalità, dar retta a idee malsane per vedere le persone, è questo che mi mancava.
Al mattino quando tiro fuori il naso dal “comfort meno 30” in cui sono infilata, l’aria frizzantina mi prende a schiaffi, mi rigiro come un orso nella tana e brontolo al Pelo “io ho sonno, tanto la parete deve ancora asciugare”. Alla fine mi svegliano gli escursionisti che passan di fianco e ci prendono a calci, scambiandoci per barboni. “Ma andate a scalare?”, ancora addormentati nei sacchi a pelo, mentre la parete gronda, quasi quasi gli dico che no, siamo proprio nomadi, in giro senza fissa dimora e senza affetti stabili, perché confessare che siamo così furbi da andare a scalare, mi vergogno.
Ci mettiamo trentacinque anni e mezzo a rifare lo zaino, ci passano di fianco Walter con un socio che stanno andando a fare “Un pensiero per Amos”, parecchio più a ovest con più avvicinamento, io ancora orso senza caffeina in circolo mi strofino gli occhi, vabbè dai, non siamo gli unici ad averci sperato. la parete sta asciugando. E che bello incontrare Walter di nuovo qui! Mentre decidiamo cosa fare, intravedo in lontananza una camminata che riconosco a memoria, una barba che spunta tra gli alberi e sono Ange e Michele che ci avevano detto che forse sarebbero venuti su anche loro. Ci incamminiamo tutti e quattro verso la parete.
La normalità. La normalità son io che rimango indietro durante l’avvicinamento, il fiatone. La normalità è che non sappiamo ancora che via fare. La normalità, la mia di normalità ha sempre avuto ben poco di normale.
La normalità è che alla fine abbiamo fatto lo Spigolo Longo, tutti e quattro, ed è la terza volta che la faccio questa via e l’ultima volta l’avevo fatta con l’allievo del corso e invece dopo tre mesi che gli altri si sono pure allenati sul serio mentre io da questa quarantena esco che ho il grado alcolico di gran lunga più confermato di quello tecnico e se cado c’è di buono che forse rimbalzo, guardo la variante duretta in alto e siccome in questo periodo per trovare lungo mi basta l’avvicinamento mi accontento dei primi tiri e la lascio al Pelo, che, per coronare il ritorno sopra il V, tira addirittura fuori le scarpette, che lui usa solo in conclamati giorni di festa nazionale.
I miei affetti stabili sono così, sono instabili. Eppure mi mancava tutto.
Mi mancava il materiale appeso all’imbrago, in ordine, giurare di tenerlo in ordine fino a fine via e non ritrovare più nulla dopo due tiri. Le asole delle corde. Il tintinnio tipico dei moschettoni e dei rinvii, che lo riconoscerei come riconosco il suono della voce delle persone a me care. Parto io o parti tu? I miei sentieri, le mie persone. L’aria, il sudore, il sole. Le pareti, le nuvole, la leggerezza. Il vuoto, le manovre, le soste, la valle lontana, la roccia.
Divertirmi. Ritrovarmi, ritrovarci, abbracciarci.