In una recente intervista pubblicata su GognaBlog il 6 marzo 2020, Roberto Aruga ha fatto un interessantissimo accenno al tema “scialpinismo e racconto”.
Lo spunto di Roberto ha smosso in me antichi ricordi: sono andato a recuperare alcuni racconti ambientati in contesti scialpinistici. Si tratta di scritti risalenti alla prima metà degli anni ’90. Come tutta la nidiata dei miei testi di fiction di montagna venuta alla luce in quel particolare periodo, si tratta di testi che costituirono il mio passaggio dalla stesura di articoli tecnici (relazioni e monografia, sia alpinistiche che scialpinistiche, iniziate nei primi anni ’80 e proseguite poi senza soluzione di continuità fino ai nostri giorno) ai racconti di fantasia.
In realtà tale maturazione è transitata attraverso uno step intermedio: ovvero la compilazione delle introduzioni agli articoli tecnici. In molte di queste introduzioni, dove si spiegano ai lettori le motivazioni di interesse o addirittura di affetto verso una particolare montagna o una specifica valle, già si sconfina oltre i limiti dell’articolo tecnico in senso stretto. E’ un “vezzo” che mi ha sempre contraddistinto e anche le introduzioni degli articoli tecnici che continuo a scrivere oggi hanno un contenuto di tale natura.
Ma nella fase esistenziale che attraversai nella prima metà degli anni ’90 il processo si completò portandomi all’inizio della stesura di racconti veri e propri: dove emozioni, pensieri, sentimenti, paure e altro si tramutano in un testo apparentemente di fantasia. Chi conosce i risvolti personali della mia vita, potrebbe riconoscere personaggi e avvenimenti che confluiscono nei racconti. Ma in genere la macchina elaborativa mescola personaggi, avvenimenti, stati d’animo che, nella realtà, sono avvenuti in occasioni molto diverse e a volte ben distanti nel tempo. Il prodotto finale ha una sua identità autonoma che non ha più nulla a che fare con i riferimenti alla realtà personale.
Dopo un’ondata di circa una ventina di racconti dei primi anni ’90 (alcuni pubblicati su riviste di rilievo, tipo La Rivista della Montagna o Alp, altri rimesti nel cassetto), la vita reale mi ha distratto con ben altri impegni: responsabilità e ambizioni professionali, matrimonio, subito i figli…
Ma la sorgente dei racconti non si è essiccata del tutto e, in occasione di un successivo passaggio professionale a cavallo del 2010 (cioè all’incirca 15 anni dopo) è riemersa prepotentemente, traducendosi in un’altra quindicina di racconti, che spaziano anch’essi dall’alpinismo all’arrampicata, allo scialpinismo e addirittura al canyoning.
Per la cronaca, a cavallo del 2010 ho anche rivisto e corretto i racconti dei primi anni ’90 e ho messo insieme le due “famiglie”, dando vita al mio primo libro: La Mangiatrice di uomini e altri racconti, uscito nel 2011. Il libro è esaurito da tempo (presumibilmente per la tiratura limitata), ma mi dicono che si trova in commercio su internet (E-Bay, ecc.) e che le principali biblioteche di montagna dispongono di una copia in lettura.
Sono molto affezionato ai miei racconti di montagna, perché a loro volta costituirono un trampolino per una successiva evoluzione editorial-esistenziale: la stesura di romanzi, sempre inseriti in contesti “montani”, di cui a suo tempo sono state pubblicate le recensioni anche su questo blog.
Insomma, per me scrivere è vivere, non riuscirei a concepire le due cose staccate. Nella mia esistenza reale la montagna ha sempre ricoperto un ruolo di rilievo, per cui non deve stupire se ciò accade anche nella mia attività editoriale.
Così come la vita è poliedrica e multiforme, anche la scrittura è trasversale e duttile: relazioni tecniche, racconti, romanzi, articoli di opinione per me sono solo le molteplici facce della stessa attività. Della vita stessa.
Il citato spunto iniziale, quello di Roberto Aruga, mi ha fatto tornare in mente uno dei miei racconti ambientati in un contesto scialpinistico: questo particolare testo negli anni ’90 non trovò immediato sbocco editoriale, ma rientrò a tutti gli effetti nella citata raccolta del 2011.
Il racconto è ambientato nel bacino dell’Argentière (Monte Bianco), dove mi sono recato numerose volte, spesso con gli sci, ma anche senza. E’ un luogo (fra i tanti) di cui ho sempre apprezzato il fascino irresistibile. Il racconto in questione è il classico esempio di come, nello scrivere, la fantasia prelevi elementi propri di momenti e di contesti diversi e li misceli nel risultato finale, che non ha più nulla a che fare con gli input iniziali.
Spero di regalarvi un quarto d’ora di relax (Carlo Crovella).
Prima e dopo
di Carlo Crovella
(pubblicato nel volume La Mangiatrice di uomini, Vivalda Editore, Torino 2011)
Cindy prese gli sci in mano e scese la scaletta fino al colletto nevoso. Guardando a ovest, verso la catena principale del massiccio, i raggi bassi del sole al tramonto colpirono i suoi occhiali argentati.
“Sono alpinisti!” disse al collega uno degli addetti alla sicurezza delle piste. Evidentemente era bello poterli distinguere dalla massa dei pistaioli. Loro due calzarono gli sci al colletto e si tuffarono sul versante Argentière.
“Qui c’è una crepaccia terminale che a volte fa veramente paura, come l’inverno scorso”.
“Quella volta con Gianfranco e Luisa?” volle sapere Cindy.
“Proprio allora. C’era ghiaccio verde ed abbiamo dovuto saltarla con gli sci ai piedi”.
“Avevi paura?”.
“Ho sempre paura in montagna!”.
Proseguirono lungo la pista balisè con una sciata a curvoni larghi e veloci. I loro zaini pesanti non permettevano le strette serpentine dei pistaioli.
“Fa caldo”. Borbottò lui e si slacciò il bavero della giacca.
Arrivarono trafelati al bivio. Un cartello indicava: Refuge d’Argentière, ma in ogni caso molte tracce rivelavano la strada da seguire. Si trattava di abbandonare la pista, che proprio in quel punto piega decisamente a sinistra, e di puntare verso l’ampio pianoro glaciale.
Si fermarono a rifiatare e lui la guardò.
Pensò: “Chissà perché non si è mai innamorata di me?”.
Il sole dietro alla testa di lei giocava a nascondino con i suoi capelli scuri e arruffati. Per interrompere la situazione un po’ imbarazzante, lui capì che doveva dire qualcosa.
“Una volta qui ci siamo persi”.
“Quando?” lei si incuriosì.
“Due anni fa, in primavera. Anche allora avevamo sciato tutto il giorno su e giù per gli impianti, lasciando come oggi gli zaini all’intermedio della funivia. Poi abbiamo preso l’ultima benne, come la chiamano i francesi, fino in cima ai Grande Montet e siamo scesi da questa parte che era quasi buio”.
“Chi c’era?”.
“Con me c’era Giorgio. Arrivati qui, stava salendo la nebbia. In pista non c’erano problemi, era balisè come oggi. Tuttavia le gambe erano stanchissime: avevamo sciato alla grande e le ginocchia soffrivano a portare uno zaino così pesante”.
“Era tutto com’è adesso?”.
Di fronte al silenzio un po’ indeciso di lui, lei precisò:
“Voglio dire: c’era il sole al tramonto, i seracchi scintillanti, la traccia che si snoda laggiù sul ghiacciaio…?”.
“Uhm, sì. Era tutto così. Avevamo la pelle del viso bruciata dal sole e mi faceva male anche solo a parlare. Scendevamo giù per la pista a velocità forsennata per arrivare prima possibile”.
“Ma… non c’era la nebbia?” domandò Cindy corrugando la fronte.
“In alto no. Per dieci minuti buoni sono sceso a grandi curvoni, come oggi. Nonostante la fatica per la giornata di sci, sentivo la velocità che mi inchiodava al terreno: quell’anno ero in forma”.
“E oggi?”.
“Oggi va abbastanza bene, ma non così bene come allora. Allora gli sci facevano tutt’uno con le gambe. Quando curvavo, gli spigoli delle lamine conducevano una traiettoria perfetta. Allora, mi sentivo in sintonia con la montagna e nulla avrebbe potuto distruggermi”.
Poi capì che era meglio riprendere a sciare prima che il momento magico si concludesse da solo. Sbatté i bastoncini l’un contro l’altro ed uscì dalla pista balisè. Fuori pista, la neve non era delle migliori. In pista, dove la trituravano con i cingoli dei gatti, andava ancora, ma fuori pista era terribile: c’era una crosta non sufficientemente dura, che si spaccava al loro passaggio. Per curvare erano costretti a saltare e il peso dello zaino si fece sentire ancora di più.
Dopo una decina di curve, si fermò ad aspettare Cindy. Quando lei arrivò, ansimavano entrambi per la fatica. Allora lui riprese a raccontare.
“Quella volta, due anni fa con Giorgio, in questo punto eravamo completamente nella nebbia e non si vedeva a più di un metro”.
Si interruppe per riprendere fiato. “La neve era terribile come adesso, qui è spesso terribile in primavera. C’erano parecchie tracce, piuttosto vecchie per la verità, e non si capiva bene dove andare. Sapevo che dovevamo tenerci a destra, ma non troppo a destra perché si finisce in una zona molto crepacciata”.
“E’ quella lì che vediamo, sotto la Verte?” lo interruppe Cindy.
“Proprio quella. Solo che allora non si vedeva nulla, a stento distinguevo gli sci giallo fosforescente di Giorgio, due metri davanti a me”.
Continuò dopo un attimo: “Quando Giorgio decise di curvare, sparì nel nulla. Eravamo sull’orlo di un crepaccio parallelo al pendio”.
“Ci finì dentro?” chiese lei evidenziando un tono preoccupato.
“Proprio così. Inizialmente, ma si è trattato di un millesimo di secondo, non ho sentito più nulla, credevo fosse morto. Mi sono immediatamente tolto gli sci, ho piantato la piccozza e stavo srotolando la corda. Poi l’ho sentito urlare che stava bene, che era tutto OK”.
“Dov’era finito?” Cindy perlustrava con lo sguardo la zona crepacciata.
“Per fortuna il crepaccio era intasato di neve e Giorgio è atterrato su un bel mucchio soffice. Si è messo i ramponi ed è venuto fuori ridendo, ma io un po’ di paura, di paura travolgente, l’ho avuta”.
Scese improvvisamente un velo di silenzio: il largo pianoro glaciale era già tutto in ombra e solo il pendio finale dell’Aiguille d’Argentière brillava ancora al sole calante.
Lui voleva dire qualcosa, ma non sapeva come dirlo e per sbloccare la situazione riprese a sciare. Lei gli andò dietro e curvava proprio dove curvava lui, attenta a caricare il peso nel modo corretto, ma senza farsi attanagliare le caviglie dall’infida neve crostosa.
Fecero una sola lunga tirata fino al pianoro glaciale. Terminato il pendio su cui stavano scendendo, fu un sollievo imboccare a tutta velocità il traverso che collega la discesa al pianoro del ghiacciaio. Lasciarono correre gli sci, finché questi si fermarono da soli.
“Fantastico!!!” urlò Cindy appena lo raggiunse “Si corre così veloci che ti senti il vento in faccia senza dare neppure una spinta con i bastoncini…”.
“Già – commentò lui – sono gli sci che corrono senza doversi occupare di loro…”.
“E’ diverso da quando devi curvare – precisò Cindy – Lì, devi concentrarti e trasmettere le tue decisioni ai muscoli: se ci riesci, gli sci curvano se e come tu decidi di farli curvare”.
Lui sorrise compiaciuto: “Quando scendi curvando, il divertimento consiste nel dominare gli sci. Quando ti butti giù, come in questo ultimo tratto, sono gli sci che dominano te”.
Erano ormai sul piano e lui sganciò gli attacchi ed iniziò ad asciugare la soletta degli sci per riattaccare le pelli di foca. Utilizzò uno straccetto e, dove la soletta restava umida, vi soffiò sopra.
Cindy si attardava a guardare il panorama: “Il circo glaciale dell’Argentière è uno dei più belli delle Alpi – cercò di imitare la voce un po’ petulante di lui quando descriveva le montagne agli amici – Vi si possono ammirare le pareti Nord di quattro montagne, affascinanti proprio perchè repulsive: l’Aiguille Verte, Les Droites, Les Courtes e l’Aiguille de Triolet…”.
Anche lo sguardo di lui, che pure conosceva a memoria l’ambiente circostante, fu attirato verso l’altro. Mentre scrutava le ripide pareti ghiacciate, schiacciò le labbra una contro l’altra nel tentativo di inumidirle, dopo una giornata in alta quota, assolata e ventosa.
“Com’è qui, d’inverno?” Cindy ruppe improvvisamente il silenzio.
“E’ tutto uguale, ma è tutto diverso”.
Srotolando le pelli di foca prese dalla zaino, spiegò: “Devi immaginare questo ghiacciaio con il peso incombente della notte invernale. Non c’è il pistone di oggi, largo e visibile anche al buio. Se ti va bene, trovi un’esile traccia, magari quella di due cecoslovacchi che vanno alla Nord delle Droites…”.
Tacque per incollare la prima pelle allo sci, poi riprese: “Non te lo puoi neppure immaginare il fascino di questo posto in inverno: se respiri, il fiato ti si condensa davanti al naso”.
“Ci sei venuto spesso? D’inverno, intendo…”.
“Uhm, si, alcune volte. Ma se dipendesse da me, esclusivamente da me, qui ci verrei solo d’inverno…”.
Incollando la seconda pelle, proseguì: “Pensa: arrivi al rifugio e, se sei fortunato, non c’è nessuno. Quella stessa sala da pranzo, che adesso troveremo affollata ed intrisa di puzza di minestrone, d’inverno è vuota e completamente silenziosa”.
Lei chiese corrucciata: “Quanto freddo fa, in quella sala d’inverno?
“E’ un freddo meraviglioso: ti sembra di entrare in un luogo magico, dove tutto è incontaminato, sacro”.
Intanto avevano terminato di prepararsi e si incamminarono, attraversando in diagonale il pianoro glaciale che in realtà è in leggera salita.
Procedevano paralleli, così potevano chiacchierare: “Dimmi ancora dell’Argentière d’inverno” supplicò Cindy.
“Non è diversa solo l’atmosfera, ma sono diversi anche gli individui che incontri. Adesso, al rifugio, troveremo allegre comitive di chiassosi attempati che fanno la Haute Route con i giri organizzati, pacchetto tutto compreso: bevono e cantano a squarciagola e si danno fra loro grandi manate sulle spalle”.
Sorrise sarcastico: “Pagano e non capiscono nulla dell’andare in montagna. Se si stacca loro una pelle, non sanno come arrangiarsi”.
“E d’inverno, invece?”.
“D’inverno trovi i veri alpinisti. Gente che magari s’è fatta migliaia di chilometri, polacchi, spagnoli, inglesi, per salire la Via degli Svizzeri o il Couturier…”.
“Hai mai parlato con loro?”.
“Spesso. L’ultima volta, al rifugio c’era uno svedese che era appena tornato dalla Nord Est delle Courtes. Gli ho chiesto come l’avesse trovata e lui mi ha risposto, nell’inglese metallico dei nordici, easy, cioè facile. Io subito non ho capito bene e immaginavo che mi stesse dicendo qualcosa tipo iced, cioè ghiacciata”.
“Esattamente l’opposto” azzardò lei.
“Non è detto. Probabilmente la parete era ghiacciata, ma al contempo anche facile. Mi ricordo che lo svedese sorrideva mentre lo guardavo con aria interrogativa e per rafforzare la sua affermazione si è messo a fare tic-tac, tic-tac, simulando con le braccia alternate la progressione in piolet traction, cioè con due piccozze…”.
Dopo aver ripreso fiato, continuò: “La cosa che più mi colpisce della stagione invernale in alta montagna è la totale mancanza di acqua: sei circondato da neve e ghiaccio, eppure senza un fornello moriresti”.
“Neppure in primavera c’è acqua, in alta quota” rifletté Cindy.
“Adesso c’è il custode al rifugio e, se paghi, ti dà tutta l’acqua che vuoi. Ti dà anche lo champagne, se paghi…”.
“Noi ne abbiamo abbastanza per prendere lo champagne?”.
“Che c’è di meglio di una soupe alla cipolla per stasera e un caffè lungo a colazione?” la provocò lui.
Camminarono un po’ in silenzio e lui si accorse che ormai avevano attraversato in diagonale il pianoro glaciale. Non rimaneva che la salita sul fianco della morena e, fra poco più di dieci minuti, sarebbero giunti al rifugio.
“Domani tiriamo su di lì – le indicò con il bastoncino – metti subito le lame, perché al mattino presto la neve sarà completamente gelata”.
“A che ora partiremo?”.
“Per l’Aiguille d’Argentière, sveglia alle quattro. Si parte imbragati e veloci. Bisogna stare davanti agli altri: non voglio vedermeli piombare addosso sul pendio finale, sopra la terminale”.
“Si potrà fare in sci, il pendio finale?” lo interrogò Cindy.
“Vedremo. Penso che in salita dovremo portarli in spalla, ramponi ai piedi”. Lui si concentrò improvvisamente sulle problematiche tecniche del giorno dopo, ma di colpo la sua mente fu attraversata da una sensazione violenta ed affilata come una sciabolata. Si voltò verso di lei:
“Questa avvicinamento al rifugio è stato il momento più bello di tutta la gita!”.
Cindy non capì: “Ma come?… Il momento più bello???”.
Lui cercò di spiegare: “Fra poco non sarà più così come adesso. Arriveremo al rifugio e saremo inghiottiti dalla marea di gente. Mangeremo scomodi, dormiremo schiacciati o, peggio, separati. E, domattina, la partenza sarà un supplizio…”.
“D’accordo – lo interruppe lei – ma domani… la gita, la cima, la discesa…”.
“No, domani non sarà più così bello. Domani prevarranno altre sensazioni: l’impegno, la fatica, la soddisfazione. Domani sarà una giornata consistente, ma non felice!”.
Guardò il rifugio che si stava avvicinando, inesorabile, a dividerli.
“E poi…” gli scappò fra le labbra.
“E poi, cosa…?” incalzò lei.
“Domani, terminata la gita, ti dovrò riaccompagnare a casa e sarà finito questo nostro spazio insieme”.
“Già, sarà finito” concluse Cindy.
Così arrivarono al rifugio e, posati gli sci, si tuffarono nella marea turbolente. Nella sala da pranzo affollata e intrisa di minestrone, si persero e si ritrovarono e si persero di nuovo, come d’altronde si perdevano e si ritrovavano nella vita di tutti i giorni.
Ma aveva ragione lui: niente fu più come prima. Non c’era più l’ebbrezza della discesa a mozzafiato né il silenzio spettrale del ghiacciaio solitario. Non c’era più il clima magico di quell’avvicinamento al rifugio. Loro due erano sempre gli stessi, ma niente fu più come prima: infatti l’Argentière in primavera non è più come d’inverno.