di Chiara Baù
(pubblicato su imperialbulldog.com il 14 novembre 2020)
Fotografie dell’autrice
Groenlandia orientale. Un gabbiano ritto sulla cima di un iceberg osserva una lingua dell’immenso inlandsis, la massa di ghiaccio continentale che goccia dopo goccia va sciogliendosi sempre più rapidamente. Anni fa Il suo sguardo si perdeva nell’immensità di una distesa di bianco, che sembrava senza fine. Ora il ghiacciaio si è ritirato di alcuni chilometri e numerosi iceberg si staccano dalla calotta polare con una velocità pericolosa. Il rombo dovuto al distacco di masse di ghiaccio risuona nell’atmosfera come un monito severo, un grido di dolore della natura che vede questo habitat frammentarsi in blocchi vaganti simili a disordinati pezzi di un puzzle. Il bianco brillante del ghiaccio è soppiantato dal grigio dei detriti morenici che pian piano emergono in seguito al processo di scioglimento. In parte i detriti proteggono il ghiacciaio come una sorta di leggera pellicola naturale, ma non è sufficiente. Sulle Alpi la situazione è analoga.
Italia,Val Veny. Mi trovo sotto le pendici del Monte Bianco. Sono due notti che continua a nevicare. Come ogni montagna che si rispetti, il Monte Bianco si fa attendere. Finalmente una finestra di bel tempo. Anche l’attesa ha un suo fascino.
Poco distante dall’abitato di Courmayeur una funivia con cabine ruotanti a 360 gradi permette di essere catapultati ai 3466 metri di altitudine di Punta Helbronner, la balconata che ha le sue fondamenta sulla famosa Mer de Glace, il ghiacciaio sul lato nord del massiccio del Monte Bianco. Il re della Montagna, così chiamato da alpinisti di tutto il mondo con la sua cima, la più alta delle Alpi, custodisce coi suoi 4.808,72 metri un regno che pian piano va sgretolandosi, sciogliendosi a causa del riscaldamento globale. Ma oggi è una giornata particolare, i ghiacciai del Monte Bianco tirano un respiro, la neve caduta infonde speranza, il ghiacciaio può continuare a vivere.
Ramponi, piccozza, un bel respiro e mi incammino legata in cordata con una guida alpina per raggiungere il Col d’Entreves, meta dell’escursione in programma. Partendo dal rifugio Torino, dove si trova la stazione d’arrivo della funivia, saliamo al Col Flambeaux a quota 3.407 metri, quindi risaliamo al colle che separa l’Aiguille d’Entrèves dalla Tour Ronde. Un’escursione che si preannuncia spettacolare, attraverso un mare di ghiaccio su cui svettano cime con creste che tracciano un perfetto sky line nel cielo. Non c’è anima viva in giro, il brutto tempo dei giorni scorsi ha scoraggiato e allontanato gli ultimi turisti. Così ho la fortuna di scoprire un ghiacciaio che finalmente si riappropria del suo silenzio dopo un’estate in cui, racconta la guida, è stato preso d’assalto.
L’immacolata distesa di neve che copre il ghiacciaio lascia intravvedere in lontananza qualche piccola fenditura, i crepacci, che ricordano le rughe sul volto di una persona anziana. Il ghiacciaio si rivela uno tra i sistemi naturali più sensibili, trasformandosi continuamente in un importante indicatore ambientale che racconta affascinanti storie di formazione, evoluzione e estinzione. È il risultato di migliaia di anni di storia geologica.
Nevicata dopo nevicata, l’accumulo e il compattamento della neve sugli strati precedenti danno luogo a stratificazioni di ghiaccio in cui vengono intrappolate infinite informazioni sui fenomeni precedenti, dalle variazioni del clima alle attività vulcaniche, dalla circolazione dei venti alla composizione dell’atmosfera. Grazie all’analisi della composizione isotopica delle molecole d’acqua che costituiscono la neve, si può ricostruire la temperatura del passato. Conoscere ciò che è stato in precedenza consente di poter formulare previsioni per il futuro, soprattutto quando si parla di cambiamenti climatici. I ghiacciai in effetti non sono solo una delle più importanti riserve d’acqua dolce del pianeta, ma anche luoghi in cui si sedimenta la memoria del passato.
Solo dando valore e memoria ad ogni singolo evento è possibile ripartire e migliorare una situazione in cui purtroppo per mano dell’uomo tante realtà stanno scomparendo. In Europa, dai primi del ‘900, i ghiacciai delle Alpi hanno perso metà del loro volume con evidente accelerazione del processo a partire dagli anni ‘80 quando si riscontrava una riduzione della superficie di circa il 40%. Ricordare e preservare sono le parole chiave per affrontare il problema.
Ed è proprio dal ghiacciaio del Monte Bianco che è partito un progetto con l’obiettivo di preservare la memoria del clima conservata nei ghiacciai per metterla al sicuro in un caveau situato in Antartide prima che si aggravi ulteriormente il processo di fusione. È questo l’obiettivo del programma che consentirà agli scienziati delle future generazioni di estrapolare informazioni utili per gli studi sul clima. Ice memory è il nome del progetto, cui partecipano diversi Istituti scientifici francesi e italiani. Si trivella la massa gelata estraendo vere e proprie carote di ghiaccio, ovvero cilindri del diametro di 10 cm. La lunghezza dipende dal sito di perforazione. Una volta estratti, i campioni vengono tagliati in spezzoni di un metro per essere poi stoccati in casse di polistirolo. Queste vengono conservate in siti provvisori che mantengono la catena del freddo in attesa di essere trasferite in Antartide dove, in base all’obiettivo del progetto, si intende creare un santuario per archiviare e conservare per gli scienziati delle generazioni future le carote gelate estratte dai ghiacciai in pericolo. Il sito prescelto al Polo Sud è la base Concordia a 3500 metri di quota e a 1500 metri dalla costa dove la temperatura media annua oscilla sui -52 gradi.
Davanti a me non c’è solo un ghiacciaio ma un’immensa biblioteca, dove attingono insegnamenti i glaciologi, i nuovi lettori di questa immensa massa di dati. Preservare questa biblioteca all’aria aperta è un’operazione fondamentale. Il primo carotaggio è stato eseguito al Col du Dome sul monte Bianco, nell’estate del 2016, a 4300 metri di quota. Si estrae la carota dalla superficie fino al letto roccioso su cui poggia il ghiacciaio. Nella scala del tempo, nel caso particolare del Col du Dome, dove notevole è l’accumulo, si può risalire a 200 anni prima. Una macchina del tempo a disposizione.
Tuttora in corso si effettuano interventi di carotaggio nei ghiacciai di tutto il mondo con lo scopo di fornire il maggior numero di informazioni utili per gli studi del futuro.
Affondando lentamente nella neve continuo il cammino in cordata. Il pensiero risale ad altri ghiacciai esplorati in passato, ognuno con un proprio linguaggio. In Himalaya, imponenti e solcati da crepacci strapiombanti, incutono paura. La loro fisionomia si accompagna alle austere asperità di montagne tra le più alte al mondo. In Groenlandia la calotta glaciale rivela un aspetto più sinuoso e degradante che ricalca una conformazione montuosa meno severa. Dopo tre ore di lento cammino sempre rigorosamente legata raggiungo finalmente il col d’Entreves.
Nonostante l’altitudine superiore ai 3000 metri la temperatura è mite. Ansimo solo un po’ col fiato. Il mal di montagna è sempre un’incognita, ma nessun sintomo compare e tutto va per il meglio. Non solo, il ghiacciaio stimola un senso di meraviglia e libertà che solo la natura più selvaggia e incontaminata può dare.
E come per la salvaguardia e la conservazione degli animali a rischio di estinzione si mette in atto qualsiasi azione, per il ghiacciaio l’uomo ha escogitato uno stratagemma che oserei definire casalingo, perché ricorda l’immagine di un papà che mette a letto il figlio malato rimboccandogli le coperte per curarlo. Il principio è più o meno lo stesso. L’uomo ha pensato letteralmente di coprire il ghiacciaio perseguendo il medesimo scopo. Dal 2008 fino ad oggi presso il ghiacciaio del Presena, nel gruppo montuoso della Presanella, accade qualcosa che va in controtendenza, qualcosa che finalmente rende orgoglioso l’uomo per ciò che sta realizzando.
A cavallo tra Trentino e Lombardia, al passo del Tonale, dal 1993 ad oggi il ghiacciaio ha perso più di un terzo del suo volume, ma dal 2008 la perdita è stata mitigata grazie ad un particolare progetto atto a preservare la neve caduta durante l’inverno, che viene coperta con enormi teli geotessili distesi dai gatti delle nevi e poi tesi a mano. Si riduce in tal modo il processo di fusione di due terzi, evitando in parte il ritiro del ghiacciaio. I teli geotessili che misurano 70 metri di lunghezza e 5 di larghezza ricoprono oltre 100mila metri quadrati della superficie del ghiacciaio.
Cuciti e assemblati insieme sul posto, possono garantire che le correnti calde non penetrino al di sotto. Sopra ai teli vengono posizionati sacchi di sabbia che fungono da ancore contro il vento. Grazie a tutta questa attrezzatura è possibile mantenere una condizione termica inferiore, in quanto i teli riflettendo la luce solare riescono a ridurre la temperatura della neve. Lo scioglimento del ghiaccio viene così in parte bloccato. Una corsa contro il tempo.
Mentre la superficie coperta dai teli registra un tasso di assorbimento di energia solare del 36%, la sezione di ghiacciaio sprovvista di teli ne assorbe in media il 57%. Tutto questo anche per il fatto che i teli non sono colorati, ma bianchi per non assorbire il calore dalla luce solare.
Una volta raggiunta la telatura bianca, la luce del sole viene riflessa all’esterno così che risulta minima la quantità di calore assorbita. In natura sembrerebbe una contraddizione la muta bianca degli animali che avviene durante l’inverno, visto il basso assorbimento di calore. In realtà il bianco della muta dell’ermellino, della lepre variabile e della pernice, animali che letteralmente cambiano il colore del pelo, si rivela un’importante strategia per mimetizzarsi, indispensabile per la sopravvivenza.
Da un confronto tra la condizione registrata nel 2008 e quella attuale, risulta che oltre 50 metri di ghiacciaio del Presena sono stati salvati dallo scioglimento, un risultato incoraggiante, che significa una riduzione dell’ablazione del 52%, cioè della fusione che porta all’assottigliamento dei ghiacci. L’operazione di copertura coi teli viene eseguita durante il periodo estivo, quando il ghiacciaio risulta fragile perché soggetto ad un maggior irraggiamento solare. A inizio autunno i teli vengono rimossi in vista della stagione invernale con la riapertura degli impianti sciistici e, non appena la temperatura lo permette, si attua la successiva fase del programma che prevede un incremento della superficie nevosa con l’impiego di cannoni spazzaneve.
Anche quest’anno a fine settembre i tecnici del Consorzio Pontedilegno-Tonale hanno iniziato le attività di rimozione dei teli geotessili e il risultato è incoraggiante: lo strato di ghiaccio salvo dallo scioglimento ha uno spessore che oscilla dai 3 ai 4 metri. Occorrono 6 settimane per coprire la zona prescelta e altre 6 per rimuovere le coperture. Un lavoro lungo e meticoloso, ma doveroso nei confronti di una natura sempre pronta a proteggerci. Una soluzione che visti i risultati promettenti si sta utilizzando anche sul ghiacciaio della Marmolada, in Trentino Alto Adige e in Svizzera sul ghiacciaio del Rodano, uno dei più antichi delle Alpi.
Ogni giorno lo strato di ozono protegge gli esseri umani dalle radiazioni ultraviolette nocive. Ogni giorno le piante e il plancton forniscono l’ossigeno per respirare e ogni giorno è un centimetro di ghiacciaio che fornisce acqua da bere e energia idroelettrica che trasformata illumina le nostre case. Potrebbe essere infinito l’elenco di protezioni che quotidianamente ci da la natura. Ora tocca all’uomo proteggerla, impegnandosi a ridare una seconda vita e spazio al mondo dei ghiacci.
L’escursione sul ghiacciaio è al termine. Mi slego dalla corda che mi unisce alla guida, mentre un silenzio profondo avvolge il massiccio del Monte Bianco e le sue vette.
Con gli occhi pieni di speranza osservo ancora una volta l’immensità del ghiacciaio e spontaneo è l’augurio che gli rivolgo per la notte imminente: good night Mr. Glacier.
Un bell’articolo, che unisce scienza ed emozioni in modo ben bilanciato. Da glaciologo devo però far notare che la copertura dei ghiacciai per rallentarne la fusione, è una pratica che con la sostenibilità e la cura ambientale hanno davvero poco a che fare. L’unico motivo per cui alcuni ghiacciai (o meglio, relitti) sono coperti durante i mesi estivi, è per preservare quel poco di neve e ghiaccio che fa risparmiare ai gestori un po’ di risorse che altrimenti andrebbero investite nell’innevamento artificiale.
Insomma non sono ghiacciai “protetti”, bensì ghiacciai artificiali, tenuti in vita per motivi meramente economici. La scienza è del tutto contraria a questa pratica perché assolutamente insostenibile su grande scala e anzi deleteria. Provate a immaginare la quantità di carburante che bruciano i gatti per sistemare e rimuovere i teli ogni anno… Per non parlare del fatto che dal punto di vista climatico coprire un ghiacciaio è assolutamente inutile, per usare una metafora: è come prolungare di qualche tempo l’agonia di un malato terminale, inevitabilmente destinato alla scomparsa. Sì perché molti ghiacciai alpini ormai non hanno più un bacino di accumulo che li nutre garantendo nuovo ghiaccio, sono relitti climatici che se non sono già estinti lo devono solo all’inerzia, ma non andrà avanti per molto…
Ultimo ma non ultimo: non so se avete mai camminato su uno di questi ghiacciai artificiali, la loro superficie è un immondezzaio e non esagero. Matasse di fibre che inevitabilmente si staccano dai teli formano grovigli ovunque che intrappolano i detriti di plastica e metallo provenienti dall’attrezzatura necessaria per “lavorare” il ghiacciaio. Insomma un panorama davvero desolante, che con la cura della natura non ha nulla a che fare. Anzi, vedo la copertura dei ghiacciai come l’ennesimo affronto che arrechiamo agli ambienti naturali, spinti dall’unico scopo del profitto economico.