di Massimo Manavella
È singolare l’osservazione di un’Aquila dall’alto. Forse non è normale. Ammesso di volerci perdere nel definire il concetto di “normale e anormale”.
Il primo maggio 2020 mi regala questa possibilità: guardare un’Aquila da sopra. Sapendo benissimo di non essere sfuggito alla sua sorveglianza, consapevole, quindi, che lei sa che io sono qui. Probabilmente in questi quarantatré giorni nei quali ci siamo presi, vicendevolmente, le misure lei avrà fatto delle valutazioni, giungendo alle sue conclusioni. Sono stato pesato e sono stato giudicato innocuo. Quindi è possibile darmi le spalle, senza timore di colpi a tradimento.
Oltre alla singolarità del mio punto di osservazione, devo dire che è buffa un’Aquila quando cammina. Il suo passo è goffo come quello di un uomo in riabilitazione. Quando eri lì a percorrere avanti e indietro il corridoio dell’ospedale, cercando di darti un contegno: quasi infastidito, perché avevi in mente, proprio in quel momento, l’alpinista che eri e ora è evidente che non ne sei nemmeno l’ombra. Può darsi che quei pensieri facessero semplicemente parte della tua convinzione personale, ma che, alla fine, non rispecchiassero affatto la realtà. Sia come sia, eri lì a salire e scendere tre piani di scale con le stampelle, con un dolore tremendo ma pensando che fosse l’unica cosa da fare e ti pareva impossibile, perché il tuo orologio, prima di allora, ti aveva sempre confermato ogni volta che arrivavi, che in un’ora e trentatré minuti eri salito e sceso dalla Cristalliera. Mentre in quel momento ci stavi mettendo venticinque minuti a fare tre piani di scale, con le infermiere che smontando dal turno ti guardavano con sufficienza distratta, mentre scendevano di corsa lungo le scale rispondendo al cellulare. Eri goffo, quasi patetico, mentre arrancavi sugli scalini, come quell’aquila che, oggi, osservi camminare in riva al lago.
E poi, la domanda è “… ma perché deve passeggiare, un’aquila, in riva ad un lago piccolo e privo d’importanza?”. Poi, con uno scatto rapido e fulmineo: ecco il rapace! Con quello scatto, il suo becco ghermisce qualcosa nell’erba appena verde, anzi ancora più marrone che verde. La testa si rialza lentamente e qualcosa di elastico si allunga in modo inverosimile. Con le unghie di una delle due zampe, l’Aquila trattiene a terra il corpo di una Rana e tirando su la testa, distende di una ventina di centimetri quella carne elastica che mi auguro sia, ormai, priva di vita. Il suo pasto è una delle Rane Temporarie che sono salite una ventina di giorni fa, come ogni anno, per l’accoppiamento, la deposizione delle uova, nel piccolo lago; poi i girini, curiosi e agitati, che percorrono, in nuvole nere, alla velocità del vento le acque limpide da una sponda all’altra. Tutto questo vortice di vita, prima che arrivi la metà di giugno, quando saranno piccole rane pure loro. Prima che salgano pecore e mucche dal fondovalle e dalla pianura, uscite il giorno prima dalle stalle, dove hanno trascorso l’inverno, totalmente ignare che tutto ciò sia già avvenuto prima del loro arrivo. Talmente all’oscuro di tutto, da essere convinte che prima del loro ingresso dondolante e per nulla agile, scandito dallo scampanio dei loro roudoun, nulla di rilevante possa essere capitato a partire dal giorno della loro partenza, a fine settembre dell’anno prima.
Le Rane Temporarie, nere, lasciano stupiti quando le vediamo arrivare a balzi sulla neve, bianca. Fa venire freddo, mentre le si osserva salire agili e disinvolte, come se fosse estate. E adesso che intorno al lago di neve non ce n’è, stupisce capire che possano essere considerate cibo adeguato da un’Aquila: fa strano non vederla piombare addosso, col suo volo in picchiata, ad una delle Marmotte che fischiano nella conca. Mi pare poco regale mangiarsi una Rana, che ritengo un pasto piuttosto plebeo. Poi anche il metodo di cattura mi sembra poco “aquilesco”: un passeggiare goffo nell’erba umida sui bordi del lago, in attesa di una rana sprovveduta. Quasi da pezzente affamato, disposto a tutto pur di mangiare.
Sarà colpa di Walt Disney, questo mio immaginario distorto e sbagliato sul mondo animale. Oppure colpa degli stendardi dei centurioni e degli imperatori romani. E, forse ancora, colpa dei nomi dei capi tribù pellerossa nativi dell’America statunitense. Un po’ colpa di tutta questa zainata di immagini e nozioni che mi porto appresso, che fin dall’infanzia ho provveduto a rimpinguare con ogni sorta di piccolo dettaglio. Senza rendermi conto che poi tutto è stato rielaborato dal mio cervello, fino a diventare l’impalcatura sulla quale si aggrappano i miei pensieri e, ancor di più, le mie convinzioni.
La realtà reale è che un’Aquila, come qualsiasi altro essere vivente, fa quel che può. Quando ha fame, si aggiusta. E, soprattutto, si accontenta. Può anche darsi che un pensiero le passi per la testa e che, per un attimo, si senta un po’ ferita nell’orgoglio, realizzando, nel preciso istante in cui si ritrova un pezzetto di rana nera nel becco, di non essere nemmeno l’ombra del rapace che era. Può darsi, certo, ma anche lei fa quel che può: arranca e fatica quando è necessario.
Poi in un attimo la vedo allargare le ali e alzarsi con una leggerezza che, un poco prima, non pareva essere di sua appartenenza. E allora: ecco l’Aquila! Un volteggiare lento e circolare, le ali distese in tutta la loro larghezza. Le penne leggere del culmine d’ala vibrano nell’aria e lei vola, lì sotto, come un aliante sul lago; mi pare che l’acqua limpida e piatta si increspi un po’, mentre lei la sorvola, creando una serie infinita di piccole onde: forse, però, è solo un’illusione. I muscoli della schiena all’attaccatura delle ali, nascosti dalle piume, si contraggono e si distendono, dimostrando la struttura robusta e perfetta di questo splendido uccello. Osservandola volare beatamente e senza fatica, sono due i pensieri che mi passano per la mente.
Il primo è rapido e banale “… come mi piacerebbe volare…”. Il secondo mi conduce in visita a Baudelaire, per raccontargli tutto ciò che ho visto dell’Aquila e dirgli che oggi, il primo di maggio 2020, ho capito ciò che provava lui mentre osservava quell’Albatro, sulla nave dei pescatori.
Un cambio rapido. Il volteggio è interrotto in malo modo da un corvo, che arriva, lui sì in picchiata, a beccare la testa dell’Aquila. Un colpo forte sulla nuca che, mi permetto di supporre, arrivi del tutto inatteso, alla “traditora” mi viene da pensare, mentre sono aggrappato all’impalcatura dei miei convincimenti umani. L’Aquila svicola di fianco, ma non contrattacca. Il suo volteggiare si fa più rapido e, soprattutto, si impenna, sempre con eleganza e senza fretta eccessiva. Il Corvo prosegue nel suo proposito combattivo, continua a farsi sotto, a dare addosso all’Aquila. Il loro volare li porta in alto, adesso sono sopra il tetto e continuano ad alzarsi, il Corvo comincia a rimanere un po’ indietro mentre l’Aquila prosegue il suo volteggio, suadente e sicuro allo stesso tempo. Non ritengo di essere offensivo nel pensare che l’Aquila stia fuggendo, o meglio, questo pensiero offende e dà un colpo ulteriore all’impalcatura delle mie convinzioni, delle mie proiezioni umane sul mondo animale. Li guardo salire sempre più in alto e prendo consapevolezza della mia ignoranza. Poi il Corvo resta sempre più a distanza e io comprendo: l’altezza è la chiave! L’Aquila sale e continuerà fino a quando il Corvo non potrà più farlo. Adesso lei è poco più di un punto, anzi poco più di una virgola, mentre il corvo inizia una lenta discesa, fino a venirsi a posare su una roccia di fianco al lago.
Sperando di non cadere per l’ennesima volta in opinioni che sono valide solo per me, in quanto ominide, ritengo di aver compreso che il pascolo intorno al lago sia di pertinenza dei corvi. L’Aquila se ne arriva in questo periodo piuttosto spesso, ma sa bene di essere in un ambito che non è il suo. Quindi il Corvo si premura di ricordarle quelle che sono le competenze di ognuno.
L’Aquila continua a volteggiare altissima come siamo, tutti, abituati a vederla. A questa distanza nessuno dei dettagli che ho raccontato fino a qui, è visibile: è più semplice vedere la sua regale intoccabilità. Le opinioni di sempre sul suo conto possono riprendere il loro posto, sgomberando i dubbi e le perplessità.
Mi torna alla mente una leggenda delle valli piemontesi che, da bimbo, mio nonno sovente raccontava. Lo scricciolo in piemontese si chiama Cit Ré e in occitano si chiama Pzit Rei. In Piemonte ci sono ben 5 lingue regionali, ma questo è un discorso da fare un’altra volta. Entrambi i nomi hanno il medesimo significato: Piccolo Re. La ragione per la quale lo scricciolo, in terra sabauda, viene chiamato piccolo re è dovuto ad una riunione tra volatili. La classica discussione dove ognuno dice la sua e pensa di saperne un pezzo in più. Il motivo di questo confronto tanto animato era molto semplice e anche noi umani sappiamo bene come si svolgono queste tavole rotonde, conoscendo perfettamente il fervore che si eleva discutendo. Tutto ciò per stabilire, una volta per tutte, chi fosse il Re del Cielo: il solo, unico ed indiscusso Re del Popolo Volante. Per dissolvere ogni dubbio e concludere definitivamente la discussione, l’Aquila avanza la sua proposta: “Visto che siamo il Popolo del Cielo, diventerà Re di tutti colui che volerà più in alto!”.
Tutti in silenzio. In fondo, per gli altri uccelli l’Aquila ricopriva già questo ruolo, deteneva, insomma, lo scettro e la corona in maniera non ufficiale, quasi una sorta di rango regale abusivo, ma tacitamente riconosciuto. E, forse, l’Aquila si faceva forza proprio di questo riconoscimento, pur se non ufficiale. “Dunque? Si facciano avanti quelli che vogliono mettersi alla prova…” Tutti in silenzio. Nessuno pensa minimamente di fare un passo in avanti: quando ci si ingaggia in singolar tenzone, va bene la pulsione della nobiltà d’ideale, ma serve anche avere un minimo di probabilità di vittoria. Altrimenti è meglio lasciar perdere. Nel silenzio assoluto, si fa largo tra le zampe degli altri, tutti più grandi e grossi, lo Scricciolo: “Io ci sto!” dice. L’Aquila rimane interdetta e fatica, non poco, a trattenere una grassa risata di scherno, ma il momento è solenne e ne va del suo prestigio e della sua dignità di rango. Una volta per tutte si rende necessario sgomberare ogni, seppur piccolo, dubbio su un qualsiasi abusivismo di trono. “Bene!” dice l’Aquila, “… se nessun altro ritiene di doversi fare avanti, significa che la questione è fra noi due soli: Scricciolo e Aquila. Tutti gli altri riconoscono che siamo gli unici due uccelli che possono ambire alla corona…”. In realtà alla sicurezza spavalda dell’Aquila, fa da contraltare una dubbiosa preoccupazione dello Scricciolo.
Ma in ogni caso, si dà inizio alla singolar tenzone: i Pavoni aprono le loro ruote e danno fiato ai loro versi, che fungono da vere e proprie trombe celebrative. Aquila e Scricciolo si preparano e spiccano il volo. L’Aquila, come di sua consuetudine, spalanca le ali e si alza lentamente, con la sua lentezza nobiliare, confortata dalla certezza, serbata in silenzio, di aver già lo scettro negli artigli. Lo Scricciolo parte con quel suo volo agitato e a scatti, quasi, nervosi come di sua consuetudine ma, avendo la certezza, pure lui, di non essere in grado di volare più in alto dell’avversario. Questo dubbio, ad ogni modo, gli permette di valutare l’opportunità che gli offre il caso. Si trovano vicini, l’Aquila appena sopra. Lo Scricciolo, con il suo volo a scatti, sempre, nervosi, fa un balzo e si aggrappa alle piume del ventre dell’altro pretendente al trono. L’Aquila prosegue nel suo volteggiare, beandosi, come in ogni volo, della sensazione di spazio libero che gradualmente la allontana dal suolo. In questo suo nirvana interiore non si cura affatto dello Scricciolo, anzi, non lo vede più e questo le conferma solo la sua profonda convinzione. Quindi vola a cerchi sempre più ampi e sempre più alti, notando che gli altri sono tutti laggiù con gli occhi rivolti al cielo e sono sempre più piccolini. C’è solamente un Gipeto che si è andato a posare sulla croce della cima più alta, il Monviso. È salito fin lì perché vuole essere certo di vedere da una distanza ragionevole, quale dei due contendenti volerà più su. L’Aquila osserva il controllore appollaiato sulla croce, mentre passa oltre. Poi ritenendo di essere a un’altezza sufficiente per fugare ogni dubbio, non vedendo da nessuna parte lo Scricciolo, decide di non salire oltre: tanto più che le cominciava a mancare il fiato per la stanchezza. Intuendo le intenzioni dell’avversario, lo Scricciolo salta fuori dal fianco sinistro dell’Aquila e con il suo volo a scatti, un po’, nervosi si porta al di sopra dell’Aquila con colpi lunghi e ben distesi, compatibilmente con la piccolezza delle sue ali: si stacca con decisone verso l’alto, salendo e salendo senza guardare giù per paura, perché mai in vita sua era salito tanto in alto. L’Aquila non crede ai suoi occhi ma, soprattutto, si rende conto di non avere più fiato e forza a disposizione per provare a raggiungerlo. Lo Scricciolo è felice ma purtroppo, in quel momento, è la paura per l’altezza a prevalere. Il Gipeto osserva tutta la scena ed è il testimone unico e inoppugnabile dell’imprevisto e imprevedibile risultato. Lo Scricciolo inizia la discesa, ma la paura per l’altezza a cui si trova lo sovrasta ed i sensi lo abbandonano: la sua discesa diventa un avvitamento vorticoso sempre più forte. L’Aquila capisce chiaramente la situazione e con uno dei suoi larghi cerchi si porta sotto alla traiettoria di discesa del vincitore che, a quel punto, era diventata una caduta a vortice in picchiata. Lo Scricciolo atterra esattamente tra l’attaccamento delle due ali dell’Aquila, il tonfo è attutito dalle piume morbide che avvolgono i muscoli del rapace. Il volo discendente di Gipeto e Aquila prosegue fino a riportarli a terra, esattamente dentro il cerchio che i Pavoni avevano realizzato con le loro ruote. Lo Scricciolo è ancora svenuto e saranno Aquila e Gipeto a raccontare della sua vittoria. Nel generale sbigottimento, una Rondine propone che, da quel giorno, il nome dello Scricciolo muterà in Piccolo Re. In mezzo a tutto questo trambusto di voci e risate, il vincitore si sveglia senza riuscire, nemmeno tanto bene, a capire cosa fosse successo… Ma non gli ci vollero troppi giorni per abituarsi ad essere salutato, da tutto il Popolo Volante, con un Bon Dì Cit Ré!… oppure con un Boun Journ Pzit Rei!… Buon Giorno Piccolo Re!…
Mentre questa vecchia storia mi passa via dalla mente arriva un volo di Gracchi, che col loro verso acuto ed insistente mi riportano con lo sguardo sul lago. In mezzo a questo stormo di uccelli neri, che si posa sul bordo dell’acqua, ne vedo uno con il becco rosato, quasi color carne di salmone. Per la prima volta vedo da, relativamente, poco distante un Gracchio Corallino. Tutti lì, pur con il borbottante lamentarsi del Corvo, per imbandire un pranzo a base di carne finissima, quella delle Rane Temporarie.
Il primo giorno di maggio segna un cambiamento: a 2023 metri di quota si comincia a sentir profumo di primavera. Anche se sovente, quasi tutti gli anni, un po’ di neve cade in questo giorno. Ma l’inverno adesso è proprio finito, cadesse ben un metro di neve sappiamo che durerà poco tempo. Lo Scricciolo ce lo viene a dire, sempre, se sta per nevicare: quando lo vediamo gironzolare e attaccarsi alle porte e alle finestre insistendo sulle maniglie come se volesse entrare, in quel preciso istante capiamo che, nel giro di poco, inizierà a nevicare.