(Spiro Dalla Porta Xydias ricorda Emilio Comici)
di Martina Seleni
(pubblicato su Il Piccolo di Trieste il 19 ottobre 2015)
Nato nel febbraio del 1917 a Losanna da famiglia di origine greca, Spiro Dalla Porta Xydias si è trasferito giovanissimo a Trieste, dove tuttora vive. Alpinista, scrittore, giornalista e regista teatrale, è uno dei più noti e prolifici scrittori di montagna italiani. Ecco un’intervista in cui parla del suo rapporto con la Val Rosandra e l’alpinismo e ricorda Emilio Comici, di cui oggi ricorre il 75° anniversario della morte.
Quando e perché ha iniziato l’alpinismo?
Era il 1942, ed è stato per un caso… un po’ ridicolo se non lo si ammanta col velo del romanticismo allora imperante. La fanciulla amata per imposizione materna mi aveva lasciato, e la vita non aveva più attrattive per me. In quel periodo praticavo molto sport, specialmente il tennis (sono stato campione assoluto nel Triveneto) ed il basket (ho giocato in divisione nazionale, equivalente all’attuale A1). Senza il mio amore – ripeto – la vita aveva perso ogni interesse per me… fino a quando un conoscente mi disse che avevo una struttura fisica adatta all’arrampicata, e volle ad ogni costo portarmi ad arrampicare in Val Rosandra. Fu una vera folgorazione: il fascino dell’azione fu tale da farmi dimenticare addirittura gli altri sport. Poi, la mia prima salita in montagna (la Creta Grauzaria sulle Alpi Carniche) al limite delle massime difficoltà, e malgrado il divieto vigente in tempo di guerra, mi legò per sempre alla montagna. L’incredibile prima invernale agli Strapiombi Nord del Campanile di Val Montanaia rinsaldò in me l’amore per l’alpinismo che divenne la prima, quasi la sola, attività sportiva da seguire per tutta la vita.
Quali sono i suoi ricordi della Val Rosandra di allora?
Non era solo un mondo incontaminato, portatore di una genuinità naturale, ma una vera e propria Shangri-La che ti accoglieva la domenica e ti avvolgeva nella sua atmosfera di montagna, facendoti dimenticare gli orrori, i pericoli e le tragedie della guerra. La sua stupenda natura, infatti, era un ambiente che ti offriva l’innalzamento verso il cielo, lontano dalle ambiguità umane.
Chi erano i Bruti?
Il gruppo dei “Bruti” rappresenta nell’ambiente un fenomeno che, a quanto ne so, non si è mai ripetuto. Eravamo ragazzi fortissimi nella scalata, tanto che almeno cinque di noi hanno segnato tappe importanti nella storia dell’alpinismo italiano. Eravamo ragazzi indipendenti, un po’ selvaggi, che non ammettevano gerarchie: anche nella roccia, come in altre situazioni, quello che davvero conta sono le capacità, e non le gerarchie, determinate troppo spesso da “politichine”. E siccome tra essi c’erano i più forti in assoluto della nostra Regione, alcuni di essi riportarono in alto il prestigio della nostra scalata, decaduta dopo la morte di Comici.
Insomma, la montagna è qualcosa più di uno sport per lei. Di che cosa si tratta esattamente?
La scalata è un’espressione artistica. O addirittura anche metafisica.
L’arrampicata come strumento di elevazione spirituale fa pensare ad un altro triestino, Emilio Comici: chi fu per lei?
Un idolo.
Lei ha dedicato a Comici un libro, “Le ali dell’angelo”: qual è, secondo lei, il suo più grande insegnamento come alpinista ed essere umano?
Di libri su Comici ne ho scritto due: uno pubblicato da “Nuovi Sentieri”, l’altro da “Nordpress”. A me Comici – insieme a non tanti altri – ha insegnato che esistono esseri consimili in cui veramente posso avere fede.