(Lavaredo, Pale, Montanaia)
di Ugo Ranzi
Lassù sulle Lavaredo
Ogni appassionato di roccia conosce di fama le Cime di Lavaredo. Le loro pareti nord, la fessura Preuss della Cima Piccolissima, lo Spigolo Giallo sono presenti nell’immaginario di ogni scalatore anche di quelli che, come me, si pongono obiettivi più moderati. Purtroppo le mie spedizioni in zona hanno avuto successo modesto.
La prima volta, poco più che ventenne, andai per qualche giorno al rifugio Locatelli.

Con Giorgio M. l’obbiettivo era lo spigolo Dibona alla Cima Grande. Era il periodo in cui snobbavo le normali perché troppo facili per me. Le guide alpinistiche del tempo erano molto approssimative, non come oggi che descrivono dettagliatamente ogni tiro. Quindi di questo spigolo sapevo solo che la difficoltà era di quarto grado e quindi nelle mie capacità, la via era ovvia bastava seguire lo spigolo, sulle foto era molto bello: in fondo anche Cassin aveva fatto le Grandes Jorasses guardando una cartolina. Le cose non furono così semplici, innanzitutto il tempo era brutto, negli anni ‘60 si andava in montagna quando si poteva e il tempo atmosferico lo scoprivi tu, forse non esistevano neanche le previsioni. Lo spigolo si poteva attaccare anche da nord, come tentammo noi, ma era molto più difficile, inoltre era giugno e l’attacco era ancora innevato e in parte ghiacciato. Dopo un po’ di tentativi sempre meno convinti lasciammo perdere e ci limitammo a fare il giro sotto le tre Cime, anche se un po’ scossi dal rumore delle cadute di sassi e di ghiaccio che sentivi arrivare dall’alto ma, c’era anche la nebbia, non le vedevi fino a quando non si schiantavano a terra a pochi metri da noi. Per fortuna le pareti strapiombavano e quindi non c’era pericolo, ma la tensione era ugualmente tanta.
I giorni successivi il tempo rimase stabile sul brutto quindi la spedizione si concluse con un nulla di fatto. Rimasero solo due ricordi: 1) una ragazza tedesca che si era cambiata nella camerata restando in slip e reggiseno, se le tedesche erano così disinibite chissà le svedesi di cui tanto si parlava (che inoltre erano tutte bionde con gli occhi azzurri) 2) durante il giro attorno alle Tre Cime un leprottino spaventato dal nostro arrivo si era rifugiato in un anfratto della roccia: ci spaventammo molto più di lui vedendo che nello stesso anfratto giaceva una granata inesplosa residuo della guerra mondiale. Se l’animaletto si fosse troppo agitato avrebbe dato la risposta alla domanda “potrà ancora scoppiare?”, così ci allontanammo lentamente per non spaventarlo.
La seconda volta l’obiettivo era la normale della Cima Piccola con terminale camino Zsigmondy Partecipavano: ancora Giorgio M., ma solo come osservatore, e Alessandro come arrampicatore. Cominciò tutto con un record: casa mia (a Milano) – rifugio Auronzo ore 4. Avevo ottenuto dalla ditta come “company car” una Audi 90, la mia prima auto da 200 all’ora. Partenza ore 5 di mattina, arrivo ore 9, non c’erano ancora tutor e autovelox. Dopo essere andati a toccare l’attacco del leggendario Spigolo Giallo percorrendone i primi tre metri, ci dedicammo alla nostra via.

La normale partiva molto più in là ma noi decidemmo di attaccare la paretina subito a sinistra dello Spigolo Giallo, poi ci saremmo riuniti più sopra alla normale. Dopo quindici metri l’arrampicata era già finita, un pinnacolo di roccia di parecchi quintali, da me appena sfiorato, dopo millenni in quella posizione decise di cambiare posto approfittando della legge di gravità. La vera gravità però era che nel nuovo posto da lui prescelto c’era Alessandro che fortunatamente aveva pronti riflessi e appiattitosi come da manuale contro la roccia, assistette da spettatore e non da protagonista alla esplosione del pinnacolo a mezzo metro da lui. La corda invece, che era nuovissima, non aveva avuto gli stessi pronti riflessi e fu triturata in vari punti. Senza corda non si poteva più arrampicare: d’altronde, anche se fosse stata integra, lo spavento era stato grande e ci sarebbe mancata la determinazione che serve per arrampicare. Ce ne andammo tutti al rifugio Locatelli per guardarci le pareti nord; ricordo che sulla forcella Lavaredo c’era un vento tanto forte che Alessandro ci si sdraiava contro senza cadere a terra.

Finalmente negli anni ’90 sono riuscito a salire su una delle Tre Cime, la cima Piccola. Massimo e io, lasciate al rifugio Lavaredo le relative mogli Franca e Mila, “torniamo presto è una via breve”, abbiamo affrontato la via normale. Tutto bene anche sul camino Zsigmondy, ultima difficoltà prima della vetta. Peccato che la nebbia abbia rovinato il panorama e anche i programmi di abbronzatura delle mogli che innervosite invece che con un “bravi” ci accolsero col solito “ma quanto ci avete messo”. Non era vero, eravamo in buona forma e salendo in alternata avevamo impiegato un tempo da ventenni.

Lassù sulle Pale di San Martino
La roccia ideale l’ho trovata sulle Pale di San Martino. Ho fatto solo poche vie, probabilmente anche lì ci sarà della roccia friabile ma quelle che ho fatto mi hanno fatto credere che quel gruppo sia l’eldorado della roccia. Sui circa 8/900 metri, somma delle tre vie che ho percorso, non si è mosso neanche un sassolino e tantomeno un appiglio.
Lo Spigolo del Velo non era iniziato sotto buoni auspici, eravamo andati a Moena a casa di Giorgio A., figlio di uno dei grandi alpinisti trentini degli anni ’30 apritore di vie eleganti e difficili nelle Dolomiti di Brenta e non solo; il tempo era peggiorato per cui ci eravamo fermati lì in attesa di vedere come si metteva nei giorni seguenti. Oggi basta controllare su internet le previsioni eventualmente confrontando vari siti, ma noi non avevamo neanche la televisione, unico previsore a quel tempo. Ci siamo fermati a dormire a casa sua. Vista la situazione non eravamo molto ottimisti per cui ci eravamo un po’ lasciati andare sul mangiare e sul bere. In particolare avevamo abbondato con una bottiglia di Tre valletti Sarti, un liquore tipo cognac oggi praticamente sconosciuto.
Su quella bottiglia si raccontava una storia non so se vera o se leggenda. Durante la disfatta della seconda guerra mondiale un vagone pieno di bottiglie di quel liquore, diretto a Monaco per allietare i perdenti teutonici, all’altezza di Trento era stato dirottato sui binari che servivano un acetificio locale. Da quel giorno, per qualche decina d’anni molte sbronze sono state causate localmente da quel dirottamento, anche la mia di quella sera.
La mattina dopo il sole splendeva radioso e ironico nel cielo azzurro, per cui riprendemmo il programma originale anche se a mattino molto avanzato. Avevamo il Maggiolino di Giorgio A. e quindi guidava lui, la strada da Moena al passo Rolle è tutta curve e le mie condizioni di stomaco non le gradivano proprio, per cui dopo un paio di fermate per insozzare il terreno di due tornanti dovetti prendere la guida io. Migliorata la mia situazione fisica tra verdi prati e boschi di alti pini cominciammo la camminata per il bivacco del Velo: oggi c’è un bel rifugio, ma a quel tempo solo un funzionale bivacco di lamiera. In quei boschi ho visto l’unico gallo cedrone della mia vita, almeno per ora.
Arrivati al bivacco una brutta sorpresa, una decina di tedeschi sdraiati nei loro sacchi pelo per passare la notte. Colle pochi nozioni di tedesco di mia conoscenza chiesi “warum?” e mi risposero “geschlossen!” Avevamo camminato un paio d’ore per trovare un bivacco chiuso. Incavolato come non mai decisi di buttare giù la porta ma Giorgio mi parlò di risvolti legali, penali, ecc. per cui mi limitai a tirare un pugno all’uscio. A vent’anni ero abbastanza forte, ma credo che la porta, che era aperta ma solo un po’ incastrata, si sarebbe aperta spingendo solo un po’ più vigorosamente. I tedeschi ligi alle loro giuste regole “se è chiuso non si deve entrare” non avevano insistito abbastanza. Chiaramente i due letti migliori li prendemmo io e Giorgio per meriti conseguiti.

Il giorno dopo tutto cambiò, ero in forma smagliante e la via era veramente all’altezza della sua fama, per esposizione e roccia meravigliosa. Salimmo dalla via solita, rimandando la variante Steger ad un’altra volta. Dopo un paio di tiri facili seguiva uno stretto camino. Giorgio lo affrontò ad incastro, facendo una gran fatica anche perché il suo poderoso torace aggiunto all’ingombro dello zaino poco si addiceva alla strettezza del camino. “Ti conviene salire all’esterno” mi suggerì. Era il periodo in cui mi piacevano i diedri e così, usando la stessa tecnica, salii a spaccata sfruttando i bordi esterni del camino. Grazie alla tranquillità dell’assicurazione di Giorgio dall’alto superai elegantemente l’ostico tiro. Seguirono dei passaggi fantastici, ne ricordo uno dove la roccia era così lavorata che mi faceva pensare a un nido d’ape. Lo Spigolo del Velo mi regalò una delle mie migliori prestazioni arrampicatorie. Non l’ho più ripetuto proprio per non rischiare di rovinare l’unicità di quel ricordo. La stessa cosa l’ho fatta per la parete Preuss del Campanil Basso, anche in quell’occasione avevo arrampicato in stato di grazia, quasi incredulo di essere io su quella parete che negli anni ’60 era ancora considerata una delle salite importanti nelle Dolomiti di Brenta.

Lo spigolo Ovest del Sasso d’Ortiga è famoso per la sua bellezza quasi quanto quello del Velo, salito da Wiessner, uno dei primi sestogradisti degli anni ’20. Lo ricordo come una via bellissima ma non ne ricordo i particolari perché l’ho salita quasi tutta da secondo. Primo di cordata era Gianni che avevo conosciuto per lavoro in una ditta di Mandello Lario. Lui era istruttore nazionale, siamo diventati amici e abbiamo fatto qualche bella salita assieme. Mi ha portato sulle Piccole Dolomiti, lui era originario di Schio, e mi ha introdotto all’uso delle scarpette e di nut e friend. Purtroppo quelle montagne non le ho mai viste bene perché tutte le volte che ci sono andato c’era la nebbia. Io non ho mai usato la magnesite, solo lì una volta ho usato quella di Gianni per asciugare gli appigli che la nebbia inumidiva. Anche il Sasso d’Ortiga l’ho salito una sola volta.
Invece la Punta della Disperazione l’ho salita parecchie volte, sempre con Massimo. Sconosciuta ai più e anche con un nome poco attraente, offre una roccia fantastica con appigli a profusione, ce ne sono talmente tanti che si potrebbe scalare a occhi chiusi. Il nome un po’ infelice è stato dato dai primi salitori che, chiusi da tanti giorni in rifugio per causa del brutto tempo, avevano salito quella punta per disperazione.
Avrei desiderato tanto salire anche la Cima Canali ma non ne ho mai avuto l’occasione, anzi non l’ho neanche mai vista.
Lassù sul Campanile di val Montanaia
Infatuato del Campanil Basso non avevo mai seriamente preso in considerazione l’altro famoso campanile delle Dolomiti. Le due vette avevano casualmente avuto una storia simile per la loro conquista: saliti fin quasi in cima da una cordata italiana erano stati poi conquistati per la prima volta da una cordata austriaca. Da anni Claudio mi magnificava questa via, finalmente ci fu l’opportunità e, assieme a noi Giorgio M. come accompagnatore non scalatore, ci recammo al rifugio Pordenone, base per la salita.
Il rifugio era gestito dalla signora Narcisa che alla fine della cena si avvicinò e timidamente ci chiese “Siete di Milano?” “Sì, di Milano e dintorni” “Ma è vero che a Milano chiudete la porta a chiave?” Che bello! Eravamo già nel nuovo millennio con tutto il suo carico di nefandezze in giro per il mondo e c’era ancora un luogo dove esisteva ancora tanta fiducia nel prossimo.
Il sentiero per arrivare al Campanile iniziava nel bosco dietro il rifugio e saliva con buona pendenza. Avevo gli scarponi nuovi e assaporavo la comodità delle moderne realizzazioni ergonomiche che si adattavano confortevolmente al piede. Che differenza con gli scarponi anni ‘50/’60 che avevano bisogno di 4 o 5 camminate perché il piede si adattasse agli scarponi a suon di vesciche.
In buona forma salivo i tornanti del sentiero con passo rapido, almeno secondo me, quando vidi arrivare uno che saliva per la linea di massima pendenza tagliando i tornanti. Quando fu più vicino lo riconobbi, era Mauro Corona a quel tempo non ancora famoso. Avevo letto qualche suo libro e sapevo che era uno dei più forti scalatori di quegli anni. Arrivati all’attacco facemmo due chiacchere, lui era stato sul Campanile più di 100 volte e quel giorno saliva con un’amica e con una cliente svizzera.

La scalata, molto bella, non opponeva grandi difficoltà fino alla fessura Cozzi. Sulla fessura, che non era protetta da chiodi, mi furono molto utili i consigli di Corona di come superare il difficile passaggio incastrando un piede per traverso. Seguiva un’aerea traversata fino alla cengia sotto l’ultima difficoltà una specie di cappa di camino da salire all’esterno. Sulla vetta suonammo la campana e Claudio, particolarmente affezionato a quella cima, si è commosso. Niente di male, è capitato anche a me sul Campanil Basso tornatoci dopo molti anni di assenza. La discesa in corda doppia di cui una particolarmente aerea lungo gli strapiombi nord ci riportò alla base dove Giorgio ci attendeva.
Relativamente a quegli strapiombi negli anni Trenta si era innescata una di quelle spiacevoli polemiche che qualche volta inquinano l’alpinismo, Severino Casara affermava di averli saliti in solitaria ma molti non gli avevano creduto anche se nessuno aveva potuto dimostrarlo. Anche l’accurata analisi del libro di Gogna La verità obliqua di Severino Casara non ha potuto raggiungere una verità.

La giornata terminò con la visita alla tristemente famosa diga del Vaiont, al posto dell’acqua c’erano colline con alberi e cespugli. Al pensiero dei tanti lutti e dolori causati da quella tragedia non riuscii a trattenere il pianto.
Volaree no, no, cantaree sì sì
Quando ho cominciato ad arrampicare, negli anni ’60, molte cose erano diverse. Zaini pesanti, corda da 40 metri, scarponi, berretto (il casco lo usavano solo i tedeschi), corda intorno alla vita, nodo delle guide o bulino, doppia alla Piaz, moschettoni di ferro e chiodi appesi alla corda, relazioni poco dettagliate, soste spesso da attrezzare, telefoni solo nei rifugi e neanche in tutti, barelle di soccorso a spalle fino in valle. E poi “vietato volare”, gli ancoraggi erano normalmente piuttosto lontani e una caduta poteva avere gravi conseguenze. Mi insegnavano e insegnavo tre arti fermi e uno solo in movimento. Nel libro L’arte di arrampicare di Emilio Comici c’erano delle foto di Comici che cadeva per spiegare come comportarsi nel malaugurato caso di volo.
Oggi il casco è praticamente obbligatorio ed è bene sia così, poi ci sono cinturone, nut, friend, spit, relazioni tiro per tiro, soste cementate, scarpette, discensori di tutti i tipi, corde leggere da 60/70 metri, cordini in kevlar, relazioni su internet, zaini dedicati, nodo a otto, video e foto si possono fare col telefono e anche con i droni, telefoni cellulari, elicottero per trasporti e soccorsi. Il volo non è più tabù, molte vie difficili le aprono dopo decine di voli. Con l’avvento dell’aderenza la regola dei tre arti in sicurezza ha poco valore. L’aderenza non è tra le mie progressioni preferite, se necessario qualche passaggio va bene, ma una via con tanta aderenza non mi attira proprio. Per ora ho avuto la fortuna e forse anche l’abilità di non essere mai volato.
Spesso in rifugio, dopo la cena, si cantava fino al silenzio imposto dal gestore. Erano canzoni di montagna, canzoni della guerra, canzoni popolari, le sapevo tutte. Il coro della SAT, alla cui fondazione aveva contribuito anche mio papà, era famoso nell’ambiente e si cercava di imitarlo almeno negli effetti più facili. Uno dei miei bei ricordi è quello delle cantate che si facevano dietro la chiesetta del rifugio Agostini nelle notti di agosto, durante la scuola di roccia Graffer, cantavamo e esprimevamo desideri ad ogni stella cadente.
Oggi, purtroppo, vado poco in rifugio ma quelle poche volte ho avuto la sensazione che quella bella tradizione si sia persa e io non posso più prendere l’iniziativa, purtroppo con l’età sono diventato stonato ed è meglio che me le canti da solo.