Ciò che segue è un estratto dal libro di Tom Dauer Cerro Torre, mito della Patagonia, Corbaccio, 2008, cioè l’edizione italiana di Cerro Torre, Mythos Patagonien, AS Verlag & Buchkonzept AG, 2004).
L’enigma Cerro Torre secondo Tom Dauer
di Tom Dauer
Traduzione di Valeria Montagna
Effettivamente sarebbero passati quasi sedici anni prima del rinvenimento delle spoglie mortali di Toni Egger. Il giorno di Natale del 1974 gli inglesi Ben Campbell-Kelly, Brian Wyvill e Mick Coffey insieme agli americani John Bragg e Jim Donini percorrono il ghiacciaio Torre diretti a valle, dopo un tentativo fallito al Cerro Stanhardt. “Lì c’è una scarpa!”, l’improvviso urlo di Coffey rompe il silenzio: un vecchio scarpone di cuoio con il marchio “Innsbrucker Bergschuh-Marwa” sulla suola, dal quale spuntano un piede e un polpaccio conservati intatti dal ghiaccio. Una rapida ricerca porta alla luce altri frammenti ossei, un pezzo di corda, una piccozza e un martello, entrambi con il manico spezzato. “Questo è Toni Egger”, dice Coffey commosso. “Nessun altro oltre a lui è morto quassù”.
Quando qualche giorno più tardi gli alpinisti tornano sul luogo del ritrovamento è caduta della neve. Una volpe ha seguito la traccia olfattiva dei resti umani scoperti, le sue orme conducono ad altri resti. Sulla rivista Mountain life dell’aprile del 1975 Ben Campbell-Kelly descrisse le sue impressioni dopo il ritrovamento, rigettando in questo modo le speculazioni che circolavano nella patria di Egger e che ipotizzavano che Maestri avesse addirittura tagliato la corda che lo legava al compagno: “Non vi è alcun dubbio che Toni Egger sia stato vittima di una slavina. Questo è dimostrato dai sassi e dal pietrisco presenti nei dintorni. Ulteriori chiarimenti vengono forniti dal pezzo di corda ritrovato, alla cui estremità era un’asola di circa un metro e mezzo di circonferenza. Il reperto lungo circa 15 metri termina con due capi strappati e sfrangiati. Nell’asola era agganciato un vecchio moschettone di ferro al quale la corda era fissata con un nodo barcaiolo. L’asola potrebbe essere stata utilizzata per l’autoassicurazione, lo strappo della corda è avvenuto sicuramente a causa della slavina».
Ricerche accurate portano Campbell-Kelly al ritrovamento del coltellino tascabile di Egger. Non è invece possibile rinvenire la macchina fotografica e il relativo rullino, che dovrebbe costituire la testimonianza della presunta conquista della vetta da parte di Maestri ed Egger. Su richiesta delle autorità argentine gli alpinisti inglesi e americani lasciano i resti di Egger sul ghiacciaio. Nell’estate di quello stesso anno la guida alpina svizzera Hanspeter Trachsel insieme a tre connazionali dà sepoltura alle spoglie di Egger ai piedi della parete occidentale del Fitz Roy, esattamente di fronte al Cerro Torre. In una lettera del 30 marzo 1975, indirizzata a Hans, il fratello di Toni Egger, Trachsel scrisse: “In un’area di almeno 100 metri di raggio abbiamo raccolto tutti i reperti (ossa, brandelli di carne e di vestiti). Ne mancava almeno la metà, evidentemente non tutto era emerso dal ghiaccio oppure qualcosa era stato portato via dagli animali (…) Se qualcuno dovesse ritenere che abbiamo compiuto qualche azione sbagliata, potrà in ogni momento ritrovare la sepoltura creata in luogo riparato dalle slavine e da lì portare a valle i resti. Tutte le qualità favolose di Toni ci erano note e abbiamo ritenuto di aver agito secondo il suo intendimento e la sua coscienza”.
Ancora 28 anni dopo, nel marzo del 2003, gli argentini Luciano e Juan Carlos Frasson insieme a Lucas Fava, il figlio più giovane di Cesarino, ritrovano altri resti di Egger: in un raggio di 50 metri sono sparsi parti della colonna vertebrale, una costola, brandelli di muscoli, una tibia e un perone, parti della scatola cranica. Un pezzo del suo rampone di ferro. Una maglia di cotone, resti di un pullover, un brandello di scarpa. Gli alpinisti ripongono tutti i reperti nella sepoltura di Egger. Della macchina fotografica manca a tutt’oggi qualunque traccia.
Quando nel 1958 – dopo la prima spedizione al Cerro Torre – insieme ai suoi compagni lasciò il campo base alla Laguna Torre, Maestri si sentiva solo e triste, così scrisse. “Credevo, lassù sul Torre, durante quella notte solitaria e desolata, d’essere arrivato al culmine del dolore, ma mi accorgo invece che la vera tragedia comincia ora con i cupi silenzi, le tristezze improvvise, e il dover raccontare, rivivendola ogni volta, la tragedia passata. Quella vittoria mi ha disgustato, tutto mi ha disgustato». Senza l’amico morto Fava e Maestri fanno ritorno dapprima a Buenos Aires, poi in Europa.
La vittoria… La conquista della vetta del Cerro Torre che era costata la vita a Toni Egger è viva ancora oggi, in quanto rappresentazione, desiderio, sogno diventato realtà. In quanto racconto di Cesare Maestri. In quanto fatto reale però, descrizione universalmente accettata, pietra miliare delle vicende alpinistiche non è rimasta né per lui né per il mondo. Alla luce della inverosimiglianza di quanto descritto, alla luce anche delle molte contraddizioni e delle domande senza risposta che comunque circondano gli avvenimenti del 1959, questa conquista è ancora oggi messa in dubbio. Chi ha seguito la vicenda la accetta, perché non conosce altra versione. Perché probabilmente non sarà mai dimostrata, e perché forse non ce ne sarà mai nemmeno un’altra. La storia di Maestri e del Cerro Torre è un dato provvisorio. Ognuno deve decidere da solo se accettarla e in che misura.
Maestri stesso deve convivere con la sua storia. Perché vuole, e perché non può fare diversamente. Ormai ha 74 anni (il testo è del 2004, NdR). Un uomo piccolo, che con la sua corporatura tarchiata e la sua andatura eretta lascia ancora intuire la forza che un tempo possedeva. La sua barba nera nel frattempo si è fatta grigia. Gli occhi verdi scintillano in un mare di rughe, eppure il loro scintillio è opaco, quasi che malinconia e tristezza li opprimessero. Forse dipende anche dalle circostanze esterne: Maestri sta come perso dietro al bancone del suo negozio nel centro di Madonna di Campiglio, “Le Cose Buone di Cesare Maestri”, dove si vendono specialità trentine. Soprattutto cose dolci: pacchetti colorati di caramelle, marzapane, caramello, un bell’assortimento di cioccolate. Non certo il luogo che un alpinista estremo desidererebbe per sé. Il grande Maestri in mezzo ai dolciumi. Nervoso sposta scatole e scatolette, impacchetta e spacchetta roba, parla di futilità, più che altro per parlare. Non ama essere visto in questo modo. “Andiamo a berci un caffè”, dice.
Già qualche giorno prima dell’incontro Maestri mi aveva chiesto al telefono perché volessi parlare con lui. La mia richiesta lo aveva tenuto sveglio per molte notti – e comunque non avrebbe parlato del Cerro Torre. Non avrebbe detto una sola parola. Mai più. Solo dopo che gli avevo promesso che il Cerro Torre non l’avrei nemmeno nominato e che non avrei posto domande su quello specifico argomento, Maestri acconsentì a incontrarmi. Sorseggiando una tazzina di caffè comincia a parlare con voce bassa, pacata. Parla della sua infanzia, della sua giovinezza, dei suoi inizi come scalatore. Dei suoi successi, delle sue selvagge arrampicate in solitaria. Con orgoglio nel tono di voce e con soddisfazione Maestri parla di quella che in linea di massima si può riassumere come una vita positiva. Eppure trasmette la sensazione di non essere felice. Agitato, inquieto, ancora oggi. Fino al momento in cui è Maestri stesso a pronunciare il nome «Cerro Torre». Pieno di ostinazione, riprovazione e disprezzo nei confronti di tutti quelli che non credono che nel 1959 sia stato insieme a Toni Egger per primo su questa vetta.
“Non devo mostrare né dimostrare niente a nessuno”, dice Maestri. Perciò non gli viene nemmeno in mente di indicarmi su una foto che ho con me la linea della sua prima. No, non la vuole nemmeno vedere, la foto. «Non voglio neanche parlare del Cerro Torre”. II ricordo della montagna è per lui una tortura. Nonostante vi abbia ottenuto il risultato più eclatante di tutta la sua carriera alpinistica? Nonostante ciò non intende vantarsi del proprio successo? Nonostante ciò non si sente orgoglioso? Devo ascoltarlo e cercare di capire, mi dice Maestri: “Toni e io abbiamo raggiunto la vetta passando dalla parte inferiore della parete est, estremamente impegnativa, e dalla parte superiore della parete nord, che è più facile, ma molto pericolosa. Ma questo cosa ha significato alla fine? Io sono diventato famoso per le mie solitarie, non certo per il Cerro Torre”.
Nel momento in cui ribatto e affermo il contrario, Maestri sbotta: “Se la pensi così, possiamo anche fare a meno di parlare ancora». Si alza e se ne va. Ritorna dopo qualche minuto. Ogni fibra del suo corpo esprime contrarietà, indignazione, ma allo stesso tempo una lotta costante contro se stesso. Il Cerro Torre gli ha rovinato la vita, dice. Vorrebbe che la montagna si disfacesse in miliardi di frammenti. “Odio il Torre”, prosegue Maestri. “Mille volte più di quanto tu possa immaginare”.
[…]Se i dubbi degli scettici erano diventati di dominio pubblico già nel 1970 su iniziativa di Carlo Mauri, i superscettici furono invece rinvigoriti dal rapporto di Jim Donini. L’americano aveva portato a termine nel 1976, insieme a John Bragg e Jay Wilson, la prima della Torre Egger, la vetta accanto al Cerro Torre, ed era transitato dal Colle della Conquista – e qui, dopo 300 metri di parete, non aveva trovato più alcuna traccia del passaggio di Maestri, Egger e Fava. In una lettera del 21 settembre 1976 Wilson, caporedattore di Mountain, chiede a Cesarino Fava di prendere una posizione rispetto a questa osservazione sorprendente. Per vie traverse la richiesta dall’Inghilterra raggiunge Fava solo sei mesi più tardi. Il 24 marzo 1977 Fava scrive a Buenos Aires: «Caro Mr Wilson, (…) io ho solamente un commento da fare sui suoi dubbi, come su quelli di tutti i Carlo Mauri del mondo; su tutte le analisi minuziose che sono state fatte, inclusa la sua; su tutte le speculazioni; sull’uso del compressore per l’arrampicata, su tutte le controversie e gente come Cesare Maestri che si diletta in esse; sui retorici scandalizzati come Leo Dickinson che accumula blasfemie sui chiodi piantati con un compressore e sull’uso degli stessi. Su tutto questo insieme di sospetti, malafede e speculazioni, io ho solo un commento da fare, e questo è MERDA. Perché ciò, Mr Wilson, è il succo di questa dannata faccenda. Cesarino Fava».
Alla luce del fatto che nel corso del dibattito sul Cerro Torre Wilson è potuto ricorrere spesso e volentieri, grazie al suo giornale, all’efficacia del discorso pubblico (al quale Maestri e Fava non avevano strumenti per ribattere), la reazione dura di Fava è più che comprensibile. Che il dibattito su una montagna sia stato condotto a livelli così aspri dipende probabilmente dal contesto culturale. Per evitare il rischio di una semplificazione: si trovarono di fronte non solo due caratteri decisamente ostinati, a fronteggiarsi furono anche il concetto inglese di sportsmanship e quello italiano di orgoglio e onore. La storiografia di stampo anglosassone, costruita su fatti verificabili, veniva a scontrarsi con il piano emozionale, tipicamente meridionale, formulato in modo tanto patetico quanto romantico. Oggi Fava sostiene, con lo stesso piglio di allora, ma forse reso più saggio dall’età avanzata: “È lecito a chiunque dubitare dell’ascensione del Cerro Torre. Il dubbio è un elemento costitutivo basilare del pensiero umano”. Quello che è accaduto negli anni Settanta non avrebbe però nulla a che fare con i dubbi. In questo caso si sarebbe trattato di nient’altro che di una condanna, nient’altro che di un tentativo di esecuzione capitale.
In effetti il “caso Cerro Torre”, cioè a dire la controversia riguardante le dichiarazioni di Maestri e di Fava sugli avvenimenti del 1959, si può in un certo senso paragonare a un processo giudiziario. Esiste un luogo del delitto, la montagna forse più affascinante di tutta la Terra. Difficilmente accessibile, non vi sono ancora state rinvenute quelle tracce che avrebbero potuto costituire un riscontro ai resoconti di Maestri e Fava. Vi sono molti indizi, di maggiore o minore rilievo, che parlano contro la versione fornita dai due italiani. Vi sono anche, se così si può dire, due sospettati: Maestri e Fava. E a questo proposito sia consentito un suggerimento, cioè che l’occuparsi della storia alpinistica del Cerro Torre non dovrebbe condurre ad attribuire a questo “caso” un’importanza maggiore. Il fatto che Maestri ed Egger siano saliti o meno sul Cerro Torre interessa alla fine una porzione molto limitata dell’opinione pubblica.
A prescindere da tutte le contraddizioni e incongruenze nei loro racconti, anche per Maestri e Fava deve naturalmente valere la presunzione di innocenza. Tuttavia appare insolito che nessuno dei due sia in grado di o intenda fornire dettagli chiarificatori sulla loro via, sui materiali impiegati, sulle modalità della discesa. Maestri non parla più del tutto del Cerro Torre, della montagna sulla quale sostiene di aver realizzato la sua più grande impresa alpinistica. Una circostanza particolare, che naturalmente rende più difficile trovare argomenti in favore suo e della sua versione dei fatti; anche per coloro i quali stanno dalla sua parte.
Infatti anche nel ruolo di osservatore critico bisogna saper riconoscere il punctum dolens della propria posizione: se Fava e Maestri non sono stati sul Cerro Torre o al Colle della Conquista, hanno però costruito la loro versione in un modo estremamente abile. Ken Wilson: “Se dovesse trattarsi di un raggiro o di una vicenda architettata a tavolino, allora il tutto sarebbe stato organizzato con grande abilità». Si tratta di uno scenario veramente immaginabile? È immaginabile che Toni Egger sia precipitato mentre si trovava nella parte inferiore della parete, che Maestri e Fava abbiano in seguito escogitato un piano per poter far passare la vicenda ancora come conquista della vetta? Sarebbe necessaria a questo fine una discreta misura di lestofanteria, ma allo stesso tempo di disciplina: solo a questa condizione l’invenzione della verità si può trasformare in realtà. Ma forse le cose si sono svolte diversamente? Forse Egger è precipitato durante la fase di salita con Maestri? Forse Maestri si è calato da solo, è precipitato, è stato salvato all’ultimo minuto da Fava: e da allora crede veramente – una convinzione creatasi in una situazione di dolore e di totale spossatezza – di essere stato in vetta. È possibile che la propria volontà incondizionata diventi realtà nel momento in cui se ne desidera con grande intensità la realizzazione?
Altre domande: quale movente, tanto per restare nel paragone giudiziario, avrebbero avuto Maestri e Fava? Perché si sarebbero dovuti inventare la prima al Cerro Torre? Anche se alcuni indizi indicano proprio questa direzione, la risposta a questa domanda deve essere di tipo speculativo: dopo l’interruzione della prima spedizione in Patagonia, fallita nel 1957-1958, Maestri torna in patria in uno stato di insoddisfazione, delusione, quasi depressione. “Qualche cosa”, scrisse, “dobbiamo ben raggiungerla. Lo dobbiamo a noi stessi, ma soprattutto a quelli che ci hanno aiutato e che hanno creduto nelle nostre capacità. Sono stato sopraffatto dalla sensazione del fallimento, dalla certezza della disfatta definitiva, e me la sento addosso come una cappa pesante che minaccia di soffocarmi”.
Maestri è convinto del fatto che solo un successo al Cerro Torre potrebbe sollevarlo dal suo stato di abbattimento. Il percorso di risalita da questi abissi emotivi deve condurre in Patagonia, alla guglia di granito coperta di ghiaccio. Morir o subir, morire o conquistare la vetta, queste sono le alternative. Quello che oggi pare sorprendente è invece assolutamente adeguato al modo di pensare europeo degli anni Cinquanta: una generazione che ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della Seconda guerra mondiale e che per condizione politica, sociale, economica ma anche privata non ha nulla da perdere, è disposta, per una vita migliore, a rischiare la vita stessa. Cesarino Fava ricorda: «A quel tempo non conoscevamo la paura. Eravamo anche più duri degli alpinisti di oggi, più resistenti». Anche se la spinta di Maestri ad affrontare una seconda volta il Cerro Torre ha le sue radici in una insoddisfazione personale, la sua filosofia invece – del tutto o niente – è figlia dello spirito del tempo. “ ”.
Poi però è un altro a morire. Supponiamo che al momento del volo di Egger lui e Maestri non abbiano ancora raggiunto la vetta del Cerro Torre: in questo caso Maestri si vedrebbe sottratta la possibilità di un successo, e in più ci sarebbe una morte che in qualche modo andrebbe giustificata. Davanti a se stesso, davanti ai compagni, davanti ai familiari di Egger, davanti all’opinione pubblica. Anche davanti ai soci del “Círculo Trentino” di Buenos Aires, che hanno finanziato due spedizioni e nei confronti dei quali Maestri e Fava si sentono in debito di riconoscenza. Non è solamente importante come si vive, ma anche come si muore, scrive Fava nella sua autobiografia. Il Cerro Torre doveva essere per forza dato per conquistato, per spiegare la morte di Toni Egger? Doveva la fatica della salita, il risultato di un tentativo positivo essere esteso a trionfo, per ricordare degnamente la morte dell’amico? Sarebbe comprensibile.
Tuttavia, come già detto, queste riflessioni appartengono all’ambito speculativo. Certamente Maestri e Fava hanno avuto a oggi opportunità sufficienti per fare tabula rasa di supposizioni e voci, fornendo risposte alle domande ancora aperte: non hanno sfruttato questa opportunità. Dietro la storia di Cesare Maestri rimane un punto di domanda. Fino al giorno in cui questo punto non si tramuterà in un punto esclamativo – e questo potrà avvenire se Maestri e Fava forniranno una versione plausibile, che permetta di rinvenire tutte le tracce indicate sulla parete nord del Cerro Torre -, negli annali l’ascensione portata a termine da Casimiro Ferrari, Daniele Chiappa, Mario Conti e Pino Negri il 13 gennaio 1974 sarà considerata la prima completa a questa montagna alta 3128 metri.
Sarebbe altresì quasi un miracolo se questa potesse restare una semplice deduzione: infatti paradossalmente Casimiro Ferrari, fino alla sua morte avvenuta il 3 settembre 2001, non si è mai definito il primo conquistatore del Cerro Torre. Rimane aperta la questione se questa fosse una scelta intenzionale oppure una falsa modestia di fronte alla certezza che il corso della storia alla fine gli avrebbe dato ragione. Ferrari ha comunque sempre attribuito il merito della prima a Maestri ed Egger. Daniele Chiappa, che nel 1974 era il membro più giovane della spedizione, glielo attribuisce ancora oggi. Mi scrive: “Conosco bene Ken Wilson, e so bene che gli piacerebbe mettermi in bocca le parole che vorrebbe sentirmi dire lui. Ma le cose non sono semplici come si crede. Se mettiamo in discussione il risultato di Maestri e Egger dobbiamo mettere in discussione tutto l’alpinismo internazionale (…) Io sono convinto che i due abbiano raggiunto la vetta del Cerro Torre. Sì, io credo alla parola di ogni alpinista. E questo vale anche nel caso di Maestri. La responsabilità di ciò che viene detto va ricondotta all’integrità del singolo».
L’integrità del singolo… Sia Maestri sia Fava sono persone integre. Non ci sarebbe alcun motivo di dubitare delle loro affermazioni, se queste fossero univoche e non ve ne fossero altre: testimonianze, se così si può dire, oppure esperti i cui ricordi e punti di vista fanno vacillare la storia di Cesare Maestri.
Vado a trovare Gottfried Mayr. Negli anni Cinquanta l’oggi settantunenne aveva compiuto con successo assieme a Toni Egger una serie di prime e di seconde ascensioni sensazionali. I due amici si erano dati da fare soprattutto nelle Dolomiti di Lienz, ma anche sulle Tre Cime di Lavaredo e in altre regioni alpine. Per me questa visita è importante, dal momento che nel frattempo Egger, in seguito ai molti racconti e ai resoconti del 1959, è stato trasformato in una leggenda dell’alpinismo. Ma che tipo di alpinista era veramente?
Mayr è tuttora un tipo sportivo: piccolo di statura, muscoloso, con un’energia che ancora oggi lo tiene in costante movimento. Mi conduce alla sua cantina, dove conserva i reperti della sua attrezzatura da montagna. Ramponi a dieci punte con le punte frontali saldate, una piccozza Aschenbrenner lunga 65 centimetri, con manico di legno e lama diritta. Reperti di un’epoca in cui l’arrampicata su ghiaccio muoveva i suoi primi passi. “La piccozza nella mano destra, e un chiodo speciale nella sinistra, veloce e sicuro”, queste le parole che Fava usa per descrivere la progressione di Egger nei tratti verticali di ghiaccio al Cerro Torre. Con questi materiali? Secondo le testimonianze concordi di alpinisti dell’epoca, negli anni Cinquanta non era possibile progredire verticalmente sul ghiaccio con quelle piccozze e quei martelli. Le lame di questi attrezzi avevano solo pochi denti e, contrariamente ai modelli più moderni, non erano curve: quindi non era certo possibile usarle come appiglio per esercitare una trazione dal basso.
“Quello che facevamo a quei tempi”, sostiene anche Mayr, “non ha nulla a che vedere con l’arrampicata moderna su ghiaccio. Il ghiaccio verticale era impossibile”. Secondo Mayr, Egger era senz’altro bravo sul ghiaccio, elegante e leggero come sulla roccia, sempre attento alla sicurezza. Che con le sue capacità fosse però – come sostiene Fava – dieci o vent’anni più avanti del suo tempo, sarebbe un’esagerazione. Tra l’altro le pareti del Cerro Torre non erano ricoperte da vero e proprio ghiaccio: in Patagonia le rocce sono quasi sempre coperte da uno strato di brina, che ha più o meno la consistenza della schiuma da bagno gelata. Anche con le moderne attrezzature e con i ramponi di oggi, passaggi di questo tipo sono difficili da superare, a volte addirittura impossibili.
Illuminante a riguardo è il resoconto fornito dal dottor Heinrich Kliers, che nel 1957 guidò la “Österreichische Kordilleren-Expedition”. Nell’ambito di questa spedizione Egger portò a termine con successo la prima allo Jirishanka 6126 m, nella cordigliera peruviana di Huayhuash, lungo il pilastro est. Nel resoconto di Kliers si dice a proposito di un primo tentativo interrotto: la cresta sommitale iniziava con “una pendenza di circa 70 gradi (…) alla testa del pilastro. A causa del lungo periodo di brutto tempo le condizioni della neve erano tali che (…) progredire era semplicemente impossibile. La sommità della cresta era coperta da una polvere morbida nella quale si sarebbe potuto guadagnare quota solo nuotando”. Tanto la parete nord che lo spigolo nord-ovest del Cerro Torre sono però ancora più ripide ed esposte della via dello Jirishanka. Il rapido progredire della cordata Maestri-Egger oltre il Colle della Conquista, così come viene descritto da Maestri, appare quindi non del tutto plausibile.
Il trentaduenne svizzero Stephan Siegrist, che ha portato a termine la prima invernale al Cerro Torre lungo la via Ferrari, è considerato uno dei maggiori esperti di ghiaccio dei nostri giorni. Nell’ambito di un progetto fotografico, nel 2002 ha asceso la nord dell’Eiger, con l’attrezzatura dei primi scalatori del 1938 – e questa attrezzatura è assolutamente paragonabile a quella del 1959. Siegrist e il compagno Michal Pitelka utilizzarono in effetti ramponi a dodici punte, ma le due punte frontali risultarono praticamente inutili, sostiene Siegrist: sulla parete verticale di ghiaccio la suola degli scarponi di cuoio risultava morbida e si piegava troppo. Sulla base delle sue esperienze nelle alpi bernesi Siegrist, che ha già tentato due volte una ripetizione della via Maestri-Egger, non crede più al successo di Maestri.
Allo stesso modo la pensa Ermanno Salvaterra, che probabilmente conosce il Cerro Torre come nessun altro. Il quarantanovenne italiano (si ricorda ancora che il testo è del 2004, NdR) è già stato in Patagonia con diciannove spedizioni, il Cerro Torre ha imparato a conoscerlo lungo cinque vie differenti. Anche lui ha tentato più volte la ripetizione della via Maestri-Egger – senza successo. Salvaterra racconta che i suoi primi viaggi al Cerro Torre, negli anni Ottanta, li ha intrapresi nutrendo una fiducia assoluta nei confronti del successo di Maestri ed Egger. Dopo essere stato lui stesso una volta su quella via, ha pensato che i due potevano aver raggiunto almeno il Colle della Conquista. Oggi però Salvaterra sostiene di non sapere più cosa credere. L’atteggiamento di Maestri l’avrebbe portato a questa incertezza (come vedremo nei post successivi a questo, le opinioni di Ermanno Salvaterra sono radicalmente cambiate, NdR).
Questo mutamento di convinzioni è interessante soprattutto perché non è nato a tavolino. Salvaterra ha studiato il Cerro Torre, in ogni periodo dell’anno, del giorno e della notte, in qualunque situazione atmosferica ha indagato con lo sguardo i suoi pendii. La conclusione delle sue osservazioni è che durante l’estate dell’emisfero australe, le condizioni descritte da Maestri e Fava sono altamente improbabili. Non è possibile che nel periodo di tempo indicato si fossero formati tanto ghiaccio o tanta brina da consentire a Maestri ed Egger di arrampicare. E questo soprattutto se si considera che Maestri e Fava stessi hanno riferito che nei giorni precedenti al cattivo tempo, che avrebbe favorito la formazione di ghiaccio, avrebbe invece avuto luogo un disgelo prolungato.
Le domande senza risposta riguardo alle capacità tecniche, all’attrezzatura, alla disposizione mentale, alla conduzione di Maestri e Egger hanno preparato il terreno ai dubbi di Salvaterra. Ancora più rilevante è però forse il fatto che nel corso degli anni ha cambiato opinione su Maestri. L’eroe di un tempo si è trasformato in un uomo il cui comportamento appare singolare. Salvaterra non riesce a capire come mai Maestri – contrariamente a Fava – non è mai più tornato in Patagonia dopo la spedizione del 1970. Non lo si è visto nemmeno nel 1997, quando a El Chaltén è stata consacrata la cappella alla memoria di Toni Egger. E dire che Eduard Muller, un amico di Egger dai tempi di Lienz, che ha organizzato e finanziato la costruzione della cappella, lo aveva invitato di persona.
Cerro Torre, tema tabù: alla luce del dolore che vi ha provato, il comportamento di Maestri potrebbe anche essere comprensibile. Una volta ha dichiarato che in Patagonia non sarebbe mai potuto tornare. Questo naturalmente non valeva nel 1970, quando con la via del compressore aveva voluto assestare il grande colpo, che avrebbe giustificato tutte le sue pretese al Cerro Torre. In quel momento si trattava del suo onore, del suo orgoglio, della sua affermazione personale e della sua influenza. Così il Torre divenne il palcoscenico per un’esibizione di teatro. Cesarino Fava sostiene che da sempre Maestri ha commesso l’errore di mettere in primo piano solo se stesso e mai Toni Egger. E Bruno Detassis, che oggi ha 94 anni, all’epoca capo della spedizione al Cerro Torre, riassume in poche parole la visione del mondo di Maestri: “Maestri è Maestri, e gli altri non sono niente”.
Nella comunità degli alpinisti trentini, la cui unità si fonda non solo sull’interesse comune ma anche sul senso del dovere nei confronti dei compagni, parole di questo tenore pesano. Non tutti però condividono le critiche a Maestri, non tutti dubitano del suo successo al Cerro Torre. Maurizio Giarolli per esempio, che abita nel paese vicino a Fava, spezza una lancia in favore di Maestri ed Egger. Anche il quarantaseienne Giarolli conosce il Cerro Torre come le sue tasche. Durante le sue prime Cristalli nel vento e Nord… ancora nord… che porta a termine con successo insieme a Elio Orlandi, ha potuto osservare sia lo spigolo nord-est sia la parete nord, quelle che Maestri ha descritto entrambe come vie di salita.
Secondo Giarolli, il dato certo è che tra la partenza dei tre alpinisti la mattina del 28 gennaio e il ritrovamento di Maestri il 3 febbraio del 1959 sono trascorsi sei giorni. Secondo quanto riferito da Maestri e Fava fino al 31 gennaio il tempo sarebbe stato bello. Partendo dal presupposto che gli alpinisti abbiano raggiunto il Colle della Conquista, Giarolli si pone l’interrogativo: “Cosa avrebbero dovuto fare Maestri ed Egger a quel punto? Di sicuro non sono rimasti lì cinque giorni per poi calarsi”.
Interessante in questo contesto è la scoperta fatta dal giornalista e alpinista Rolando Garibotti: «Dal diario di Gianni Dalbagni, uno dei collaboratori giovani della spedizione, emergono alcuni fatti degni di nota. Il diario è stato pubblicato in sedici puntate, a partire dal marzo 1959, da un giornale italiano che viene venduto anche a Buenos Aires. A proposito del tempo Dalbagni scrive che durante la notte tra il 27 e il 28 gennaio è piovuto intensamente, solo all’alba del 29 gennaio il tempo sarebbe migliorato. Però Maestri, Fava ed Egger sarebbero partiti già all’alba del 28.
Il 29 gennaio i quattro collaboratori argentini salgono fino alle caverne di ghiaccio del campo 3. Nonostante il cielo blu, scrive Dalbagni, il vento era estremamente violento: ‘II vento che, pur coi piedi piantati nei buchi e la piccozza fino al manico, ci fa retrocedere’. In quella giornata Maestri e Egger, a quanto riferisce Maestri, arrivano al Colle della Conquista lungo lo spigolo nord molto esposto. Alla luce delle condizioni alla base della parete, protetta, è solo possibile immaginare il vento che soffia lassù. Secondo Dalbagni il 30 gennaio il tempo è bello, però già durante la mattinata del 31 si addensano le nubi. A metà giornata Dalbagni e i compagni vengono sorpresi dalla pioggia sul ghiacciaio e fanno ritorno al campo 1. È in quella giornata che Maestri avrebbe raggiunto la vetta.
Dalbagni descrive come segue il primo e il 2 febbraio: ‘Nuvole, vento, neve e pioggia, con una costanza imperturbabile’. 3 febbraio: ‘Tutta la notte a nevicare; col vento fortissimo la neve è anche portata dentro. Fuori, un caos biancheggiante’. Alla luce di questa descrizione chiunque sia mai stato ad arrampicare in Patagonia avrà chiara una cosa: è evidente che Dalbagni non ha goduto del periodo di tempo bello che sarebbe stato condizione necessaria per una scalata con esito positivo e per giunta estremamente complessa come quella descritta da Maestri».
Alla fine, sostiene Giarolli, la disputa sulla presunta ascensione del Cerro Torre sarebbe centrata più sul “credere che sul conoscere” – e credere è in molti casi una questione di voler credere. Da un lato ci sono quelli che non riescono a immaginare che una persona si inventi di sana pianta l’ascensione di una vetta. Contro questa posizione si citano esempi di casi in cui la menzogna è stata smascherata: la presunta prima al Mount McKinley nel 1906 a opera di Frederick A. Cook, la presunta prima sulla parete sud del Lhotse nel 1990 a opera di Tomo Česen. Alcuni prestano fede al racconto di Cesare Maestri perché ritengono possibile l’unicità di quell’attimo in cui l’accordo tra uomo, tempo e condizioni rende possibile l’impossibile. Alcuni credono al romanzo esistenziale di Maestri, perché il crollo dell’illusione farebbe crollare la loro visione del mondo. Altri invece non gli hanno mai creduto: forse per invidia e animosità, forse per via di una sorta di lobbismo patriottico. Poi ci sono quelli che a un certo punto hanno smesso di credere.
Ermanno Salvaterra appartiene a quest’ultimo gruppo, come del resto Ben Campbell-Kelly. Dopo che nel 1975 era rientrato con i suoi compagni da un tentativo fallito al Cerro Stanhardt, espresse opinioni critiche nei confronti di coloro che dubitavano del risultato ottenuto da Maestri. Il quale avrebbe subito gli effetti di questo scetticismo perdurante, addirittura in parte delle calunnie, ma il pubblico interessato avrebbe sempre considerato i dubbi a favore dell’accusato. Nel 1978 Campbell-Kelly è alla parete est del Cerro Torre. Dopo aver valutato insieme al compagno Brian Wyvill la parete e le condizioni nelle quali si presenta, scrive a proposito del racconto di Cesare Maestri: “Molte domande relative a questa ascensione sono ancora senza risposta, dopo vent’anni. La parete est del Cerro Torre rimane un enigma”.
Anche l’americano Jim Donini ha vissuto un analogo mutamento di pensiero. Già due anni prima di Campbell-Kelly è al Cerro Torre e raggiunge, nell’ambito di una prima alla Torre Egger, il Colle della Conquista: “Prima della nostra spedizione sono sempre stato, nonostante tutte le voci contrarie, a favore di Maestri”. Al termine della spedizione tuttavia scrive: “Nel primo tratto della nostra via, quello che porta al nevaio triangolare, abbiamo trovato un sacco di reperti. Pezzi di corda, cunei di legno, chiodi a espansione, chiodi semplici, moschettoni – tutto al di sotto di una sottile cengia a un paio di metri del pendio innevato. Lì ritrovammo, seppelliti da neve e ghiaccio, un sacco e delle corde. Da questo punto fino al Colle della Conquista, per un dislivello di 500 metri, non abbiamo più trovato niente, zero, nada. Allo stesso modo non abbiamo trovato alcuna traccia al Colle stesso”.
Si potrebbe controbattere che su una parete gigantesca come la parete est del Cerro Torre il ritrovamento di un reperto del 1959 sarebbe paragonabile al ben noto ago nel pagliaio. Questo corrisponde solo in parte, infatti va detto che nel frattempo tutte le possibili varianti al Colle della Conquista sono state sperimentate. D’altro canto la possibilità di incappare in tracce di precedenti alpinisti non è così remota sulle grandi pareti: se si affidasse a due alpinisti esperti l’incarico di individuare la via più semplice su una parete inviolata, le loro linee sarebbero esattamente uguali. Gli arrampicatori leggono le pareti, riconoscono i loro punti deboli, trovano le vie. È quindi plausibile che coloro i quali hanno ripetuto la via abbiano ripercorso la linea tracciata da Maestri, Egger e Fava.
Sorprende perciò che non abbiano fatto alcun ritrovamento, soprattutto dal momento che sia Fava sia Maestri hanno ammesso, rispondendo a chi poneva loro la questione, di aver abbandonato del materiale per l’assicurazione durante la salita. In una lettera del 12 ottobre 1974 Fava scrisse a Ken Wilson: “Non c’è alcun dubbio: avevamo preparato le soste durante la salita”. E Maestri scrisse il 30 marzo 1977, sempre a Wilson: «Dal nevaio pensile in su, man mano che salivamo, ricuperammo tutto il materiale che riuscimmo a togliere lasciando però attrezzati ogni 50-60 metri i posti di assicurazione che sarebbero poi serviti prima a Cesarino, poi a noi per scendere a corda doppia».
Alla luce del fatto che nonostante i molti argomenti negativi riguardo al racconto di Cesare Maestri “tante persone, soprattutto in Europa, accettano come valide le sue opinioni”, Donini si pone l’interrogativo: “Possiamo dire che si tratta di un esempio della cultura della consorteria, tipica dell’Europa?”. Avendo come sfondo l’attuale distribuzione delle forze politiche su tutta la Terra e la definizione di “vecchia Europa”, che oggi può essere considerata tra le “parole alate” care all’ex ministro della difesa americano Donald Rumsfeld, la domanda pare decisamente capziosa. Allo stesso tempo però mostra quale emozione può suscitare ancora oggi una vicenda di quarantacinque anni fa. E quale rilevanza del tutto particolare viene ad assumere all’improvviso quell’entità, costituita di neve e ghiaccio, che chiamiamo Cerro Torre.
Questa montagna assume un significato del tutto particolare per due austriaci il cui curriculum li allontana da qualsivoglia sospetto di connivenza con interessi di gruppo: si tratta di Toni Ponholzer e Tommy Bonapace. Entrambi hanno trascorso almeno tre anni della loro vita ai piedi del Cerro Torre, si può dire posseduti dall’idea e dall’intenzione di ripetere la via Maestri-Egger. Quanti tentativi abbiano intrapreso a questo scopo, alcuni dei quali insieme, alcuni con altri compagni di cordata, non lo ricordano nemmeno più loro con precisione. Da quindici a venti tra il 1984 e il 1999, stima Ponholzer. Per Bonapace potrebbero essere da dodici a quindici. La loro proverbiale cocciutaggine e il modo di procedere senza compromessi che li ha portati a tentare la Maestri-Egger sempre in stile alpino, senza l’utilizzo di corde fisse, hanno nel frattempo fatto di Ponholzer e Bonapace personaggi da romanzo: in effetti compaiono come Toni Pregenzer e Lukas Dallapozza nel romanzo del loro connazionale Rudolf Alexander Mayr dal titolo Durch Patagonien zum Fitz Roy nel quale si trovano a occupare “un posto preminente nel novero degli alpinisti patagonici, che certo non mancano di bizzarria”.
Una descrizione presa dalla vita reale, che allo stesso tempo va interpretata come complimento. Toni Ponholzer, 42 anni, è originario di Lienz, la città di Toni Egger. Fin dalla sua infanzia è stato “un ammiratore silenzioso di Egger, o meglio: delle vicende che si narrano di lui». Anche oggi, che è padre di tre figlie, mentre sta seduto al tavolo di cucina, a casa sua, gli occhi azzurri gli brillano quando parla della Patagonia. È tranquillo, ma vigile, leggermente piegato in avanti, le mani conserte, e tutto il suo corpo esprime determinazione. La ripetizione della Maestri-Egger è stata il suo “sogno di gioventù”, così dice Ponholzer. “Un impegno esistenziale che ancora oggi mi tiene avvinto”.
Ponholzer, guida alpina, è stato in Patagonia l’ultima volta nel 1999. Insieme al suo connazionale Franz Steiger ha intrapreso un tentativo alla Maestri-Egger, che il cronista Rolando Garibotti definisce “l’impresa più impressionante che sia mai stata condotta al Cerro Torre». Dall’attacco i due austriaci affrontano la parete est, seguono fino a metà il traverso della Maestri-Egger che dall’attacco del Diedro degli Inglesi porta al Colle della Conquista e da lì si spostano alla parete nord. Dopo nove ore di scalata, durante le quali fanno due tiri con le jumar su vecchie corde fisse, raggiungono il punto che sta tre tiri sopra il Colle. Dopo aver bivaccato progrediscono sfruttando le fessure e i diedri della parete. A circa 150 m dalla spalla nord-ovest devono gettare la spugna di fronte a passaggi tra VI e VIII grado.
Ponholzer ricorda che tutto lo sviluppo della via è esposto alle scariche di ghiaccio. Bisogna avere “una gran fortuna” per ripetere con successo la Maestri-Egger in questo modo. Deve filare tutto liscio, il tempo, le condizioni della parete, il morale, le capacità tecniche. Nonostante tutto però Ponholzer è convinto del fatto che nel 1959 Maestri ed Egger abbiano fatto la via e raggiunto la vetta del Cerro Torre. Ritiene che le loro indicazioni riguardo ai tempi siano realistiche, e che quel tipo di difficoltà poteva essere superato a quell’epoca. Tuttavia Ponholzer non dichiara apertamente cosa lo induca a pensare in questo modo, al di là della fiducia nelle capacità dei due alpinisti: «Tutti gli alpinisti parlano comunque troppo. E tutto ciò non mi interessa. Vorrei che prima qualcuno arrivasse alla vetta lungo la Maestri-Egger, poi potremmo discuterne. Fino a quando questo non accadrà non dirò quello che penso. Al 99 per cento credo di sapere come sono andate le cose lassù al Torre. Però prima di rilasciare dichiarazioni voglio essere sicuro al cento per cento». E per trovare prima o poi questa certezza, Toni Ponholzer intende tornare al Cerro Torre.
Invece Tommy Bonapace, che vive a Rum, nei pressi di Innsbruck, non sa dire se mai tornerà al Cerro Torre. Il suo ultimo tentativo alla Maestri-Egger risale ad almeno dieci anni fa. Il 10 maggio 1993 affronta la via insieme a Ponholzer e a Gerold Dünser, originario del Vorarlberg. Gli alpinisti impiegano tre giorni per raggiungere il Colle della Conquista. Al termine di 27 tiri complessivi raggiungono un punto 200 metri al di sopra della sella, sul versante nord-occidentale della montagna. Il brutto tempo li costringe tre giorni e mezzo nelle portaledge. Un po’ alla volta si esauriscono le scorte e le forze. Gli alpinisti sono tormentati da segnali di congelamento. Nel momento in cui il tempo migliora leggermente, Bonapace, Ponholzer e Dünser si calano. Devono bivaccare ancora una notte in parete. Dopo nove giorni mettono di nuovo piede su un terreno sicuro.
Secondo il trentaseienne Bonapace, la Maestri-Egger sarebbe “puro terrore psicologico”. Il sorriso lievemente ironico che gli compare in viso non significa che sta esagerando. “II Cerro Torre è come una montagna viva. Con la sua bellezza attira gli alpinisti, poi però cerca di cacciarli via in qualunque modo”. Forse è necessario sperimentare tutto ciò un paio di volte, le tempeste che si scatenano intorno allo spigolo nord-est del Cerro Torre, le slavine che precipitano dal fungo sommitale; forse è necessario partire pieni di speranze almeno un paio di volte dalla Laguna Torre, per poi fare dietrofront, scacciati dalla parete dalla neve e dalla tempesta; forse è necessario aver puntato così alto sulla ripetizione della Maestri-Egger, è necessario aver rischiato tanto quanto Bonapace per arrivare a dire: “Oggi come oggi per me è totalmente indifferente sapere se Maestri ed Egger sono stati in vetta oppure no”.
Sorprende il fatto che proprio chi ha affrontato ripetutamente le pareti del Cerro Torre assume un atteggiamento molto più rilassato nei confronti della vicenda di Cesare Maestri, che non chi nutre un interesse di tipo accademico per i fatti di allora. Forse perché sanno che solo il tempo e il caso pronunceranno la sentenza definitiva. Se un giorno un chiodo o un altro pezzo di attrezzatura di Maestri fosse rinvenuto lassù sulla parete nord oppure sullo spigolo nord-ovest del Cerro Torre, la versione di Cesare Maestri acquisterebbe notevolmente in credibilità. Fino a quando questo non accadrà, nessun osservatore potrà dire con certezza cosa è accaduto lassù. E solo allora forse la storia di Cesare Maestri, iniziata nel 1959, si potrà dire conclusa per sempre.
Cesarino Fava sembra aver trovato un modus vivendi con il fatto di essere continuamente chiamato in causa come protagonista minore di questa vicenda. Per ore e ore mi racconta della sua vita oltre le spedizioni al Cerro Torre, che nel totale degli anni vissuti costituiscono in fondo solo una piccola porzione. Una cosa mi è chiara: quest’uomo non ha bisogno del Cerro Torre. In realtà l’idea di tentare questa vetta patagonica è stata sua. Ed è stato sempre Fava a organizzare le prime due spedizioni trentine. Tuttavia in nessun momento, né prima, né durante, né dopo le spedizioni, Fava ha mai legato in maniera così fatale, che non ammette compromessi, la sua esistenza al Cerro Torre, come invece ha fatto il suo compagno Cesare Maestri. Nella vita di Fava non esiste solo questo filo di paglia al quale aggrapparsi come un naufrago per non perdere il rispetto di se stesso. No, i punti di riferimento sono variamente distribuiti nella vita di Fava. Durante la sua gioventù in val di Sole, o quando faceva il lavapiatti in un hotel di Llao-Llao, un buco ai piedi delle Ande argentine. Nelle sue avventure di alpinista maturo, che nel 1978, all’età di 58 anni, scala il Fitz Roy. Nella sua vita di padre di famiglia che nel corso del tempo ha mantenuto la moglie di vent’anni più giovane e i quattro figli allevando polli, oppure mandando avanti un’edicola.
Nella vita di Fava, diversamente da quella di Maestri, l’aspetto sportivo dell’andare in montagna non è mai stato in primo piano. Di vecchia scuola, Fava vede nell’alpinismo «più che lo sport uno stile di vita, una filosofia». L’uomo affidato solo a se stesso, allo sbaraglio in una natura selvaggia e minacciosa, alla quale deve imporsi, questo è l’argomento che interessa Fava: “La montagna pone un problema all’alpinista. L’ambire alla vetta è solo una giustificazione. In primo piano c’è la sfida, l’avventura. Non è solo importante che qualcosa venga fatto. È importante anche lo spirito con il quale si arrampica».
La lacerazione interna di Maestri, la sua insoddisfazione, la sua ansia di agire deriverebbe anche dal fatto che pur condividendo l’idea di alpinismo di Fava, non sarebbe però mai stato in grado di metterla in pratica, a causa delle condizioni oggettive: «Con l’alpinismo Maestri si è dovuto guadagnare il pane e lo status sociale». Da qui la sua teatralità, la sua esigenza di precisare che, unita a un temperamento esuberante, lo avrebbe indotto anche troppo spesso a uscite provocatorie. Ezio Alimonta, che nel 1970 era il giovane accompagnatore di Maestri nella prima alla via del Compressore, definisce Maestri una personalità duplice. In montagna generoso, pronto al sacrificio, un vero amico, al quale ci si può affidare totalmente. A valle invece… A valle invece l’ambizione ha sempre sopraffatto la sua mitezza e la sua umanità.
Lasciando Fava al termine di una delle mie prime visite, rifletto che quest’uomo non ha alcun motivo per sostenere in malafede la tesi di Cesare Maestri. Questa considerazione mi solleva. Il sollievo però si volatilizza sempre più, man mano che mi addentro nel racconto del Cerro Torre, man mano che le domande senza risposta e le contraddizioni emergono più chiaramente. Fava mi ha detto che posso tornare quando voglio. Vado a Malé. È una giornata di ottobre fredda e piovosa, immersa nelle nuvole basse la val di Sole sembra un tunnel. Lascio la macchina al parcheggio del cimitero che è vicino alla casa di Fava. Passo il giardino, il piccolo orto e il masso erratico di granito patagonico, salgo la scala di legno che scricchiola. Busso alla porta, sento i passi trascinati che si avvicinano, vedo il viso sorridente di Fava. “Hola, Tom, entra, mangiamo qualcosa insieme”.
L’ospitalità mi imbarazza. Mi sento inquieto, mi par di sedere sui carboni ardenti mentre ci beviamo un bicchierino di rosso, un espresso. Chiedo notizie dei figli di Fava, che vivono a El Chaltén, di fronte al Cerro Torre. Parliamo del nostro amore per la Patagonia, per questo mondo “di confine” che nel corso degli anni è molto cambiato e che ancora cambierà. Fino a quando non ce la faccio più a trattenermi.
“Cesarino, c’è qualcosa nel racconto di Cesare Maestri che non quadra”.
Fava mi fissa, stupito.
“Non voglio nemmeno prendere in considerazione l’idea” dice, “che Maestri possa aver mentito”.
“E tu, Cesarino, ci sei stato o no al Colle della Conquista?”
“Sì. E lassù ho capito che per me la faccenda era conclusa. Non avevo mai avuto il desiderio di arrivare in vetta al Cerro Torre. Io avrei addirittura preferito che i due non ci fossero andati. Perché così quella vetta sarebbe rimasta il simbolo del limite delle umane possibilità”.
Maestri però non l’avrebbe mai accettato. Per lui il Cerro Torre rappresentava tutt’altro. La sua forza di volontà, le sue capacità praticamente illimitate e comunque superiori a quelle di tutti gli altri. E in seguito tutto ciò che Maestri vedeva di ostile, sfavorevole e cattivo nel mondo. Il Cerro Torre era l’oggetto dei suoi desideri e il segnale del suo abbattimento. Nel bene e nel male la vita di Maestri girava e continua a girare intorno a questa montagna, perché anche nel momento in cui lo rifiuta, il Cerro Torre è lì, presente.
Dopo essere tornato dalla Patagonia nel 1970 Maestri fa numerosi viaggi con la sua famiglia, in Africa, Sudamerica, Asia e negli Stati Uniti. Di regola i Maestri trascorrono i mesi estivi, quando chiudono i negozi di Madonna di Campiglio, in Sardegna. Gian ripercorre le orme paterne, diventando istruttore di tennis e sci. Maestri invece è ancora attivo come guida alpina. Durante i mesi invernali lavora come istruttore di sci.
Quando nell’agosto del 1979 Maestri, insieme a un giovane collega, deve affrontare l’ingrato compito di recuperare la salma della guida alpina Fino Serafini dalla vetta del Crozzon di Brenta coperto di neve, ha un attimo di esitazione in un passaggio facile della parete. Prega il compagno di andare da primo. “Perché in questo preciso momento”, ha scritto Maestri in seguito, “ho deciso che smetto di arrampicare. (…) Agli inizi della mia carriera (…) mi ero imposto delle regole che sarebbero diventate per me un codice d’onore: (…) smettere di arrampicare il giorno in cui avrei sentito il bisogno di cedere a qualcun altro il mio posto di capocordata”. Maestri ha 49 anni. La decisione lo fa precipitare in una crisi esistenziale profonda. Tutte le emozioni, l’entusiasmo, la voglia di vivere che l’arrampicata gli aveva fatto provare, vengono spazzate via in un istante. Maestri prova a cimentarsi in altri sport, si mette a fare foto, tenta una cosa e l’altra. Non riesce a trovare soddisfazione. «Era come offrire di leccare liquirizia a un drogato di eroina facendogli credere che avrebbe provato le stesse sensazioni”.
Segue una serie di eventi negativi. Nel 1985 si ammala Fernanda, la moglie di Maestri. Per nove anni soffre di una grave forma di depressione. Maestri si sente in parte responsabile, in fondo le sue spedizioni al Cerro Torre hanno imposto alla loro unione grandi tensioni emotive. Quando il 22 marzo 1986 nasce la nipotina Carlotta, Maestri comincia a vedere il mondo un po’ più rosa. Passa molto del suo tempo con la bimba, un po’ alla volta ricomincia a provare gioia a vivere nella natura. All’inizio degli anni Novanta infine Maestri ricomincia ad arrampicare. “Un modo stupendo”, ha scritto, “per ricercare me stesso”.
Nel novembre del 1994 a Maestri viene diagnosticato un tumore allo stomaco. L’alpinista, che per tutta la vita si è confrontato direttamente con il pericolo di morire, deve a quel punto iniziare una lotta contro un nemico invisibile. «Si nasce, si vive, si muore”, ha scritto Maestri. “Rovistando nell’archivio del mio passato, feci il bilancio della mia vita, che nonostante gli errori e le polemiche potevo considerare positivo”. II 2 gennaio 1995 Maestri viene operato, il decorso è positivo. Dodici giorni più tardi esce dall’ospedale di Trento. “Per la seconda volta devo la vita a qualcuno. La prima nel ’59 a Cesarino Fava che mi aveva recuperato ai piedi del Cerro Torre e ora ai medici che mi avevano operato. (…) Dopo un mese ripresi ad arrancare faticosamente lungo i pendii di facili montagne, non per superarle o per superarmi ma perché quello era l’unico modo che conoscevo per riprendere a vivere”.
Quando incontro nuovamente Maestri (sei mesi dopo il nostro colloquio terminato un po’ bruscamente), ha l’aria invecchiata, pare ancora più fragile. Ha da fare, la stagione invernale comincia tra poco, i due negozi devono essere sistemati. A Madonna di Campiglio tira vento, c’è già una temperatura fresca, autunnale. Ci diamo appuntamento al monumento di pietra che ricorda le guide di Campiglio. Maestri mi dice che non ha molto tempo. Comunque, come d’accordo, anche stavolta neanche una parola sul Cerro Torre.
Ha invece portato con sé il suo curriculum vitae che ancora oggi è intitolato Uno dei migliori alpinisti solitari al mondo. Maestri non sa nemmeno che nel frattempo vengono arrampicate in solitaria vie ben più impegnative che non ai suoi tempi. Maestri non si interessa dell’evoluzione dello sport dell’arrampicata, nell’ambito del quale oggi si affrontano vie che ai suoi tempi non erano nemmeno immaginabili. Ma la cosa non lo interessa neanche, sostiene. Il concetto di arrampicata libera, che prevede la progressione solo ricorrendo a prese naturali, pur ricorrendo all’assicurazione mediante corde e chiodi, gli rimane estraneo. Secondo lui arrampicata libera significa rinunciare alla corda: sia per la progressione sia per la sicurezza. E stop. “Se fossi giovane”, dice, “mi dedicherei all’arrampicata di velocità. E mi prefiggerei come scopo di battere continuamente nuovi record”. Come prima.
Benché non fosse mai stato prima alle alte quote, nel 2000 Maestri ha tentato l’ascensione dello Shisha Pangma 8046 m per comunicare da lassù con una bandierina della pace il suo messaggio al mondo. Il tentativo di ritornare nella memoria collettiva con una grande prestazione in montagna è fallito. Già al campo base il fisico invecchiato nega il suo sostegno allo spirito. Disilluso Maestri tornò indietro. Senza un compito, senza una meta. Come un soldato che non riesce a capire che la guerra è finita. Maestri dice che la sua vita è diventata noiosa. No, non dà proprio la sensazione di una persona anziana felice.
«Adesso sono le quattro di pomeriggio», mi dice. «Se in questo momento venisse qualcuno a dirmi che nel giro di mezz’ora devo morire gli risponderei: dammi un’ora perché possa congedarmi dalla mia famiglia».
“Saresti in pace con te stesso?”.
“Questa è la cosa più importante: voglio sempre potermi guardare allo specchio”.
Alla fine è lui che deve convivere con la storia di Cesare Maestri. Che lui ed Egger siano stati o meno in vetta al Cerro Torre: Maestri deve riuscire a convivere con la montagna che ha segnato il suo destino. In un modo o nell’altro. Se ha raggiunto la vetta questo significa che una delle più grandi prestazioni alpinistiche del XX secolo viene messa in dubbio ingiustamente. Se non l’ha raggiunta questo significa che da 45 anni si porta dentro una menzogna esistenziale. Dopo i saluti mi fermo a osservare Maestri che a capo chino se ne va verso la piazza del mercato. Sul suo cuore, penso, non grava il peso di una pietra, ma di un’intera montagna.