Il predatore

Un tranquillo paesino di montagna viene sconvolto da un orrendo delitto, che scoperchia una meschinità umana impensabile. Un noir apocalittico, imperniato sull’orso come simbolo della nostra paura per la diversità.

Il predatore
(presentazione del libro di Marco Niro, con intervista)
di Pamela Lainati
(pubblicato su loscarpone.cai.it il 4 marzo 2024)

Durissimo, eppure necessario. La storia di un tranquillo paesino dolomitico sconvolto da un omicidio efferato quanto odioso, che rivela la miseria umana dei suoi abitanti così perfetti e la loro paura di coesistere con il diverso, ci obbliga a non rimandare il confronto con il reale: Il predatore di Marco Niro (pp. 322, 19,00 euro, Bottega Errante 2024) nasce per questo. Per parlare di noi, entità post-divine alla cui immagine e somiglianza il resto si conforma, e dell’orso che sconvolge le nostre vite ormai disabituate alla Natura. Lanciati verso un futuro distopico, come a tratti si configura questo noir apocalittico dove non si fanno sconti a nessuno. Ci resta il piacere di leggerlo, mentre cerchiamo di capire se siamo anche solo in parte come i protagonisti: arrivisti, indifferenti, spregiudicati, come il medico in carriera, il politico ambizioso, il commissario arrivista. È meglio infatti non farsi ingannare dalla copertina e dalle facili interpretazioni.

Marco Niro. Foto: Archivio Marco Niro.

Per Niro, che è anche giornalista, è come un romanzo d’esordio, perché, dopo un saggio e un libro per ragazzi, gli altri quattro li ha scritti tutti insieme a Mattia Maistri sotto lo pseudonimo del collettivo Tersite Rossi. Col compagno di narrativa, con cui è cresciuto fino ad avere il coraggio di lanciarsi come solista, ha però discusso la scaletta. Era ancora il 2019, ben prima che la cronaca ci raccontasse di un orso che ha ucciso un ragazzo mentre correva nei boschi, in Trentino. Dove Marco, originario della pianura, vive da 15 anni lavorando nell’ambito della comunicazione ambientale.

Marco, se non è la cronaca ad averti ispirato, quanto c’entra il tuo lavoro di comunicatore ambientale?
La coesistenza fra uomini e orsi è un argomento che in realtà non avevo mai maneggiato entrandoci dentro davvero, quindi ho avuto bisogno di documentarmi tanto, e facendolo per la prima volta da solo mi ci è voluto molto tempo. Ma ho avuto anche la fortuna di confrontarmi con degli zoologi che operano in Trentino, e che hanno peraltro preso parte alla reintroduzione degli orsi (alla fine ringrazia Filippo Zibordi, Anna Sustersic e Matteo Zeni, NdR).

Cos’hai scoperto?
Mi ha stupito scoprire che dell’orso in realtà si sa veramente poco, e constatare la distanza fra l’immagine mediatica e quella reale degli zoologi. L’opinione pubblica si polarizza a seconda dei periodi tra il considerare l’orso come l’animale buono e mattacchione, il peluche o il cartone animato alla Yoghi e Bubu, o come la bestia assassina, il cattivo che può essere necessario addirittura sterminare in massa. Gli scienziati ci insegnano, ovviamente, che l’orso non è né buono, né cattivo, è un animale selvatico e la sua presenza ha un significato, è un simbolo. Anch’io ero vittima di questa di questa mistificazione, qui in Trentino in particolare, dove l’orso è sempre stato presentato come una sorta di attrazione turistica, da cercare, da fotografare, cosa invece sbagliatissima, perché rischia di generare parecchi problemi.

Potevi scrivere un saggio e invece hai scelto un romanzo di genere, pensi che sia più efficace?
Il motivo per cui scrivo, e abbiamo scritto in passato, romanzi che hanno al centro la realtà e la volontà di indagarla è proprio quello di rendere fruibile in modo diverso tematiche che poi speriamo il lettore abbia voglia di approfondire, rivolgendosi alla saggistica e al giornalismo serio.

Questa resta una storia inventata, provocatoriamente spinta all’estremo, che ruota intorno all’orso in quanto simbolo del diverso. Dove è l’uomo a essere il più disumano fra i due.
Ho volutamente caricato la parola «orso» di simbolismo, legato a tre concetti: biodiversità, limite e diverso. La biodiversità è il motivo per cui ci si deve sforzare di coesistere: si tratta di una specie indicatrice (dove c’è lui significa che l’ambiente è sano, che c’è appunto biodiversità) e una specie ombrello, perché tutelando quella si protegge a ricaduta il resto dell’ecosistema. L’orso è il simbolo del limite, perché bisogna seguire delle precise regole quando lo si incontra, e del limite che abbiamo perso, considerandoci una specie superiore alle altre, che ha diritto ad attingere alla natura come fosse un forziere inesauribile. Infine, è simbolo del diverso: chi lo studia evidenzia analogie sorprendenti con noi, come la posizione eretta, il fatto di appoggiare tutta la zampa sul terreno ed essere onnivoro. Ma il fatto che noi oggi passiamo il 95% del nostro tempo al chiuso, come ci dicono i neuroscienziati, ci ha causato un deficit di natura, non riusciamo più a comprendere cioè, quella natura di cui l’orso rappresenta l’elemento forse più lontano da noi, in quanto animale selvatico, predatore, che avevamo espulso dal nostro modello di sviluppo, in particolare quello che si è affermato in montagna.

Cosa significa una montagna senza orso?
Se la montagna diventa un Luna Park, l’orso può essere solo il fenomeno da baraccone. Il marketing turistico lo ha infatti spesso presentato come l’attrattiva per troppo tempo, smettendo di fare le tre cose essenziali, che sono gestione, informazioni e ricerca, perché questo poteva disturbare. Invece ha finito per danneggiare in primis le popolazioni che abitano in montagna. È il concetto di diversità che fatichiamo a riconoscere, dall’orso al migrante, a tutte le altre minoranze, con cui non riusciamo più a rapportarci perché a forza di stare al chiuso a guardare in un monitor finiamo per vedere solo le nostre immagini riflesse. Clicchiamo «mi piace» e continuiamo a sentire solo la stessa storia, la nostra.

Il libro è dominato da un antropocentrismo estremo, ma ogni personaggio esprime un punto di vista, perfino l’orso.
I miei protagonisti si dividono in due: i prevaricatori, che hanno perso il limite calpestando tutto ciò che avevano intorno, e i battuti, che il limite hanno provato a rispettarlo, ma sono diventati dei relitti umani. Poi ho provato a calarmi nei panni dell’orso, un non-umano: le poche pagine del prologo, dove l’ho fatto, mi sono costate più del resto, prima di tutto perché il nostro linguaggio è umano. Però è un esercizio estremamente utile. Ho raccolto l’appello che ha fatto Amitav Gosh in La grande cecità, dove ha invitato i romanzieri non soltanto occuparsi di temi come il cambiamento climatico, che all’epoca, il 2017, era ancora (e probabilmente è tuttora) il grande assente, ma anche ad acquisire il punto di vista non umano, per uscire dall’antropocentrismo devastante. 

Il paesino di Cimalta, col suo Monte Ertissimo, senza riferimenti di tempo e spazio, è tratteggiato come una Gomorra apocalittica dove non si salva nessuno e la speranza è quasi morta. Non pensi di essere stato troppo pessimista?
Più che pessimista mi considero realista: chi scrive ha l’ottimismo della volontà, per citare Gramsci. Non lo farei se ritenessi che non serve a niente. Nel momento stesso in cui lo faccio e mi sporco le mani di nero ho la speranza che quel nero possa venir lavato via. Dietro il pessimismo evidente c’è in realtà un forte ottimismo. 

Perché ti è venuta voglia di ambientare la storia in montagna?
Vengo da Casalmaggiore, in provincia di Cremona, sulle rive del Po, ma da 15 anni abito a Brentonico, nel Parco del Monte Baldo, ormai mi considero trentino a tutti gli effetti. In montagna ho iniziato ad andare da quando sono qui, apprezzandone il silenzio e anche la fatica. Ho voluto legittimare questa mia presenza da padano nelle Terre Alte. 

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3 Comments

  1. says: Fabio Bertoncelli

    Quando l’opinione pubblica si domanda se un animale è “buono o cattivo”, intende chiedersi semplicemente se gli esseri umani, in un faccia a faccia, corrono il rischio di essere sbranati. Tutto qui.

    Non mi pare una domanda oziosa.

  2. says: Carlo Crovella

    ho sentito “parlare£ di questo libri, è inserito nella mia liste delle cose da leggere. Purtroppo (o per fortuna, secondo un altro punto di vita) tale lista anziché ridursi, tende ogni giorno ad aumentare, tanti sono gli spunti che offre la realtà editorial-culturale. Prima o poi arriverò a questo libro, le credenziali mi sembrano ottime. L’idea centrale è molto accattivante.

  3. says: Luca

    Il nuovo trend per la montagna è ambientarci storie di crimini..
    Sarà che non ho mai capito il genere “giallo” o quello “thriller”, ma mi pare l’ennesimo sfregio a un “luogo” ormai buono per tutto, dai locali griffati, alle cave di marmo, dai merenderos in infradito agli oligarchi in elicottero, passando per i tennisti…
    A quando la montagna-montagna?

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