È proprio questo che ci si ostina a non comprendere. Che le sue rocce siamo noi, la sua neve è la nostra anima.
Marmolada, un incanto che scompare
di Matteo Righetto
(pubblicato su lastampa.it/green-and-blue il 30 dicembre 2023)
Un’antica leggenda dolomitica narra di un’immensa distesa di prati posti proprio dove ora sorge la Marmolada. Come si sa, un tempo si seguiva il ritmo delle stagioni e così tutte le estati gli abitanti della Val di Fassa erano impegnati nello sfalcio dei prati in quota.
Ognuno aveva dei compiti precisi. Chi falciava, chi si caricava il fieno sulle spalle e chi lo ammassava nei piccoli “tabià da mont”, i fienili di alta montagna. L’estate scorreva veloce e il cinque agosto, festa della Madonna della Neve, tutta la gente cessò la fienagione, scese dall’alpeggio e si recò alla processione.
Tutti tranne una vecchia contadina la quale, visto il bel tempo e temendo che potesse presto guastarsi, pensò che per una volta sarebbe stato meglio continuare a falciare i prati anziché recarsi alla funzione religiosa.
Giù a valle la comunità disapprovò la sua scelta egoistica, ma lei se ne stette lassù a fare fieno ripetendo:
“Madona de la Nef de cà, Madona de la Nef de là, e mi ei el fen ite tabià!“
(Madonna della neve di qua, Madonna della neve di là, e io intanto ho il fieno nel tabià!)
Fu un triste presagio per l’intera comunità così devota, e infatti il tempo cambiò rapidamente. L’aria si fece molto fredda, il cielo si ricoprì di nuvole e, poiché nessun fiocco di neve cade mai nel posto sbagliato, presto nevicò così tanto che un enorme e pesante manto bianco ricoprì l’intera montagna.
In pochi istanti la vecchia finì sepolta sotto una pesante coltre che non si sciolse mai più dando così origine al ghiacciaio perenne della Marmolada, che nelle tradizioni ladine da quel giorno rappresenta un’eterna riserva d’acqua a garanzia di prosperità, ricchezza e speranza per le generazioni future.
Una leggenda, questa, che mi fa sempre tornare alla mente Scott Momaday, nativo americano premio Pulitzer 1969 il quale nel suo memoir “Custode della terra” scrisse: “Le acque parlano del tempo. Da sempre i fiumi scorrono sulla terra e placano la sua sete. Senza acqua appassiremmo e moriremmo, e con noi tutto ciò che conosciamo”.
Dalla spiritualità Kiowa e Navajo alle saghe ladine, l’interpretazione che gli antichi davano ai ghiacciai e alla loro riserva d’acqua sostanzialmente non cambia.
Comuni sono la magia, l’incanto delle tradizioni orali di un’etica della terra che si è fatta letteratura universale. Non è forse questo un richiamo ancestrale a farsi custodi dell’eterna bellezza che ci circonda? Non è una meravigliosa testimonianza di appartenenza al paesaggio naturale e di unione indissolubile tra uomo e creato?
Leggenda a parte, purtroppo oggi il ghiacciaio della Marmolada non esiste praticamente più e di conseguenza ha cessato di vivere anche quell’eterna prosperità evocata dalla saggezza della letteratura orale degli antichi.
L’aumento della temperatura minima invernale sulla Marmolada è cresciuto di 2 gradi nel corso di trentacinque anni di osservazioni scientifiche e ora il ghiacciaio è grande un decimo rispetto a un secolo fa: si è ridotto di più del 70% in superficie e di oltre il 90% in volume.
Si tratta di un fenomeno in progressiva accelerazione, sostengono i glaciologi, tanto che in meno di mezzo secolo la sola fronte centrale è arretrata di più di seicento metri risalendo in quota di altri trecento.
Tra meno di vent’anni il maestoso manto bianco della Marmolada sarà scomparso del tutto e con esso se ne andrà per sempre una buona parte dell’identità ladina che da tempi immemori vive ai piedi di questa montagna sacra.
Perché purtroppo è proprio questo che ci si ostina a non comprendere. Che le sue rocce siamo noi, la sua neve è la nostra anima.
E il respiro della Terra è il nostro respiro.
Forse scompare l’incanto del ghiacciaio, ma rimane l’incanto delle rocce!