I cavalieri testardi

L’apertura di Cavalier Sans Tête, sulla parete ovest dell’Hungchi da parte di Charles Dubouloz e Symon Welfringer del team Millet, è diventata un corto in collaborazione con il brand francese.

di Benedetta Bruni

La montagna, soprattutto quando si superano certe altitudini, richiede sangue freddo e mente lucida, attenta, calcolatrice. Anche quando il piano iniziale
non va come previsto, il tempo cambia, o ancora quando uno dei soci si ammala ed è costretto a fermarsi al campo base. Cosa resta quando tutto va per il verso
sbagliato e non sembra esserci via d’uscita? Nel caso di Charles Dubouloz e Symon Welfringer, atleti del team Millet, l’apertura di una nuova via sulla parete di ghiaccio nel versante ovest dell’Hungchi, nella catena dell’Himalaya nepalese, a 7029 m di altezza e su 1.700 m di dislivello.

“Le Cavalier Sans Tête”
La riuscita di Charles e Symon – quest’ultimo incontrato grazie a Millet, che ha realizzato un corto proprio sulla loro impresa nominato come la loro via, Le Cavalier Sans Tête – non è stata però casuale, sebbene le intenzioni iniziali fossero altre. L’obiettivo, infatti, era lo Gyachung Kang 7954 m, a cui hanno dovuto rinunciare per l’aggravarsi delle condizioni meteo e della salute di Symon, che in quei giorni si era preso una bronchite. Con sempre meno tempo a disposizione, il loro sguardo si
è volto proprio all’Hungchi, una vetta poco battuta e appena 5 km a sud del Gyachung Kang. Una pendenza “rigida ed estetica”, come racconta Symon – che quest’estate ha poi passato tre mesi in Groenlandia insieme a Matteo Della Bordella, Silvan Schüpbach e Alex Gammeter in un’avventura divenuta poi il film “Odyssea Borealis”. Ma non è stato un caso, appunto, che alla fine ce l’abbiano fatta. Il corto del “cavaliere senza testa” è la storia di questa riuscita, intrisa di una forte amicizia
e un rispetto tale per la montagna da renderli totalmente consapevoli delle proprie capacità e condizioni. Nonché di paura, appena percepita da fuori, ma essenziale per acuire i sensi e misurare ogni movimento, riducendo il margine di errore. Una storia anche di testardaggine: il nome della via non si rifà solo alla canzone del cantautore Damien Saez, ma anche al gioco di parole per cui entêté, in francese, si traduce come “testardo”. Che è il motivo per cui hanno continuato, dopotutto.

La figura dell’alpinista moderno
Vedere il film insieme a Symon è stata anche un’opportunità per parlare di alcuni temi che contribuiscono a ridefinire il rapporto dell’alpinista con la montagna. Primo
tra tutti il “turismo montano”, sempre più in voga, che da un lato affolla le vette, e dall’altro sminuisce gli sforzi degli alpinisti esperti. Questo, infatti, è l’unico sport che non viene realmente considerato come tale e assume invece connotati turistici, dove arrivano in cima sia esperti che principianti, che possono aggiungere un altro Ottomila al loro novero se debitamente aiutati dagli enti che se ne occupano, di fatto eliminando l’elemento eroico dell’impresa. Emblematico il fatto che l’Hungchi,
decisamente poco battuto, si trovi nella stessa catena e a una distanza irrisoria rispetto all’Everest. Di più, anzi: prima del tentativo sul Gyachung Kang, Charles e Symon erano diretti verso il Manaslu, l’ottava montagna più alta del mondo, dove però hanno trovato una distesa infinita di tende, con i rifiuti che questi inevitabilmente generano, e un sovraffollamento tale da sentirsi da Walmart in un qualsiasi fine settimana. Questo ragionamento ha permesso di affrontare anche l’approccio dell’alpinista a queste imprese. Charles e Symon si definiscono infatti due “professionisti del fallimento”, perché dietro a ogni grande riuscita c’è spesso una quantità di tentativi non andati a buon fine, piani rielaborati e infine anche tanti dietrofront. Ciò che fa la differenza, ovviamente, è accettare che un rientro a casa
non equivale a un insuccesso, quanto più una presa di coscienza dei propri limiti. Per provare poi a spostarli un po’ più in su la volta dopo.

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