di Paolo Crosa Lenz
(pubblicato su Lepontica n. 17, marzo 2022)
Livia Pirocchi (1909-1985)
A Pallanza, sulle rive del Lago Maggiore, c’è un istituto scientifico di importanza internazionale per lo studio della limnologia, la scienza che si occupa delle acque dolci e in particolare dei laghi alpini e prealpini. È l’Istituto Italiano di Idrobiologia (oggi ISRA CNR), fondato nel 1938 da Marco De Marchi. Dopo la laurea a Milano, Livia Pirocchi fu attratta dalle ricerche che Rina Monti conduceva in modo pionieristico sulla biologia degli organismi che popolano le acque lacustri. «L’acqua è fondamentale alla vita» affermava «e per proteggerla bisogna prima conoscerla». Nel 1939 fu chiamata all’Idrobiologico e vi rimase tutta la vita, divenendone direttrice nel 1967, portando l’Istituto ad uno ruolo mondiale. Ricerca scientifica appassionata e civile “per amore” del Lago Maggiore. Aveva sposato Vittorio Tonolli, a cui successe nella direzione dell’Istituto. Condusse studi pionieristici sui laghi alpini della Val Bognanco e l’Istituto permise di salvare il Lago d’Orta, destinato a morte biologica per scarichi industriali, e il Lago Maggiore condannato all’eutrofizzazione. Anche queste sono storie che andranno raccontate.

Così la ricorda Riccardo De Bernardi su Verbanus (8/1987): “Di carattere mite ma volitivo e risoluto, aveva un profondissimo, innato senso del dovere che tutto sovrastava e che la portò a vivere la solidarietà costante e concreta verso il prossimo non nella ricerca di riconoscimenti terreni, quanto piuttosto per un appagamento interiore: un «servizio» compiuto in nome di una umanità nella quale credeva e nella quale riponeva fiducia infinita“. Nel 2011, in occasione del 150° dell’unità d’Italia, fu riconosciuta tra le 150 donne che hanno fatto “grande l’Italia”.

Oltre la scienza, la cultura. Quando, agli inizi degli anni ’60 del Novecento, fu posta in vendita la collezione archeologica che Enrico Bianchetti aveva raccolto scavando le necropoli lepontiche di Ornavasso nel 1890-91 (1700 reperti), avrebbe potuto acquistarla chiunque, anche un volitivo petroliere texano ed oggi per vederla avremmo dovuto andare a suonare un campanello a Dallas. Invece i coniugi Tonolli la acquistarono con un cospicuo investimento e la donarono alla città di Verbania che la conservò nel Museo del Paesaggio. Oggi è visitabile in un moderno allestimento presso la sezione staccata del Museo a Ornavasso. I reperti sono tornati a casa grazie ad una donna ed un uomo di scienza.
Maria Peron (1915-1976)
C’è una scuola a Verbania, tra il Lago Maggiore e la Val Grande, intitolata ad una donna: la “partigiana disarmata” per libera scelta Maria Peron. Nel 1942 si diplomò infermiera e lavorò all’ospedale Niguarda di Milano dove iniziò la collaborazione con il CLN. Fu scoperta e andò in montagna. Non sparò mai un colpo, ma curò sia i partigiani che pastori e boscaioli, valendosi anche della sua esperienza chirurgica. Era con la formazione Valdossola di Dionigi Superti e organizzò un centro mobile di pronto soccorso sui monti della Val Grande. Durante il terribile rastrellamento del giugno 1944 seguì la colonna di Mario Muneghina nel tentativo di espatrio in Svizzera.


La “lunga marcia” fu fermata a Pian dei Sali in Val Vigezzo e Maria dovette tornare, con un pugno di altri partigiani, a Cicogna dopo due settimane di marce nei boschi braccata dai nazifascisti. Rimase in montagna fino all’aprile 1945. Si sposò il 15 agosto 1945, nella chiesa di Cicogna, con Laurenti Giapparize, partigiano georgiano, da cui ebbe due figli. Ho verificato che a Maria diedero cinque onorificenze, ma sono cose che vengono dopo! Secondo me il riconoscimento più bello è la semplice targa che la Casa della Resistenza ha posto all’ingresso di Cicogna, per lei e don Fiora, al tempo il parroco del villaggio. Recita: “A ricordo di Maria Peron e del prof, don Antonio Fiora per la loro partecipazione alla Resistenza e per l’aiuto prestato a tutti i valligiani durante la seconda guerra mondiale“.
Maria Teresa Saglio (1926-2018)
La storia di Teresa è quella di una donna che ha lasciato le montagne per andare in Africa, per cinquant’anni ad aiutare una terra povera, rispetto alle Alpi che stavano diventando ricche. Era cresciuta sui monti della Bassa Ossola, tra alpe e campagna. Poi, come molte ragazze della sua generazione, il lavoro in fabbrica (a “bucare” pietrine per orologi); i primi scioperi maturati nella cultura cattolica della CISL e il licenziamento. Il lavoro come infermiera all’ospedale di Omegna. Poi la svolta, motivata da una profonda fede religiosa. Ricorda di lei don Dante Carraro, direttore del CUAMM (la prima ONG italiana): “Era partita per l’Africa la prima volta nel 1970, e vi è rimasta con tenacia fino all’età di 91 anni. Andando prima come infermiera volontaria in Uganda e Kenya, poi dal 1977 in Tanzania, si è sempre spesa per dare assistenza e conforto ai bambini malnutriti e alle loro famiglie. Terminato il servizio come infermiera, ha scelto di continuare a vivere a Tosamaganga, in Tanzania, rimanendo fino all’ultimo il punto di riferimento del ‘Centro training’ del CUAMM. In Africa ha trascorso 48 dei suoi 91 anni“.

In Africa parlava in kiswahili, alla guest house che alloggiava medici e ricercatori in inglese, quando tornava a casa ogni due anni parlava l’aspro dialetto ossolano. Tosamaganga è un villaggio rurale a 1500 m nella Tanzania centrale. Un altipiano tra montagne più alte, quasi un ricordo della terra d’origine. Un recente libro, in forma di “biografia condivisa”, ne delinea la figura di donna e missionaria laica in Uganda (ai tempi terribili di Amin Dada), Kenya e Tanzania. Il libro lancia un messaggio ai nostri giovani: certe scelte di vita non sono dovute, ma sono possibili.
