di Giorgio Giua, pubblicato all’interno della raccolta Giorni Diversi
Cammino, sci in spalla, nel boschetto che costeggia il vallone, nella testa il ritornello:
Una vita da mediano
A recuperar palloni
Nato senza piedi buoni
Lavorare sui polmoni
Non sono nemmeno un appassionato di Ligabue, né tanto meno so giocare a calcio, sono sempre stato negato per gli sport di squadra. Eppure questo motivo mi è familiare, mi ricorda come sono fatto, un uomo di fatica, senza talenti particolari.
Sempre lì
Lì nel mezzo
Finché ce n’hai stai lì
Anche io sto qui nel mezzo e lavoro sui polmoni mentre sudo e arranco per uscire dall’intrico degli alberelli, con gli sci che sbattono sui rami bassi. Tra poco finalmente potrò calzarli e salire con le pelli, libero, in mezzo al vallone. So che manca poco, percorro spesso questo itinerario, da solo o in compagnia, con il bello e con il cattivo tempo, lo conosco quasi a memoria: sto solo attento che sia già caduta la grande valanga dal versante Ovest del Sevice, poi non ci sono altri pericoli.
Il Velino è il mio giardino di casa; quando ho voglia di aria buona, oppure c’è qualcosa che mi tormenta e ho bisogno di far scorrere i pensieri, vengo qua, a fare la mia gita ideale, solo un’ora dal Raccordo Anulare per una vetta di tutto rispetto, che ti fa assaporare l’alta quota anche se a Magliano gli alberi sono già tutti in fiore.
Una vita da mediano…
a giocare generosi…
La differenza tra il significato originale della canzone e quello che gli attribuisco personalmente sta nel fatto che, non essendo un giocatore gregario, mi sottopongo, si, a grandi fatiche, ma lo faccio per me, per soddisfare le mie ambizioni e raggiungere i miei pur modesti obiettivi. Altrimenti non sgobberei sulle salite di Villa Pamphili e non farei le ripetute in pista con le mie sempre più esigue fibre rosse.
Però ci tengo a restare in forma; so che al rifugio guarderò l’orologio e mi riterrò soddisfatto se il riscontro cronometrico sarà ancora intorno alle due ore. Mi piace andare in montagna e non avere il fiatone, sentire il mio cuore lento che comincia a carburare dopo un’ora; quando gli altri già pensano ad una sosta, io allungo il passo. Posso arrivare al Velino tutta una tirata, senza fermarmi nemmeno per bere. È questo il mio vero punto di forza: la volontà di andare, di non fermarmi, di finalizzare comunque, qualsiasi cosa.
Che natura non ti ha dato
Né lo spunto di una punta
Né del 10 che peccato…
Ho cominciato a comportarmi così all’università: volevo sbrigarmi, rendermi indipendente prima possibile. Non avevo nessuna propensione particolare né per l’elettronica, né per l’informatica. Potevo scegliere qualsiasi facoltà, ed ho scelto quella dove ero sicuro di trovare lavoro rapidamente.
E così è stato: ogni due mesi un esame, cascasse il mondo, un esame. Dal lunedì al venerdì segregato in casa a studiare 8-10 ore al giorno, il sabato in montagna e la domenica regata. Una macchina ben oliata, con poco spazio per la convivialità, per le amicizie allargate, per le stupide, benedette cose che si fanno da ragazzi. Senza un’ubriacatura, una canna, una notte in bianco. Niente di tutto questo: solo studio-vela-montagna; 27, 27, 27, senza guizzi, senza passioni oltre a quelle del fine settimana.
Qualche raro 30, nemmeno un 30 e lode, qualche esame sotto il 24 e una sfilza impressionante di 27. Non avevo tempo per studiare bene una materia: la studiavo e basta e poi andavo a fare l’esame.
Finalmente la neve! Bella liscia nel vallone, appena smollata dal primo sole radente: senti come si va con le pelli, dritto per dritto nel centro del fosso, con i tricipiti che lavorano in perfetta sintonia con le gambe. Che meraviglia questa armonia di muscoli sudati in movimento!
Quante volte avrò fatto il Velino? 50, 100 volte? Perché mi piace ancora così tanto? Forse perché la mia natura è proprio quella del mediano; provo piacere nel gesto del movimento che sia al passo o di corsa o, il massimo, degli sci che scorrono sulla neve primaverile. Recupero i palloni e me li passo da solo. Ogni nuovo Velino è un pallone recuperato. Un’opportunità che si rinnova ogni volta.
Ho fatto delle rinunce, a volte dolorose, per diventare così. Mi viene sempre in mente la metafora orientale che parla del barattolo pieno di granelli di sabbia più o meno grossi. Ogni granello rappresenta un affetto, un progetto, un interesse, una cosa che vorresti fare o a cui tieni. Nella vita succede però che non riesci a fare tutto quello che vorresti e non riesci a dedicarti a tutte le persone che conosci. Allora fai dei buchi piccolini sul coperchio del barattolo e cominci a scrollarlo come si fa con una saliera: i granelli più piccoli escono e rimangono solo quelli di dimensioni medie e grandi. Provi ad andare avanti così e magari ce la fai per un periodo di tempo anche abbastanza lungo. Ma poi gli interessi cambiano, le amicizie finiscono o si rinnovano, come gli amori, e sei costretto a fare un altro giro. Fai dei buchi un pochino più grandi e scrolli di nuovo il barattolo.
Alla fine del percorso rimangono solo i grani più grandi, quelli a cui tieni veramente e che fai di tutto per tenerti. Quante volte ho scrollato il barattolo? Parecchie, sicuramente. Ma il grano grosso della montagna vi è sempre rimasto ben contenuto.
Ma che bello il Rifugio del Sevice, ancora mezzo coperto di neve! Come cambia lo scenario al colletto. Addio primavera e benvenuto inverno: ci saranno ancora un paio di metri di neve nella conca e guarda ancora che cornici verso la Val di Teve!
Mentre levo gli alzatacchi e mi avvio tranquillo sul tratto pianeggiante, ripenso al barattolo. Quanti libri non ho letto? Quanti interessi non ho coltivato? A quante amicizie ho rinunciato? Mi ricordo le discussioni infinite al parcheggio della Renault sulla via Tiburtina, la mattina alle 6,00, per decidere la meta del giorno.
A un certo punto ho detto basta: ho cominciato ad essere più dirigista e ad assumermi la responsabilità delle mie scelte. Ho cominciato anche ad andare in montagna da solo e ne sono rimasto estremamente soddisfatto. Non avevo più bisogno di nessuno. Volevo solo il piacere della compagnia per chi aveva voglia di condividere le mie stesse esplorazioni. Una bella scrollata al barattolo.
Mi hanno accusato di preferire l’escursione alla compagnia. È vero: ho capito che per me era più importante “il viaggio” dei “viaggiatori” e che mi pesava di meno rinunciare alle persone che agli obiettivi. Così facendo ho però trovato nuovi compagni di viaggio con i quali ho spesso condiviso gli stessi obiettivi. Mi sono addirittura innamorato, condividendo, in perfetta sintonia, dei nuovi obiettivi.
Ecco finalmente la piramide sommitale del Velino; che bella che è, così elegante, così svettante rispetto alle montagne intorno e alla piana. Ancora pochi passi e sarò alla croce, magnifica incrostata di neve com’è, che punta a sud, verso Massa d’Albe, 1500 metri più in basso.
Guardo l’ora: le 11,30, va bene, tre ore e qualcosa, ci posso stare; un mediano stagionato, ma pur sempre un mediano. Levo i coltelli da neve e li metto ad asciugare al sole insieme agli sci con le pelli ancora montate. Posso mangiare un boccone con calma intanto che aspetto che il Vallone dell’Orso, esposto a sud ovest, vada in condizione.
Ma quanto mi piace mangiare un pezzo di formaggio, in vetta, quando c’è il sole? Meglio se abbracciato a lei o con gli amici che raccontano aneddoti, ma va bene anche da solo. Tanto poi qualcuno arriva sempre, magari a piedi da Corona. Si fanno due parole e passa quella mezz’oretta necessaria per rendere il manto nevoso, indurito dal gelo della notte, appena un po’ morbido, pronto per essere inciso dalle lamine, senza far traballare gli sci.
Eh già, pure sul pranzo in vetta qualcuno ha sempre avuto da ridire:
“una barretta, due noccioline, tanto poi ci fermiamo a pranzo al ristorante”. A me non è mai piaciuto mangiare al ristorante dopo le gite, magari alle quattro del pomeriggio. Io alle quattro voglio stare sull’autostrada verso casa, già con il pensiero rivolto ai miei cari che mi hanno lasciato andare senza chiedermi nulla in cambio. Mi va bene una birra di fine gita, magari un tagliere per i più affamati, ma un pranzo no, non lo contemplo. Preferisco anticipare la cena, piuttosto, e andare a letto dopo avere avuto il tempo di digerire.
È ora di andare; il tipo barbuto con i ramponi, a cui ho offerto uno spicchio d’arancio, mi guarda con sospetto mentre traffico con le pelli e inorridisce quando gli dico che scendo di là. Il Vallone dell’Orso non è frequentato né dai camminatori, né dai ghiacciatori: troppo complicato per gli uni e troppo facile per gli altri. È un percorso per sciatori, bello, ripido, con un paio di strettoie dove serve un po’ di mestiere e con l’esposizione giusta da sfruttare ai primi di marzo; purtroppo spesso un po’ magro di neve, ma a me non importa. Non mi importa di farmi un’ora con gli sci sulle spalle al ritorno, come non mi è importato di farlo all’andata. Non ho più voglia di discutere con i “signorini” delle nevi che pretendono di arrivare sci ai piedi all’auto. Quelli che privilegiano la gita banale, ma con la neve migliore, quelli che devono arrivare con il SUV fin sotto ai canaloni e che ogni volta ti chiedono se devono portare i ramponi e la pala.
Lo scialpinismo non è questo, non è come al bike park: prendi la seggiovia, scendi, riprendi la seggiovia, riscendi.
Lo scialpinismo è fatica, freddo, competenza, esplorazione, conoscenza del territorio e della neve, è l’intuizione che ti può salvare la vita.
Non potrò mai preferire tre sciate da 500 metri con 2 risalite su una montagnola anonima ad una gita da 1500 metri come questa! Io qui respiro aria pura, la neve potrà essere bella oppure no; forse sarà dura in alto, bella nella parte centrale e pesante in basso, ma non mi importa! Ho rivisto le magnifiche cornici che aggettano sul Vallone dei Briganti e la Madonnina che mi sorride ogni volta che sbuco in cresta dopo l’ultima inversione di marcia. Non mi serve di più: qui sto in pace e so che la discesa sarà comunque appagante.
Saluto il barbuto e inforco gli sci per la discesa, le gambe ben riposate dopo la pausa prolungata. La neve è una meraviglia e il sole mi scalda piacevolmente tutto il corpo. Trovo subito il ritmo giusto e dopo pochi minuti sono nella parte centrale più ripida e stretta. Ma la neve è stupenda, anche questa volta ho azzeccato il giorno e l’orario. Un po’ sono fortunato, un po’ sono bravo, lo so.
Soprattutto sono un mediano agguerrito che non molla alla prima avversità, che non si lamenta se la neve è crostosa o se ha le mani gelate. Che ha ancora delle aspirazioni e che non esita a scrollare il barattolo se capisce che è giunto il momento di rinunciare a qualcosa o a qualcuno.
Mentre cammino di buon passo nella macchia bassa per ritornare al parcheggio, un branco di cervi mi attraversa la strada. Sono belli, senza palchi in questa stagione, ma comunque eleganti. Non mi hanno visto, probabilmente loro sono sopravvento, e ci mettono un po’ ad allontanarsi.
Rimango a guardarli beato appoggiato sui bastoncini e penso che, se c’è ancora speranza a questo mondo, è qui che bisogna venire a cercarla, tra le pieghe della neve e il profumo del bosco.