Istruzioni per tornare selvaggi

In un saggio autobiografico Isabella Tree racconta la storia di Knepp, tenuta inglese avamposto di una nuova filosofia, il rewilding.

Istruzioni per tornare selvaggi
di Michele Neri
(pubblicato su La Repubblica del 1° novembre 2019)

In principio c’era soltanto una gigantesca quercia secolare e morente, in una proprietà terriera da 1400 ettari nel Sussex, chiamata Knepp. I nobili proprietari, Charlie Burrell e la moglie Isabella Tree erano pronti, obbedendo a tradizione e spirito di buon vicinato, a sradicare i resti dell’albero per restituire decoro a quell’angolo di parco. Decisero invece di farlo invecchiare, lasciando che fossero insetti, funghi e intemperie a finire il lavoro, trasformando il tronco in un rifugio per falchi e altri animali.

La scelta non consentì solo la rinascita della vita dalla morte: fu il primo atto di una rivoluzione ventennale che permise a un territorio, impoverito da secoli di allevamento e agricoltura meccanizzata, di tornare alia natura selvaggia. Non quella cara agli ambientalisti, interessati a congelare l’ambiente allo stato attuale, ma riportando l’orologio indietro, anche di migliaia di anni, perché fauna e flora a rischio e specie fuggite potessero tornare: grandi predatori inclusi.

L’inversione di pensiero che consiste nell’affidarsi al potere di autoguarigione degli ecosistemi si chiama rewilding (rinaturalizzazione). E’ sedersi dietro e lasciare che sia la natura, con qualche controllo, a guidare l’auto. Ha un battistrada, l’attivista inglese George Monbiot, autore di Selvaggi; il termine fu coniato negli anni Ottanta da Dave Foreman, un fondatore del movimento ecologista radicale Earth First! Knepp Wildland, risultato di vent’anni di battaglie con autorità e preconcetti, è uno dei piu imitati progetti compiuti di rewilding, l’avamposto di una filosofia che affida alla natura le redini della biodiversità.

Isabella Tree

Un suolo che vent’anni fa si presentava esaurito da secoli di aratura, erbicidi e macchinari e che non dava piu profitti ai proprietari, oggi mostra una biodiversità tale da meritare a Knepp l’appellativo di Okavango o Serengeti d’Inghilterra. Gli ecoturisti in visita a quest’area a sud di Londra s’imbattono in pony di Exmoor, bufali e maiali allo stato brado, cervi rossi e daini liberi di pascolare. L’incredibile diffusione della flora selvatica ha attratto gli insetti e questi a loro volta uccelli quasi estinti nelle isole britanniche.

La sfida che ha mutato il destino di Knepp è rivisitata da Isabella Tree (cioe Albero, nomen omen) in un saggio autobiografico fondamentale per conoscere una nuova soluzione per risanare l’ambiente: Wilding (Picador). Il libro è uscito l’anno scorso vendendo centomila copie; da poco è stato pubblicato negli Stati Uniti. L’abbiamo intervistata.

Quali sono state le tappe fondamentali di “Knepp Wildland”?
«Ci sono state epifanie successive, stimolate da pareri o esempi altrui. Fu Ted Green (altro predestinato, ndr), custode delle querce reali del Parco di Windsor, a convincerci a lasciar morire in pace la nostra quercia. Con la straordinaria riserva di Oostvaardersplassen, l’ecologista olandese Frans Vera ha invece dimostrato che liberare i grandi erbivori avrebbe creato un habitat naturale piu ricco».

Com’e avvenuta la reintroduzione della flora e della fauna?
«Dopo aver interrotto lo sfruttamento della terra, la prima trasformazione l’hanno fatta gli insetti che ritrovavano distese di erbacce, anche se non ho piu il coraggio di chiamarle cosi. Non ostacolando la diffusione degli arbusti spinosi, sono tornati uccelli quasi estinti come tortore e usignoli, attratti dai semi ricchi di proteine. Per noi bambini quello delle tortore era il canto dell’estate; e l’uccello di Shakespeare e di Chaucer. Abbiamo introdotto cervi e daini, ma sembrava ancora un parco convenzionale. Per liberare altri erbivori dovevamo recintare una zona grandissima, mancavano i soldi. Ci sono voluti altri dieci anni, ma oggi la biomassa di Knepp è incredibile».

La vostra decisione fu dettata anche da ragioni economiche…
«Nel 1999 eravamo vicini al fallimento. Non era piu possibile sostenere i costi dell’allevamento e dell’agricoltura intensiva. Le quote latte del 1984 avevano provocato un forte aumento di costi. Smettere fu una libertà, simile a quando hai la sensazione di aver fatto la cosa sbagliata per anni. La conservazione autodeterminata fu la soluzione ai nostri problemi e a quelli di una terra distrutta».

Come si sostiene Knepp?
«Riceviamo un sussidio dall’Unione Europea: speriamo che ci sia ancora dopo la Brexit. I nostri introiti derivano da tre fonti. La vendita di carne organica di manzo Longhorn è una. E’ in crescita l’ecoturismo: i visitatori arrivano a migliaia per osservare fauna e flora. Altri proventi derivano dall’affitto di vecchie stalle e fienili ristrutturati come uffici. Quest’ultima attività dà lavoro a 250 persone».

Quali sono i benefici personali del rewilding?
«E’ bastato svegliarsi tra suoni d’insetti e uccelli, scoprire che ogni settimana si aggiungeva una specie, per avvertire una riparazione interna, un restauro dell’essere. E’ la biofilia di E.O. Wilson: essere collegati alla vita, sentire che cielo e terra sono connessi con l’umano. Nel resto dell’Inghilterra, ci sentiamo in un deserto».

Descrive il suo Paese come il meno selvaggio d’Europa. Perché?
«Abbiamo perduto i predatori secoli fa per diventare una nazione di giardinieri. A Knepp ci siamo scontrati con la nozione, tipica di un Paese che ha sofferto l’isolamento in guerra, che ogni centimetro debba essere sfruttato per la sussistenza. E’ una memoria radicata. L’opinione pubblica però è con noi: nel 2015 mio marito ha creato “Rewilding Britain” con l’intento di ripristinare processi ecologici naturali in 300 mila ettari entro il 2030. A Knepp siamo pronti a estenderci: i vicini ci hanno affidato la loro terra per il rewilding. Vogliamo seguire il fiume Adur fino al mare».

C’e un legame tra rewilding e soggetti come Extinction Rebellion?
«Sì, perche noi mostriamo un modo concreto per attuare quel tipo di cambiamento».

Si definirebbe un’attivista?
«Sì, nel senso pratico del termine».

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