di Bruno Telleschi
Come sostiene Giovanni Pascoli «Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna» non è un «mazzolin di rose e di viole» (Leopardi Il sabato del villaggio 4), soprattutto perché le rose e le viole fioriscono in tempi differenti. Nel suo commento Giovanni Pascoli rimprovera ai poeti italiani l’indeterminatezza nella classificazione delle piante e degli animali, «per la quale, a modo d’esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d’indeterminatezza che si alterna con l’altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso più nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro profumo), tutti gli uccelli a usignuolo» (Pascoli, Il sabato p. 59).
La lezione di Giovanni Pascoli vive anche in Eugenio Montale che ai bossi ai ligustri e agli acanti della tradizione letteraria preferisce i limoni e le canne dell’esperienza esistenziale (Montale, I limoni 4-10 «Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi… le viuzze… tra i ciuffi delle canne… tra gli alberi dei limoni»), ma è spesso dimenticata nell’esercizio della letteratura contemporanea. Per esempio Angelo Ferracuti confonde le Dolomiti con la Maremma: la postina che esce da Predazzo in val di Fiemme tra «pini e leccete» vede in basso «i prati verdissimi» e in alto il gruppo del Latemàr: mancano solo le palme. Troppo generico per i prati i boschi e le montagne ma troppo specifico per Predazzo dove giustamente «si diramano la Val di Fassa e quella del Travignolo che scende dal passo Rolle» (Ferracuti, Andare, camminare, lavorare p. 58), ma dove il Latemàr si vede appena senza alcuna imponenza. Del resto neppure sulle Dolomiti i prati sarebbero verdi o addirittura verdissimi senza le periodiche concimazioni e fienagioni dei vecchi contadini.
Così anche Matteo Righetto confonde le Dolomiti con l’Abruzzo se accanto ai larici e gli abeti bianchi o rossi colloca anche «gli ultimi pini neri e tassi» con i tipici «prati di stelle alpine» (Righetto p. 95), dove semmai si vedono negritelle. I tassi e le stelle alpine convivono solo nei musei. Troppo generico per i prati i boschi e le montagne, ma troppo specifico per l’autostrada da Milano al passo di Costalunga (Karerpass) dove alloggiano i due protagonisti del romanzo in cerca di sollievo per la perdita del figlio. Il viaggio in autostrada finisce ovviamente a Bolzano, poi percorre la val d’Ega e raggiunge Nova Levante (Welschnofen). Passa accanto al lago di Carezza (Karersee) con le maestose pareti del Catinaccio e del Latemàr. Ugualmente specifico è il percorso escursionistico per guadagnare la cima dello Schenon, che si trova sul margine orientale del Latemàr, a partire invece dal lago di Carezza, ovvero dal margine occidentale, attraverso il Mitterleger e il Labirinto fino alla ignota forcella dove i due incauti milanesi incappano nel temporale e trovano riparo in una provvidenziale grotta. La rocambolesca gita sul Latemàr troppo specifica all’inizio diventa troppo generica alla fine: dal lago di Carezza non si può salire sullo Schenon del Latemàr, a meno di non impegnarsi in qualche prodezza alpinistica.
Come in Matteo Righetto così in Fabienne Agliardi l’autostrada diventa la protagonista specifica del viaggio da Brescia a Sala Consilina con la scrupolosa menzione delle tappe (Firenzuola Cantagallo Chianti Fiano Romano Eboli), ma a cinquanta chilometri da Sala Consilina non ci sono paesi che corrispondano alla descrizione di Petricchio: «Terra di mezzo tra montagna e mare, Petricchio era come Narnia, un posto immaginifico escluso dalle mappe e fuori dalle rotte, diviso dal resto del mondo da un ponte malfermo e da un bosco di serpi» (Agliardi, Appetricchio p. 11). Un paese immaginario come Narnia per alcuni aspetti, ma simile a Rivello e a Maratea nella realtà che insieme sono in montagna e al mare.
L’errore dell’indeterminatezza contagia anche la prosa scientifica che per definizione vuole escludere la letteratura e pretende la realtà. Per esempio la giusta indignazione di Marco Patricelli descrive in modo specifico la vergognosa fuga del re da Roma a Pescara il 9 settembre del 1943 lungo la via Tiburtina Valeria e l’audace impresa dei paracadutisti tedeschi che il 12 settembre 1943 percorrono in parte la stessa strada, «da Monte Porzio… per Valmontone, quindi Ferentino, Sora, Capistrello, Castelvecchio». Entrambe le carovane passano per Popoli dove i tedeschi voltano per Assergi e gli italiani proseguono per Pescara: «Quattro ore di viaggio in automobile, valicando gli Appennini e sfiorando il maestoso massiccio del Gran Sasso. Dal finestrino della sua vettura Badoglio non può non vedere la montagna dove da meno di due settimane ha fatto relegare Mussolini, che si è impegnato a consegnare agli Alleati e di cui adesso sembra essersi del tutto dimenticato. O forse gli fa comodo così. Nulla gli impedirebbe di andare a prendersi l’ex duce, se non fosse per il terrore di vedere la corsa verso la salvezza bloccata dai tedeschi. Il tempo di fare una diversione sull’Aquila e poi su Assergi ci sarebbe tutto, ma manca la volontà» (Patricelli, Settembre 1943 p. 58). Ma giustamente e ovviamente no, perché in realtà un re fellone e un maresciallo vigliacco non possono e non vogliono occuparsi di Mussolini per non compromettere la loro fuga. Un maresciallo senza il senso dell’onore e della dignità avrebbe dovuto, ma non poteva trovare il coraggio che non aveva. Ma ovviamente no per la distanza reale tra Popoli e l’albergo del Campo Imperatore perché soprattutto il maresciallo Badoglio non può vedere il Gran Sasso che da Popoli non si vede, come lo stesso Mussolini prigioniero nell’albergo di Campo Imperatore non può vedere una montagna «maestosa e superba» che non si vede (Patricelli, Settembre 1943 p. 191 «Gli piaceva ammirare, anche con l’aiuto di un cannocchiale, il panorama meraviglioso della catena montuosa del Gran Sasso che, in quelle giornate di limpido azzurro e di sole, spiccava maestosa e superba»), neppure con l’aiuto di un cannocchiale. Più modestamente Mussolini può vedere il rifugio Duca degli Abruzzi che Marco Patricelli descrive in modo specifico (Patricelli, Settembre 1943 p. 207 «Il rifugio è perfettamente visibile dall’albergo, se non ci sono nuvole basse, e sorge sulla cresta del monte Portella di fronte all’edificio, a quota 2388 metri. È lontano circa mezz’ora di cammino dall’albergo di Campo Imperatore seguendo un sentiero che si inerpica sul fianco del monte») in contrasto con i generici panorami della montagna. L’autore Patricelli infatti legge il Gran Sasso sulle guide alpinistiche che il narratore invece ignora e mostra di non conoscere in realtà le montagne di cui parla. Sorprendono nel Mussolini di Marco Patricelli il fascino della montagna, la bellezza e la nostalgia della vita agreste: «Il Gran Sasso dal punto di vista ‘estetico’, è veramente affascinante. Non si può facilmente dimenticare il profilo scabroso di questo monte che nel cuore d’Italia raggiunge quasi i tremila metri. La roccia è nuda, ma ai piedi della cima più alta si distende un grande pianoro in direzione sud-est, il Campo Imperatore, lungo almeno venti chilometri, con dolce declivio, luogo ideale per gli sport della neve. Ai primi di settembre, su questo e sui limitrofi pianori pascolavano numerosi greggi saliti in primavera dall’Agro romano e che ormai lentamente si spostavano, preparandosi a ritornarvi. Talvolta i proprietari dei greggi facevano delle apparizioni a cavallo e poi se ne andavano lungo i crinali della montagna stagliandosi all’orizzonte come figure di un’altra età. C’è un indefinibile nelle cose, nell’aria, nella gente d’Abruzzo che afferra il cuore» (Patricelli, Settembre 1943 pp. 219-20). Il Gran Sasso di Marco Patricelli è una montagna che appartiene alla tradizione letteraria, Gabriele D’Annunzio per esempio con le greggi sulla Maiella, ma immaginaria come il Gran Sasso di Donatella Di Pietrantonio, utile per giustificare la digressione che Badoglio avrebbe potuto compiere su Assergi, ma impossibile anche per la distanza che separa Popoli dalla montagna.
Come Matteo Righetto e Angelo Ferracuti confondono il versante meridionale e lunare del Latemàr con il versante settentrionale e imponente, allo stesso modo Marco Patricelli e Donatella Di Pietrantonio confondono il versante occidentale del Gran Sasso con il versante orientale, docile l’uno ma aspro l’altro. In Donatella Di Pietrantonio il Gran Sasso appare capovolto come se la muraglia orientale della montagna fosse simile ai suoi declivi occidentali. Nello stesso quadrilatero definito da un lato con il Dente del Lupo e i tavoli degli arrosticini e dall’altro lato con l’albergo di Campo Imperatore e la fattoria di Colledoro il romanzo condensa nello stesso luogo immaginario un territorio che in realtà non ha lo stesso dislivello né le stesse distanze. In realtà non si può andare facilmente da Pescara al Campo Imperatore né dallo stesso Campo Imperatore a Colledoro come si muovono i personaggi del romanzo. Per esempio Doralice nella rocambolesca fuga sul Dente del Lupo per evitare lo stupratore e assassino si ritrova a Colledoro, un dislivello di almeno millecinquecento metri attraverso una imponente muraglia che solo un alpinista avrebbe potuto valicare a mala pena. Giustamente tutti si chiedevano come Doralice avesse fatto a salvarsi: «Qualcuno del CAI ha ricostruito il percorso di Doralice nella notte: dove si è attaccata a una parete per scendere, dove si è lasciata trasportare a valle dalle pietre rotolanti del ghiaione» (Di Pietrantonio L’età fragile pp. 127-8). Neppure al CAI avrebbero saputo rispondere se Donatella Di Pietrantonio non avesse invertito il versante adriatico con il versante aquilano.
La letteratura ha la capacità di rievocare la bellezza del paesaggio naturale, ma se il reale diventa immaginario alla fine l’immaginario diventa reale, senza provocare una vera emozione e un vero coinvolgimento emotivo. Alla fine le parole confondono la sincerità con l’indifferenza. Senza la conoscenza diretta della natura la letteratura sostituisce alla realtà un mondo immaginario in cui la montagna è ovviamente imponente come l’erba è verde, il mare azzurro, il sole giallo e il tempo è sempre bel tempo. Ma in realtà l’erba non è verde né il mare azzurro, semmai è il mare ad essere verde come già vedevano gli antichi greci. Né in realtà il tempo è sempre bello, ma spesso nuvoloso o addirittura piovoso (Righetto, Apri gli occhi p. 100 «Fuori vento, tuoni e fulmini»). Si comprende che in Matteo Righetto ci sia una correlazione metaforica tra l’ambiente naturale e l’ambiente interiore, entrambi neri e tristi, perché il dramma sentimentale prevale sull’idillio (Righetto, Apri gli occhi pp. 81-2 «Penserai che in fin dei conti è proprio questa la metafora perfetta di ogni bosco: la rappresentazione dell’intimità, del raccoglimento e del nascondimento del sé. Una proiezione elegiaca. Il contrario dell’alta montagna, che è una metafora perfetta di apertura, estroversione, propagazione del sé. Una tensione verso l’infinito»). Fuor di metafora c’è il rischio evidente che le convenzioni narrative favoriscano l’indifferenza nei confronti della realtà, l’abitudine a non riconoscere nei luoghi immaginari la bellezza dei luoghi reali sostituisce al mondo reale un mondo virtuale che sospende la contemplazione della realtà o addirittura procede alla distruzione del mondo reale e preferisce il mondo virtuale. Per una bella escursione in montagna basta anche una giornata nuvolosa senza pareti imponenti. Del resto si può ballare e cantare anche sotto la pioggia come Gene Kelly nel film americano Singin’ in the Rain del 1952. C’è un’insidia nascosta nelle descrizioni generiche che trasformano i turisti in prigionieri delle illusioni commerciali con il rischio che vadano a Pampeago, per esempio, per vedere l’imponenza del Latemàr o a Predazzo per raccogliere ghiande tra i lecci. Quei turisti dovranno poi consolare a tavola la delusione del panorama e la privazione delle ghiande mangiando una tipica polenta. Come non si vede l’imponenza del Gran Sasso sui prati di Campo Imperatore dove invece si possono gustare deliziosi arrosticini. Per l’imponenza sarebbe sufficiente uno sguardo dall’autostrada dopo la galleria sotto il Paretone e per gli arrosticini basta una buona trattoria sotto casa. Allo stesso modo per vedere il lago di Carezza sarebbe sufficiente transitare sulla strada senza fermarsi, proseguire per Nova Levante o per il passo di Costalunga e poi raggiungere il lago a piedi per dimostrare di essere veramente interessati alla bellezza. Purtroppo per ragioni diverse legate all’ultraturismo Carezza non è più un luogo suggestivo con il lago il bosco e la montagna, ma una pozzanghera recintata come si vede nei laghetti dei parchi cittadini, accanto ai negozi e al parcheggio dei turisti frettolosi. Per non compromettere la magia del luogo sarebbe necessario cancellare il parcheggio, demolire i negozi e lasciare solo la strada per una prima e fuggevole impressione. Andare a Carezza per vedere il lago di Carezza? come andare a Viareggio o Rimini per vedere il mare. Il lago ormai esiste solo nelle vecchie cartoline: per vedere Carezza conviene andare in cartoleria o girare per internet. Di Carezza ormai rimangono solo le cartoline che sostituiscono la realtà con la fantasia. Se una volta l’escursionista passava dal paesaggio alle cartoline, oggi accade spesso l’inverso con le cartoline che descrivono il paesaggio, cancellano un paesaggio che non c’è più e vive solo nei ricordi. La svalutazione consumistica trasforma le cose da contemplare in feticci da collezionare e consolida l’omologazione che conduce dalla valutazione estetica alla svalutazione consumistica.
Bibliografia
Fabienne Agliardi, Appetricchio, Roma, Fazi, 2023
Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Torino, Einaudi, 2023
Angelo Ferracuti, Andare, camminare, lavorare. L’Italia raccontata dai portalettere, Prefazione di Francesco Caio, Milano, Feltrinelli, 2015
Giovanni Pascoli, Il sabato (1914), in Giovanni Pascoli, Prose I. Pensieri di varia umanità, Premessa di Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, 1946
Marco Patricelli, Settembre 1943. I giorni della vergogna, Roma-Bari, Laterza, 2009
Matteo Righetto, Apri gli occhi, Milano, Tea, 2016