Su Enzo Cozzolino vedi anche:
Enzo Cozzolino cantore del VI grado
Enzo Cozzolino, la via all’arrampicata libera
Le solitarie di Enzo Cozzolino
La pena di dar tutto alla montagna
Prefazione a Enzo Cozzolino – Dall’alpinista all’uomo
(Edizioni Associazione XXX Ottobre – CAI Sez. di Trieste, 2022)
di Flavio Ghio
A 51 dalla scomparsa, nel ricordare Enzo Cozzolino, si riaffaccia il dubbio se sia più giusto farlo in silenzio, ciascuno con la sua verità oppure con la parola che, pur rivelativa, è sempre lacunosa, criticabile, parziale.
Il dilemma tra parola e silenzio è presente in Enzo stesso ed è grazie alla scelta fatta che possiamo conoscerlo a fondo. Per anni chiuso, a volte scontroso, poi aperto fino all’empatia da lasciare incredulo chi lo conosceva. Lo sottolinea Paolo Rumiz, che ha compiuto con lui due nuove ascensioni nelle Pale di San Martino: “Ma la sua è anche e soprattutto un’evoluzione interiore, oltre che alpinistica. Enzo si apre lentamente agli altri. Non è più il ragazzo scontroso e introverso degli anni precedenti. Si distende; apprezza i piaceri della vita. Lascia da parte le diete assurde, prende la montagna con più filosofia (1)” e lo documenta una ricostruzione di Spiro Dalla Porta Xydias:
“Enzo si era trovato quasi prigioniero del suo personaggio di scalatore fortissimo, capace di risolvere anche i problemi impossibili, che s’interessa soltanto alla montagna e alle scalate, e s’era isolato dietro il suo soprannome. Solo in rari momenti di abbandono con gli amici rivelava, quasi suo malgrado, il suo vero essere: dopo una prima, o quando cantavano in coro, seduti sotto qualche parete, in Valle. Fino agli ultimi mesi, in cui la coscienza dei limiti eccezionali raggiunti, le imprese compiute e l’incontro con la ragazza avevano sciolto la sua dura scorza. Il Grongo era rimasto un involucro vuoto e ne era uscito, anche nel mondo della scalata, il ragazzo Enzo, con la sua carica di umanità, l’animo generoso e sensibile. Forse anche questa era stata una tappa indispensabile del suo ciclo terreno (2)”.
Vorrei sottolineare che queste ricostruzioni rimandano a un destino più complesso che lo ha coinvolto al punto che anche la casualità e la contingenza risentono del magnete del fato come fossero limatura di ferro. È stato Marcello Rossi, un alpinista trentino cui dobbiamo essere grati per aver raccolto e raccontato la sua confessione più rivelativa, due giorni prima della salita alla Torre di Babele che gli sarà fatale:
“Tutto quello che faccio è in funzione dell’alpinismo. Alle volte ci penso e allora mi vengono dei dubbi se valga la pena di dare tutto alla montagna (3)”. Parole pronunciate seduto su un sasso di fronte al rifugio Vazzoler, non lontano dal sacello dedicato agli alpinisti caduti in Civetta.
Lui, dopo aver fatto dell’alpinismo la sua vita, chiedeva alla vita di superare l’alpinismo. Ora trovare il suo nome in quella chiesetta e rammentare le ultime parole che conosciamo, è un tuffo al cuore e fa di quel luogo una Finisterre, estremo mirador sul suo destino. Scrive Ivo Ferrari:
“A volte, prima di scendere a valle, mi fermo nella chiesetta del rifugio Vazzoler: lì, Lui viene ricordato con altri nomi, in un elenco oramai lunghissimo […] Non prego molto, lo faccio, ma non molto, ho sempre fretta, il tempo mi ha regalato l’uso della fretta, ma lì mi fermo, depongo lo zaino e la mia preghiera diventa un semplice pensiero… (4)”.
Sicuramente è arduo definire la grandezza di un alpinista. Cozzolino ha trovato la vera grandezza riportando il percorso alpinistico nell’alveo della vita dopo aver fatto esattamente il contrario. Così invece di procedere in solitudine verso mete sempre più estreme ed aumentare la sua visibilità, ha scelto di rallentare, di aspettare gli altri e guidarli dove, senza saperlo, sognavano di arrivare. Questo è stato l’eretico Cozzolino che, nella religione dei record, ha consapevolmente e deliberatamente posposto l’atleta che era all’uomo che voleva essere.
Non c’è stato nessun rogo, però questa scelta è stata trascurata, ridotta a curiosità biografica, ad aneddoto tra i tanti. Così si è scelto di restare sulla superficie, di raccontare il precursore dell’alpinismo che verrà: l’uso del magnesio, le scarpette invece degli scarponi, i pantaloni della tuta invece di quelli alla zuava, gli allenamenti sistematici, gli attrezzi da palestra in vista del salto dalla scala chiusa a quella aperta, presentato come fosse il passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito compiuto dalla fisica galileiana. Si sono trovate tutte le coincidenze possibili con i futuri tecnici dell’arrampicata, mentre a lui è mancato il tempo di vivere.
Nonostante la sorte avversa, rimane il punto più avanzato e consapevole di un percorso che nessuno ha saputo, o potuto, o voluto proseguire. Si è preferito scantonare, optare per la crescita infinita della difficoltà guardando solo a un corno del dilemma.
Di fronte a tutto questo è inevitabile che qualcuno recentemente, per rispondere ad una cordata di triestini che lo ricordava, lo abbia definito “un immaturo”.
Il motivo lo indica il filosofo “con la f minuscola” Pier Aldo Rovatti in un recente suo articolo:
“Infatti nessuno di noi sembra davvero disposto a fare a meno di una verità singolare e unica, e a pensare che l’altra strada, quella delle verità plurali, sia alla fine la più produttiva. Certo è la più faticosa (5)”.
È difficile, con iniziative una tantum, comunicare la profondità esistenziale dell’insegnamento di Enzo Cozzolino. I giovani che vivono nell’era della Gazzettazione dell’alpinismo possono capire solo quanto è stato loro insegnato sulla falsariga del noto giornale color rosa. Così il mitico Settimo grado, solo se riferito ai mezzi e alla mentalità di allora, diventa un traguardo che pochi riuscivano a raggiungere, altrimenti è solo un banale 6b. Andando solo al traino della difficoltà, bisognerebbe che un mostro sacro, ripetendo una sua via, segnalasse ai media la presenza inaspettata di un passaggio di 8a, riservando qualcosa di più tirato per gli anni a venire. E non basterebbe ancora, perché oggi il giudizio è ulteriormente filtrato dalla cultura della sicurezza, per cui, chi si affidava quasi esclusivamente alle proprie mani e non ai chiodi a pressione e ad altri mezzi che favoriscono la sicurezza ha un’etica molto lontana dall’attuale modo di muoversi sul verticale. Nell’epoca della tecnicizzazione dispiegata, l’alpinismo non vive più di storia, vive di novità. La storia non è una fonte d’ispirazione ma di erudizione che non sarà mai discorso militante, perché nessuno lo leggerà sembrandogli scritto in una lingua morta.
A questo punto, dovremmo concludere che la vita di Cozzolino non ha più nulla da dire?
Lui – a differenza di noi che in quel tempo leggevamo solo Comici, Cassin e Bonatti – aveva incorniciato in camera un verso di Edgar Lee Master dove una vita senza senso viene paragonata a: “un vascello che smania per il mare e ne ha paura (6)”.
Dovremmo dunque lasciare che attorno a lui cresca il deserto del non senso? Restando nel perimetro della difficoltà possiamo solo celebrarlo con un’aneddotica del tempo che fu, e che lascia il tempo che trova. A questa è preferibile un raccoglimento silenzioso, ma se un raccoglimento non è alimentato si spegne e rimane solo il silenzio. Tacere non è stata la scelta di Enzo, questo ci impegna a trovare strade diverse. Quali sono e come cercarle? Allargando le invisibili crepe che da sempre attraversano il presente ed aprire spaccature sulla crosta omogenea della cultura convenzionata. Sapendo che non basterà solo enunciarle. È già successo quando si è provato a paragonare l’arrampicata al gesto: lo si è considerato una realtà ultima, il fine corsa del discorso. È diventato un mantra e tutto è rimasto come prima. Come superare questo scacco? Uscendo dalle stanchezze di un linguaggio culturalmente addomesticato, cercando altri segni. Questo è possibile dal momento che Cozzolino arrampicando comunicava attraverso il suo stile. C’è una citatissima frase di Messner che molti ricorderanno:
“Ho avuto occasione di andare in Val Rosandra, la palestra di Comici, e sono rimasto stupefatto nel vedere lo stile di arrampicata di Cozzolino. Come sale leggero, sicuro, su minimi appigli… Dove altri hanno tentato con chiodi a espansione, lui è passato in libera (7)”.
I puntini di sospensione, spesso tralasciati da chi riporta questa citazione, non indicano un taglio ma appartengono al testo originale. Ignorarli o peggio togliergli significa aggiungere un altro mattone al muro. Messner non ha completato il discorso e il lettore dovrebbe chiedersi perché quella frase sullo stile di Enzo sia stata lasciata in sospeso da chi non ha mai avuto problemi con la scrittura. Perché qui non è la parola a raccontare il gesto ma è il gesto che si fa parola. Davanti a questo transfert comunicativo Messner rimane stupefatto e attonito.
È attraverso lo stile che la tecnica del muoversi sul verticale diventa modalità espressiva. La tecnica di arrampicata insegnata dalle scuole di alpinismo riguarda la meccanica del corpo e non c’entra niente con lo stile. Che con lo stile si potesse comunicare era già stato intuito da Julius Kugy, il cantore delle Giulie, parlando di Napoleone Cozzi, il salitore di svettanti torri dolomitiche:
“Era un uomo straordinariamente simpatico, un artista geniale, decoratore di professione, oltre che bravo pittore. I suoi diari alpini li scriveva su grandi fogli ornati da bellissimi acquarelli, che speriamo esistano ancora. […] La maniera di arrampicare, sua e dei suoi allievi, era veemente, tutta fatta di scatti, non quella levigata e calma, quasi un gioco sul fianco, che ho sempre ammirato nei miei Trentani (8)”.
Lo stile sembrerebbe identificarsi con la singola persona, in realtà collega mondi diversi. Si dovrebbe allora iniziare a pensare allo stile come ad un linguaggio.
Si provino a guardare i video, presenti in rete, di Emilio Comici in arrampicata. Possiamo ritrovare in lui lo stile che Kugy attribuiva a Cozzi. Il corpo, come spinto da una forza misteriosa, sale a sbalzi. Energia a stento tenuta a freno più che flusso sequenziato di movimenti. E lo stile pensa e rende ginnica la scrittura. Si consideri il rapimento raccontato da Comici sulla Nord della Grande di Lavaredo: “Difficilmente potrei spiegare quell’ebbrezza, quella gioia di sentirmi completamente solo, su quella spaventosa parete: avere le gambe in forte spaccata, il corpo arcuato, e vedere inabissarsi la corda, poi tutto quel vuoto… Che gioia! Gioia di vivere; soddisfazione; intimo orgoglio di sentirmi così forte da dominare da solo il vuoto e lo strapiombo. Che voluttà! (9)”.
Anche qui dopo la parola vuoto ci sono dei puntini di sospensione, anche qui c’è una faglia, uno scorrimento di senso da approfondire. E, se fissando il vuoto, invece della voluttà fosse apparsa, altrettanto improvvisa, la paura, cosa avremmo trovato? Forse qualcosa di molto simile al blocco che lo aveva attanagliato sulla Cima d’Auronzo.
Il rischio che incombe su chi osa fissare il vuoto, è descritto da Friedrich Nietzsche: “Se tu guarderai troppo a lungo in un abisso, l’abisso finirà per voler vedere dentro a te (10)”.
Chi, più dell’alpinista, è esposto a questo potenziale pericolo?
Come fermare l’angoscia che viene dal nulla e non rispetta nessuna legge? Cozzolino si rivolge alla storia in quanto patrimonio di esperienze e di pensiero, quindi fonte d’ispirazione. Il cliché che vede in lui solo un precursore non spiega questo passaggio che disconferma lo stereotipo della storia come deposito di merci scadute. Cozzolino conosceva il famoso colloquio avvenuto in parete tra Tita Piaz e Paul Preuss e riportato anche da Casara: “ricorda Piaz «Preuss, slegato, era ora in testa e ora in coda alla cordata, arrampicando con una disinvoltura sbalorditiva, come se passeggiasse nel parco di Monaco. Gli gridai: ‘Paul, legati e non farmi simili scherzi!’ E lui di rimando: Se si fosse a due metri sopra il suolo, avresti per me la stessa preoccupazione?» (11)”.
Così affronta il problema dell’angoscia con un esperimento mentale analogo a quelli con cui Albert Einstein scardinava i blocchi mentali che si frapponevano tra lui e la soluzione: un passaggio non cambia se viene spostato da 2 metri a 1000 metri d’altezza, il cambiamento riguarda solamente l’uomo. Il suo stile di arrampicata era il superamento vivo, e non solamente concettuale, dell’angoscia d’abisso descritta da Nietzsche. Cozzolino aggiunge il volano della razionalità all’arte di arrampicare di Comici. Lo storico Giampaolo Valdevit, autore di una storia dell’alpinismo originale e alternativa alle cronologie dei fatti notevoli, scrive: “Ma ancora un’altra è la componente essenziale dell’alpinismo di Cozzolino: la razionalità (12)”.
La ragione riduce lo spazio attraverso cui i mostri si insinuano nella psiche umana. Voltaire affermava che il sonno della ragione genera mostri, però ignorava che i mostri attualmente hanno un aspetto rassicurante, si sono ingentiliti, frequentano la società. Enzo, sapendo quanto sono seduttivi, scriveva: “II primo impulso, davanti ad un tratto di roccia apparentemente insuperabile in arrampicata libera è quello di chiodare e talvolta questa sensazione è talmente forte da nascondere agli occhi dell’alpinista la realtà di una situazione che potrebbe essere affrontata in un modo meno drastico (13)”. Cercava di liberare l’alpinista dalle sue paure per metterlo in grado di iniziare la propria personale razionalizzazione dell’ignoto. Con il suo stile metteva tra parentesi lo sguardo pietrificante di Medusa.
Il numero 2 indicato da Cozzolino non è evidentemente scelto a caso. Ecco cosa significano quei puntini di sospensione. Ecco perché chi lo guardava arrampicare riceveva la sensazione che la parete si aprisse al suo passaggio, placata come le fiere dalla musica di Orfeo, e le sue dita si avvicinavano agli appigli come fossero le corde di una cetra.
Tutto questo risulta intollerabile per una scala della difficoltà che elimina dalle vie i segni delle vite che le hanno realizzate per apporre il proprio sigillo.
Il settimo grado realizzato da Cozzolino è considerato un grado solo per deformazione professionale. Non è un’asticciola da alzare, è un itinerario esistenziale che l’alpinismo non ha saputo esprimere. Chi lo descrive secondo i canoni in uso, parla ma non trasmette, mentre chi lo fa in forma intuitiva vive più meditate esperienze. Sempre Ivo Ferrari, salendo in solitaria la sua via alla Busazza, scrive: “La Cozzolino non è una via classica, la sua “strana” difficoltà non la renderà mai una classica (14)”. Che cos’è una “strana “difficoltà? È uno schiaffo all’oggettività onnivora delle scale. Qui, non è il grado a parlare ma la parete stessa per intermediazione del suo salitore. Con movimenti che ci lasciavano a bocca aperta, ha avvicinato la dinamica del corpo alla staticità delle pareti, sospendendo, senza annichilirla, l’angosciante differenza tra alto e basso.
Tiziana Weiss, dopo la caduta di Cozzolino dalla Torre di Babele, ha compiuto un solitario cammino in Civetta per riaprire il dialogo con le montagne attraversando la loro staticità con il veloce passaggio dell’esistenza umana: “Quante cime qui intorno a me, grandi e umili insieme, esse sanno aspettare, non invecchiano come noi, non si stancano. Ed io domani, pur camminando sul sentiero, vorrei imparare ancora una volta a vivere la loro pace, vorrei mi insegnassero il segreto di questa loro statica dolcezza (15)”. Parole che non nominano Enzo, ma lo evocano nell’attimo in cui la scrittura e la vita vivente si accavallano come inquiete onde di un mare scintillante accarezzate dal sole dell’esperienza. Nell’introduzione al film Fachiri, echi verticali avevo espresso il desiderio che a Cozzolino fosse dedicato un sito a Trieste. Grande è stata la gioia quando, non il singolo, non l’associazione ma il Comune, rappresentante dell’intera città, lo ha realizzato. Ora auspicherei si rinnovasse quanto è avvenuto con Kugy: che operatori culturalmente illuminati trovassero uno spazio comune ad entrambi perché anche Cozzolino, pur in un contesto storico diverso, ha aperto l’alpinismo alla vita senza incatenarsi al lampione della difficoltà nel timore di inciampare.
II suo Settimo grado voleva essere un salto qualitativo non quantitativo. Era un’utopia concreta verso la liberazione dalla tirannia della misura. Invece con la scala aperta questa liberazione è stata spostata all’infinito.
Dopo Cozzolino c’è solo Sisifo. Forse un giorno si riuscirà a sostituire la narrazione stroboscopica che seleziona gli eventi frammentandone il movimento reale, con l’illuminante scoperta che un altro alpinismo è possibile.
Note
(1) Paolo Rumiz, Alpinismo Triestino, Maggio-Giugno 2012, n.131.
(2) Spiro Dalla Porta Xydias, Se tu vens… , Lint,Trieste, 1978, pag. 214.
(3) Marcello Rossi, … e il sole è tornato a splendere sulla Civetta, Lo Scarpone, 1972.
(4) Ivo Ferrari, Ubriaco sulla cima, in GognaBlog.
(5) Pier Aldo Rovatti, II Piccolo, 11 marzo 2022.
(6) Edgar Lee Master, Antologia di Spoon River, Mondadori, Milano, 1992, pag. 147.
(7) Vittorio Varale, Reinhold Messner, Domenico Rudatis, Sesto grado, Longanesi, Milano, 1971, pag. 306.
(8) Julius Kugy, Dal Tempo passato, Edizioni Adamo, Gorizia, 1982, pag. 197.
(9) Emilio Comici, Alpinismo Eroico, Hoepli, Milano, 1924-2014, pag. 140.
(10) Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Bocca, Torino, 1898, pag. 83.
(11) Severino Casara, Preuss l’Alpinista leggendario, Longanesi, Milano, 1970, pag. 206.
(12) Giampaolo Valdevit, Storia dell’alpinismo triestino, Mursia, Milano, 2018, pag. 163.
(13) Enzo Cozzolino, Etica della scalata: riflessioni, Lo Scarpone, 1972, n. 9.
(14) Ivo Ferrari, ibidem.
(15) Tiziana Weiss, Considerazioni di una sera in Civetta, in “Racconti da Alpi Venete “a cura di Riccarda de Eccher, Manzano-Udine, 2018, pag.22.