Alla scoperta romantica della montagna, e in generale della natura selvaggia, segue nella cultura europea l’espressione della bellezza in arte e letteratura. Anche la bellezza diventa materia e personaggio letterario per richiamare all’attenzione i sentimenti che la contemplazione provoca nell’anima degli uomini. Ovviamente si possono raccontare anche altre storie più o meno reali a vantaggio dei lettori, ma l’educazione estetica dovrebbe essere prioritaria nelle scelte degli scrittori, soprattutto nell’epoca in cui la natura viene insidiata e distrutta (Bruno Telleschi).
L’ombra del Sole
(giù nella valle)
di Bruno Telleschi
Ho cercato di esprimere la mia posizione, ma soprattutto ho voluto suggerire un percorso di lettura con le necessarie citazioni, al riguardo di tre opere di Paolo Cognetti. Nei romanzi della montagna questo autore passa dalla celebrazione della bellezza naturale all’espressione del disagio sociale. Agli esordi l’urgenza della bellezza impone il paesaggio come protagonista del racconto, ma alla fine i problemi sociali dei personaggi invadono il campo narrativo senza offrire una reale alternativa alla miseria della vita.
Se nelle Otto montagne la morte di Bruno apre a Pietro le porte del paradiso, in Giù nella valle, ultima fatica di Cognetti, il sacrificio di Alfredo non è sufficiente perché Luigi possa ristabilire nella valle il primato della bellezza.
Al personaggio poetico del milanese Pietro che si trasferisce in montagna in cerca della luce subentra il personaggio prosastico della milanese Elisabetta, la moglie di Luigi, che trova il buio nella trattoria del paese. Da una parte le montagne, lassù sulle montagne, dall’altra la valle, laggiù nella valle: l’inversione topografica rende superfluo il paesaggio e la rappresentazione della bellezza. Al rafforzamento realistico della narrazione corrisponde la riduzione dell’impegno stilistico che alla bellezza delle parole sostituisce la povertà dei fatti.
Il miracolo della Grigna
Nelle Otto montagne di Paolo Cognetti le montagne sono due: la montagna del milanese Pietro Guasti e la montagna del valligiano Bruno Guglielmina. La montagna della bellezza e la montagna del lavoro in opposizione drammatica tra loro. Nell’estate ai piedi del Monte Rosa il milanese Pietro Guasti conosce la bellezza della montagna dove il montanaro Bruno Guglielmina subisce invece la fatica del lavoro: restaura un alpeggio diroccato, compra il bestiame e produce formaggio. Ma l’azienda fallisce e Bruno muore nella tormenta. Il sogno di Pietro comincia a Milano:
«Poi in certi giorni di vento, in autunno o in primavera, in fondo ai viali di Milano comparivano le montagne. Succedeva dopo una curva, sopra un cavalcavia, all’improvviso, e agli occhi dei miei genitori, senza bisogno che uno indicasse all’altra, correvano subito lì. Le cime erano bianche, il cielo insolitamente azzurro, una sensazione di miracolo. Quaggiù da noi c’erano le fabbriche in tumulto, le case popolari sovraffollate, gli scontri di piazza, i bambini maltrattati, le ragazze madri; lassù la neve. Mia madre allora chiedeva che montagne erano, e mio padre si guardava come orientando la bussola nella geografia urbana. Questo cos’è, viale Monza, viale Zara? Allora è la Grigna, diceva, dopo averci pensato un po’ su. Sì, mi sa che è proprio lei. Io mi ricordavo bene la storia: la Grigna era una guerriera bellissima e crudele, faceva uccidere a colpi di frecce i cavalieri che salivano a dichiararle amore, così Dio l’aveva punita trasformandola in montagna. E adesso era lì, nel parabrezza, a lasciarsi ammirare da noi tre, ognuno con un pensiero diverso e muto. Poi il semaforo scattava, un pedone attraversava di corsa, qualcuno da dietro suonava il clacson, mio padre lo mandava a quel paese e ingranava la marcia con furia, accelerando via da quel momento di grazia (Paolo Cognetti, Le otto montagne, Torino, Einaudi, 2016, pp. 7-8)».
I colori della parete nord
Un viaggio in Nepal senza mai arrivare in cima per non profanare le montagne con lo spirito della conquista: «i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi. Trovavo della violenza nel primo gesto, della gentilezza nel secondo; un desiderio di conquista contro uno di comprensione» (p. 21). Il viaggio diventa un pellegrinaggio per contemplare la bellezza del paesaggio:
«Forse Lakba era uno sciamano, oppure a osservare lui mi distrassi dall’ascolto di me, comunque il demone imprevedibilmente mi lasciò in pace, e nel pomeriggio arrivai in buona forma a 4700 metri, più in alto di qualunque vetta raggiunta in vita mia. Lassù quella gola accidentata si aprì in una conca arida, sassosa, dove rivoli d’acqua si univano a formare il torrente che avevamo risalito per ore. Un ripido pendio terminale portava al passo di Kang, da qualche parte sopra la nostra testa, e a voltarsi di spalle si veniva investiti dal gelo dell’immensa parete nord del Kanjiroba: lame di bianco lucenti, seraccate dai colori di nuvole temporalesche, altri ghiacciai sospesi, Himalaya (che significa appunto dimora delle nevi) (Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Torino, Einaudi, 2018, p. 47)».
La battaglia degli alberi
Un anno dopo la morte del padre Alfredo Fredo Balma, boscaiolo in Canada, ritorna in Valsesia per dividere l’eredità della casa con il fratello Luigi Balma, guardia forestale. Anche in Valsesia, come nella West Coast di Raymond Carver o nel Nebraska di Bruce Springsteen, vivono disgraziati ubriachi e assassini che il fascino del tramonto (pp. 19-20: «Dopo il ponte i fianchi della valle si fecero più severi. L’autunno aveva ormai perso ogni colore e adesso nelle faggete, nei castagneti, nei querceti le foglie secche si accumulavano al suolo. Alzò gli occhi da quegli scheletri di boschi e osservò le creste arrossate dei tremila metri. Un bel tramonto, anche se in basso non se ne sarebbe accorto nessuno. Per l’inversione termica, nel fondovalle il fumo dei camini galleggiava tra i capannoni, l’umidità rendeva viscido l’asfalto e appannava il parabrezza, e lassù le pietraie intiepidivano al sole») né la bellezza della valle (pp. 74-75: «In quindici anni che sta con Luigi, di cose come questa ne imparate diverse. Eccone un’altra: la valle ha un lato al sole e un lato all’ombra. Sul lato al sole ci sono i campi, sul lato all’ombra i boschi. All’ombra gli alberi ingialliscono più presto, in autunno, e la neve resta più a lungo, in primavera, quando al sole un verde precoce fa già sperare che l’inverno sia finito. Ci sono gli animali del sole e quelli dell’ombra: domestici da una parte, selvatici dall’altra. Ma i torrenti che scendono dall’uno e dall’altro lato confluiscono tutti nello stesso fiume, dove non li puoi più distinguere né separare») possono riscattare o consolare: Fredo, il fratello cattivo, è destinato a soccombere nelle difficoltà della vita. Al contrario Luigi, il fratello buono che sogna di ripopolare il borgo semiabbandonato di Fontana Fredda, lotta insieme con gli alberi sul campo dell’onore (p. 109: «Ma io, seppur ignorato, / perché a quel tempo non ero in questa forma, / ho combattuto, o alberi, tra le vostre schiere / sul campo di Fontana Fredda») per impedire la speculazione turistica che vuole trasformare Fontana Fredda in circo sciistico alla maniera di Cervinia.
Alla parte sociale dedicata alla scoperta degli ubriachi e assassini in Valsesia e dunque in prosa, come è reale la vita, segue una parte finale con la battaglia degli alberi e dunque in versi, come sono poetici gli ideali. Tutti gli alberi della valle, il salice, il sorbo dell’uccellatore, la rosa canina, la robusta quercia, l’agile agrifoglio, il biancospino, la furibonda ortica, il rabarbaro, il selvaggio abete, lo spietato frassino, la nobile betulla, il mirtillo, la genziana, la cortese felce, l’erica, il pino odoroso, il valente ginepro, l’umile mugo, l’uva orsina, il sambuco lento, il rododendro, il lampone, il rovere, la roverella, l’edera, il furioso acero, l’animoso castagno, il coraggioso faggio, il carpino, l’epilobio saccheggiatore, il larice, il cirmolo, il benedetto maggiociondolo combattono una disperata battaglia per impedire la devastazione del paesaggio:
«Prima di essere schiantato / il castagno dai dolci frutti / provocò grande scompiglio / conquisto fama del più animoso. // Il faggio colpì con ardore. / Il carpino fu sfrondato nella lotta. / L’epilobio saccheggiatore fu sparso ovunque nel vento. // Il larice alzò il suo urlo: / il cielo e la terra tremarono. / I rami dei freschi germogli / si conficcarono al suolo. // Il cirmolo fu l’ultimo a cadere. / Il suo attacco causò grande terrore. / Fu respinto, respinse, / e inferse grandi colpi (Paolo Cognetti, Giù nella valle, Torino, Einaudi, 2023, pp. 107-108)».
Le polemiche su Giù nella valle
a cura della Redazione
A fine novembre 2023 è stata polemica per alcune frasi inserite nell’ultimo romanzo di Cognetti.
La Valsesia, territorio montano della provincia di Vercelli, viene definita nel libro una terra dove “la pioggia sembra non fermarsi mai, e gli uomini lavorano duro, fumano come se non ci fosse un domani e prima di tornare a casa passano dall’osteria a ubriacarsi.
Le donne li attendono con pazienza, mandano avanti la casa, sopportano le brutalità e gli eccessi dei mariti“.
Parole offensive secondo l’Unione dei Comuni della Valsesia, “che denotano – spiega il presidente Francesco Pietrasanta – un’evidente scarsa conoscenza della nostra realtà, usata per le sue esigenze narrative senza alcun rispetto per la storia di questo territorio e dei suoi abitanti. Fa male, e fa molto arrabbiare, leggere parole così sprezzanti.
L’autore infierisce, senza farsi scrupoli, contro un territorio che storicamente si distingue per la fierezza e l’operosità della sua gente e per la bellezza della sua natura incontaminata. Lo invito in Valsesia, che evidentemente non conosce“.
Cognetti, intervenendo nella trasmissione radiofonica Deejay Chiama Italia con Linus e Nicola Savino, descrive le valli alle pendici del Monte Rosa come un luogo “in cui piove sempre, una valle più sporca e industrializzata rispetto alla più luminosa Val d’Ayas. Quasi una periferia urbana“.
In una nota Roberto Colombero, presidente dell’Uncem del Piemonte e consigliere comunale di Canosio, e Marco Bussone, presidente nazionale dell’Uncem, scrivono: “Servono coerenza e serietà nei ragionamenti. Chi ama la montagna, tutta, sta in silenzio di fronte alle incertezze, alle difficoltà, alle solitudini. Ci sono, fanno parte della vita e della vitalità dei territori. Chi ama la montagna entra in punta di piedi, sceglie il dialogo, la relazione. Sceglie di scoprirla a poco a poco, con rispetto e voglia di approfondire, partire dalla gente, dai mestieri, dalle storie, dalla semplicità. Solo una persona poco intelligente potrebbe schernire, deridere, attaccare un territorio, chi lo vive, chi lo genera, chi fa impresa, la sua storia, la cultura e le comunità“.
Bussone e Colombero attaccano poi le dichiarazioni fatte durante l’intervista a Radio Deejay in cui l’autore presentava il libro e parlano di “parole incredibili, che lasciano senza parole noi, i sindaci, le comunità. Di certo Cognetti non ama la montagna, i territori, le comunità. Chieda scusa alla montagna. Alla montagna italiana, non solo alla Valsesia”.
Cognetti risponde definendo questa situazione «paradossale».
«Scuse? Ma io non ho offeso proprio nessuno, se non si può neppure fare dell’ironia. Io ridevo insieme a Linus e Savino, si scherzava».
E poi: «Non ho bisogno di nessun invito di un sindaco o di chiunque altro per andare dove mi piace andare, cioè in Valsesia. Volevo scrivere un noir e volevo ambientarlo in montagna. Ho scelto la vallata della Sesia perché nella parte meno montana è un po’ rovinata, e un po’ industriale. Avevo necessità di un ambiente meno solare. Ho scritto di due fratelli, di uno in divisa e l’altro tornato dal Canada, beone e violento, e di un’atmosfera che è un cliché del noir. Quale offesa? Ricordo che nella letteratura Milano, fin dai tempi della peste manzoniana, è descritta come un postaccio tremendo. Io stesso ne parlo male, ma il sindaco non si è mai sentito offeso».
Cognetti aggiunge: «Per indicare un’atmosfera alla Los Angeles di Blade Runner e per descrivere la negatività dei personaggi, omicidi e altro, uno scrittore dovrebbe inventarsi un posto che non esiste? Parlando di libri ambientati in montagna, penso a quelli di Antonio Manzini sul vicequestore Schiavone trasferito da Roma ad Aosta. Nessuno mi pare lo abbia accusato di alcunché, anche se Aosta non ne esce bene, eppure la città quanta promozione ha avuto grazie a quei gialli diventati serie televisive? E il film sul mio Le otto montagne, costato otto milioni, quanta ricaduta ha avuto sulla vallata di Ayas e sulla Valle d’Aosta? Se Giù nella Valle, come è possibile, diventerà un film che cosa porterà in Valsesia?».
A nostro parere, scegliere un qualunque luogo di montagna o di pianura per ambientare la trama di un romanzo non dovrebbe costituire problema alcuno per l’autore, libero di scrivere ciò che vuole fino a che non fa nomi e cognomi reali e viventi. Se la Valsesia è stata un po’ rovinata dall’industria neppure la Val d’Ayas si può definire inalterata, visto che il turismo ne ha stravolto i connotati e rischia di ucciderla definitivamente con iniziative tipo quella del Vallone delle Cime Bianche. Quanto al maggiore o minore alcolismo o tabagismo, prima di litigare servirebbero statistiche e dati precisi propri di un reportage, come pure al riguardo di remissività della figura femminile o sulla piovosità.
Dobbiamo prendere atto che viviamo ormai in una società di “mai contenti”, pronti alla protesta e alla polemica aprioristica su ogni risvolto della vita. In passato, in particolare di fronte alle Otto Montagne, i detrattori di Cognetti lo hanno accusato di scrivere “cognettate”, cioè dei peana melensi sui buoni sentimenti che alla fine vincono sulla spietata aridità della vita. Ora, che Cognetti ha provato a cambiare registro, gli piovono addosso (in genere da soggetti diversi rispetto ai primi) altre critiche, diverse ma altrettanto salaci.
I libri di Cognetti, come tutti i libri di montagna, vanno letti dagli appassionati, anche da quelli che NON si riconoscono, di volta in volta, nelle tesi, nelle ambientazioni, nei personaggi raccontati.
Ai lettori dico: troppo comodo pretendere che un autore produca tutte le sue opere con caratteristiche tali da far sempre felici TUTTI i lettori. Invece agli autori ricordo che è fisiologico che vi sia una parte del pubblico che “fischia” le opere prodotte, per cui non se ne debbono adontare.
Quando un testo o una canzone o un film fanno felici TUTTI, significa che il loro contenuto è rimasto in superficie. Viceversa i contenuti “profondi” (e quelli di Cognetti in genere lo sono) comportano una inevitabili presa di posizione, che sarà esaltata da chi la condivide e, all’opposto, osteggiata da chi ha un’altra idea sul piano esistenziale. Tutto ciò si concretizza a prescindere dalla qualità della singola opera e addirittura dalla personalità dell’autore stesso. Si tratta si situazione inevitabili, fanno parte della vita. Piena libertà di critica, ma non aprioristica: prima leggere (e magari rileggere) i testi e poi esprimersi. L’attuale società frenetica spinge la gente a polemizzare direttamente, spesso senza aver neppure letto i testi.
Per le polemiche sull’ambiente suggerisco un confronto con L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio che nell’idillio della montagna abruzzese introduce il trauma della malvagità. Come Cognetti, ma con una differenza importante: lo stupratore e assassino è però un migrante clandestino. In questo caso è facile comprendere che il male non ha suscitato nei lettori alcuna indignazione, come se gli altri o il prossimo non fossero un problema comune.
Suggerimento importante quello del libro “abruzzese”, non l’ho letto e me lo procurerò, grazie per lo spunto. In effetti le critiche al male che “viene da fuor” sono più facilmente accettate/condivise rispetto a quelle verso il male che nasce “dentro alle nostre terre”. Io per primo sono condizionato da valutazioni di questo tipo. Però occorre che tutti leggano tutto: spesso mi accorgo (non è il caso dell’autore di questo articolo, ovviamente) che si “spara” addosso agli avversari politici o ideologici solo perché sono avversari. A prescindere, direbbe Totò. Invece occorre paradossalmente leggere molto di più i testi degli avversari che quelli della nostra parte. Poi li si può criticare, anche nei contenuti ideologici, ma solo dopo aver preso coscienza dei loro messaggi.
Non condivido appieno la lettura proposta di Cognetti e mi scuso per l’ardire del mio intervento qui. Non la condivido per due ragioni: innanzitutto Cognetti racconta una montagna vera. Se ne “Le otto montagne” ci restituisce un ambiente purificato dalla retorica (“Siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente“), in “Giù nella valle” porta lo sguardo su temi reali e brucianti del paesaggio umano. Non c’è affatto solo il “disagio sociale”: ci sono l’equilibrio difficile fra le sacre istanze di tutela ambientale e il legittimo diritto a sviluppare attività redditizie, le difficoltà legate alla viabilità, la montagna “dei vecchi” e quella “dei giovani”, le dinamiche di attrazione-rifiuto fra la gente di montagna e i turisti… solo per fare qualche esempio.
In secondo luogo perché Cognetti è uno scrittore, non il portabandiera di una visione. Come scrittore vero, propone temi universali e credo che questi siano la vera potenza dei suoi libri: uno su tutti, il dilemma tra l’andarsene (da un luogo, dal passato, dalle radici, da, da…) ed il rimanere. Ma, anche questo, è solo un esempio.
Da montanara, ringrazio Cognetti per l’onestà con cui la montagna vive nei suoi romanzi.
Grazie Sandro.
Grazie infinite Bruno.
Grazie Carlo, grazie Paola.
Paolo
Leggersi…Passavano di là di Erminio Ferrari
Confesso che provo difficoltà a seguire il filo logico di Bruno Telleschi e non trovo di facile interpretazione il suo articolo. Non ho compreso, prima fra tutte, l’inversione topografica a cui fa riferimento, per esempio.
Non ho letto l’ultima opera di Paolo Cognetti e non posso restituire una valutazione, ma ritengo che così come un autore possa scrivere quel che gli pare, non solo dovrà attendersi un confronto con gli attori – magari preparandosi e preparandoli anzitempo – ma che anche le entità coinvolte abbiano pari libertà di esprimere i loro sentimenti.
Buongiorno Grazia, io non mi confronterò mai con i sindaci leghisti del vercellese: da quelle parti girano armati. Grazie, buona serata.
Buongiorno Paolo,
ti ringrazio per aver preso il tempo per commentare i miei pensieri.
Capisco, quindi, che il confronto non sia semplice e neppure probabile.
Non so se potrò leggere il tuo libro, non amando i noir, ma ti faccio comunque i miei complimenti per la nuova pubblicazione.
Ho letto il libro ed il “grigiore”del fondo valle è un po’ quello di tanti luoghi. Il sole, quando, c’è, fa risplendere solo le vette. Ingredienti per piacere sono il fratello guardia forestale. Ogni impiegato cittadino appassionato di montagna ha sognato, almeno una volta, di fare quel mestiere. C’è la speranza di migliorare l’economia locale se verrà realizzato l’impianto di risalita. Per questo il fratello “buono” cerca di estorcere la quota di proprietà di una baita al fratello “scavezzacollo”. Da manuale l’inseguimento tra i due ove spunta (dal fienile?) una moto da trial di una marca in voga negli anni 80 . In quegli anni, chi bazzicava i monti, a volte possedeva quel tipo di moto.
Un ritorno nostalgico.
C’è, infine, la figura della moglie del fratello “buono” trapiantata dalla città e forse, non ancora del tutto uscita dal ruolo di “forestiera”.
Sull’abitudine del bere non mi pronuncio . Forse è un “sedativo”alla noia di vivere in fondo alla valle. In città, probabilmente i “diversivi”sono altri e non meno dannosi.
Un libro, nel complesso, interessante che si legge tutto d’un fiato.
Caro Critico, credo sappiano tutti che gli alcolici (per sballarsi) sono molto più diffusi nelle città che al di fuori, dove si aggiungono anche altri ingredienti per cercare evasione. E il grigiore, nella mia visione ed esperienza, è più tipico laddove dilagano cemento e fabbriche.