Il Bollettino della SAT (Società Alpinisti Tridentini) del marzo-aprile 1959 è interamente dedicato al Cerro Torre. In apertura è il racconto La conquista del Cerro Torre a firma di Cesare Maestri; segue L’aria è limpida sul Cerro Torre di Giulio Gabrielli, il racconto degli antefatti; poi ancora In ricordo di Toni Egger di Alfred Thenius; infine è Dal diario di Cesarino Fava, a firma dello stesso.
La Rivista Mensile del CAI n.7-8 del 1961 riprese integralmente il racconto di Maestri, senza cambiare una virgola rispetto a quanto pubblicato sul Bollettino della SAT: ma al fondo vi fu aggiunta la relazione tecnica della salita, che qui riportiamo per concludere.
Abbiamo ritenuto opportuno, a distanza di sessanta anni, riprendere queste testimonianze la cui lettura, negli odierni tempi di condanna o quanto meno di dubbioso sospetto, è particolarmente suggestiva. Perché le parole che vi si leggono, e le emozioni relative, sono libere dal pesante fardello del quale in seguito la vicenda si sarebbe caricata. In più, la relazione tecnica è un documento del quale pochi hanno potuto disporre per fare una valutazione sulla veridicità di quell’impresa.
La conquista del Cerro Torre
di Cesare Maestri
(pubblicato su Bollettino della SAT del marzo-aprile 1959)
Le quindici del 31 gennaio 1959: un improvviso e caldo vento dall’ovest fa scattare ad una ad una le trappole che salendo abbiamo lasciato aperte lungo la paurosa e ripida parete nord-ovest.
L’altimetro segna 250 metri oltre la quota conosciuta della cima del Torre. Non c’è tempo da perdere. Assicurati con le piccozze piantate fonde nella neve per non essere strappati dal vento facciamo sventolare 5 piccole bandiere: l’Italiana, l’Austriaca, l’Argentina, quella della città di Trento e la fiamma della Società Alpinisti Tridentini, e poi velocemente le solite cose: fotografie, trangugiare in fretta l’ultima scatola di frutta sciroppata, scrivere su di un foglio i nostri nomi e depositarli su questa cima di ghiaccio e scendere, scendere più veloci possibile.
Non c’è posto in noi per la felicità; un infinito senso di morte ci sovrasta. Sono circa cento ore che viviamo su questa montagna patagonica, cento ore di fatiche che rappresentano per noi, in qualsiasi caso, l’ultimo atto di questa nostra avventura cominciata il 21 dicembre quando in compagnia di Toni Egger, Cesarino Fava, Angelo Vincitorio studente in medicina, Jaun Pedro Spikermann studente in geologia, Augusto Dalbagni studente in chimica e Gianni Dalbagni studente in ingegneria, abbiamo lasciato Buenos Aires a bordo di un camion che ci portò in una settimana all’estancia «La Primera» punto di partenza per l’avvicinamento al Cerro Torre.
È lunga la strada dalla capitale argentina alla base del Torre, e noi abbiamo attraversata questa immensa e piatta Patagonia, un po’ in camion, un po’ a cavallo e un po’ a piedi. Ma quello che conta è che tutti hanno lavorato bene. Abbiamo fatto un lavoro da formiche portando i mille chili di carico dalla estancia «Fitz Roy» fin qui ai piedi del Torre.
In dieci giorni di continuo e massacrante lavoro riusciamo a installare tre campi. Il primo alla Laguna Torre a 750 metri di altitudine, il secondo ai piedi del «Mocho» a quota 950 e il terzo a 1650 metri, un buco di ghiaccio esattamente a 200 metri dalla formidabile parete che ci sovrasta.
Il giorno 9 cominciamo il duro lavoro di salire e scendere per la parete est attrezzando con corde fisse i metri di parete che faticosamente conquistiamo.
Ma il maltempo ci blocca due settimane continue. Vento e neve, sempre, di giorno e di notte finché lentamente si rimette al bello. Arriva così il 28 gennaio quando in silenzio Fava, Egger ed io ci leghiamo alla base della parete est.
Fava è carico come un mulo. Risaliamo velocemente usufruendo delle corde fisse: il primo diedro e poi il secondo arrivando dopo 11 ore alla piccola forcella a nord del Torre. Da qui possiamo vedere tutta la parete nord e nord-ovest.
Due sarebbero le soluzioni: attraversare tutta la parete ovest per entrare in un gran camino che sembra porti alla base del grande strapiombo di ghiaccio orientato a sud-ovest per poi riattraversare in alto verso nord-ovest. Ma in alto ci sono grandi funghi di neve e molte cornici da superare. La seconda soluzione sta sopra le nostre teste: sulle ripide placche della parete nord che scende qui alla forcella si è accumulata molta neve portata dal vento e gelata dal freddo, formando così una ripidissima parete di ghiaccio.
Toni ne prova la resistenza: sembra tenere. Il tempo tende al bello e fa freddo. Ci guardiamo tutti e tre. Questa volta o mai. Ma sappiamo che con un po’ di calore questa parete diventerà una trappola.
Nessuno di noi parla, in silenzio accettiamo tutto quello che dovrà avvenire. Fava scende solo, sparisce veloce mentre lo caliamo di peso lungo l’ultimo tratto che ci ha portati qui alla forcella. Fava, sempre assicurato da noi, si aggancia alla corda fissa che abbiamo abbandonato in precedenza per attrezzare la traversata che lo porterà alla serie di fessure sopra il nevaio pensile.
Quando Fava arriva dall’altro lato della traversata ci fa dei segnali tirando la corda di assicurazione che noi ricuperiamo docile. Fava tirando un capo della corda doppia abbandonata, la fa scorrere lentamente fin tanto che il suo capo, passando attraverso il cordino che la trattiene dall’altro lato, non si sgancia fischiando, dandoci l’idea che solo ora l’amico ci ha abbandonati.
Prepariamo il bivacco, mentre il tempo migliora sempre più. Una sera fredda e calma ci lascia riposare, ma la notte passa in fretta e bisogna ripartire.
Portiamo con noi una corda di 200 metri di perlon, 40 chiodi da ghiaccio, 50 chiodi normali, 100 chiodi ad espansione, cordini e cunei di legno. Viveri per tre-quattro giorni e tutto l’equipaggiamento per bivaccare.
Il freddo è intenso, decidiamo che Toni, più veloce e più leggero di me, salga per primo. Io cercherò di ricuperare il tempo salendo il più veloce possibile. La neve benché pericolante e posticcia porta abbastanza bene e Toni è un artista, sul ghiaccio fa quello che vuole. Dal canto mio cerco di fargli risparmiare tempo.
Tutto il giorno dura questo rincorrersi per questa ripida e pericolosa parete diventata di ghiaccio, finché la pendenza diminuisce e arriviamo al ghiaccio vero, dove i chiodi possono entrare senza fermarsi contro le placche dopo pochi centimetri. Ora non sentiamo più il rumore sordo dei nostri passi che rimbomba paurosamente.
La sera del 29 abbiamo fatto 300 metri, ma sopra di noi rimane molto da fare. Il tempo si mantiene bello. Scaviamo la nostra tana: mangiamo e beviamo tè.
La mattina del 30 riprendiamo a salire, a comando alternato, per ripide paretine e canali formati dal vento che ci aiutano a ricuperare un po’ del tempo che abbiamo perduto forando due grandi cornici. A sera arriviamo sul pianoro sotto la cima a circa 250 metri da questa. Ancora una tana, una notte ancora con la preoccupazione di quello che sarà la discesa.
E arriva la mattina del 31. Il primo salto che superiamo, di circa 60 metri, è ripidissimo, quasi verticale. Saliamo senza fermarci, lo superiamo e per un canalino tortuoso ma ripido e ancora qualche piccolo strapiombo di ghiaccio, sbuchiamo sotto il tratto terminale.
Fa molto caldo, dall’ovest è cominciato a soffiare un fortissimo vento. Acceleriamo l’andatura. Toni al termine della sua filata corda mi urla: «La cima».
Salgo di corsa con un sapore di fatica nella gola: a circa 50 metri da noi sta la cima. Saliamo ancora mentre il vento continua a soffiare con violenza.
Ci sembra impossibile. Io non sono felice, questa è una cima come le altre. Quanta fatica, quanto rischio, quanti fattori estranei all’Alpinismo mi hanno dato la forza di salire. No! Non sono felice.
Mangiamo qualche cosa, fotografiamo bandierine che non possiamo attaccare alle piccozze perché ci servono per ancorarci alla cima tanta è la forza del vento, e poi scendiamo il più velocemente possibile, lasciando sulla cima qualche impronta, il vento a giocare con una latta vuota e un sogno infranto. Ci fermiamo al bivacco del 30. Il vento continua. Sembra che sopra di noi corra continuamente un treno. Dalla cima cominciano a cadere piccole slavine. La notte passa male: sapevamo che cosa ci aspettava più sotto.
Il 1° febbraio scendiamo continuamente, il vento caldo rende la neve come una poltiglia che si stacca e precipita rumorosa. La sera ci sorprende poco sopra la «Forcella»: siamo riusciti a discendere circa 400 metri. Calarci è stato qualche cosa di tragico; il calore, sciolta la neve che ci aveva permesso di salire, lascia pulita la roccia. Nessuna possibilità di piantare chiodi normali. Ogni corda doppia dobbiamo piantare due chiodi ad espansione sotto il continuo cadere di grosse slavine.
La notte passa fra il rumore del vento e delle valanghe. Non sentiamo nemmeno più fame, e non possiamo prepararci niente di caldo, perché il vento rende inservibile il piccolo fornello ad alcol solido.
Il 2 continuiamo a discendere lungo placche che sono coperte da un leggero strato di neve che viene continuamente spazzato dal vento e dalle valanghe che cadono dall’alto. Abbiamo deciso di non scendere alla «Forcella», ma di tagliare diagonalmente tutta la parete nord per poi poterci calare al termine inferiore della traversata, che dopo il ricupero da parte di Fava della corda fissa, sarebbe divenuto per noi un ostacolo maggiore.
Per scendere adottiamo il sistema che si usa nei salvataggi: uno di noi si lega ai capi della corda doppia e l’altro lo cala di peso, passando la corda fra 2 moschettoni frenanti. Dobbiamo fare così altrimenti le corde verrebbero portate via dalla forza del vento.
Continuiamo a scendere sempre in questo modo, e arriviamo così verso le diciannove del 2 febbraio a circa 100 metri dalle corde fisse.
Decidiamo di passare la notte sul bordo destro del piccolo nevaio pensile. Pianto dei chiodi a espansione e cominciamo a scavare il buco per passare la notte. A Toni questo posto non sembra tanto sicuro, vuole vedere a destra più in basso, dove crede di intravvedere un luogo più comodo.
Mentre lo calo, arrivato a una ventina di metri da me, un rumore assordante mi fa alzare il capo: un’enorme massa di neve e ghiaccio si stacca dalla cima. Urlo: «Attento Toni» e mi appiattisco contro la parete. Un colpo sordo, la corda si tende, Toni è investito e coperto dalla valanga, un pezzo di ghiaccio lo colpisce alla testa. La valanga continua a cadere con sempre minor forza, finché solo pochi pezzi di ghiaccio passano fischiando. Il piccolo nevaio è stato letteralmente spazzato.
Chiamo Toni, nessuno risponde. Non rimane nessuna speranza. Mi rannicchio nei mio buco di neve e aspetto che passi questa notte tremenda. Domani forse sarebbe stata la volta mia. All’alba del 3 febbraio esco dal mio buco come un condannato a morte. Comincio a scendere a corda doppia con lo spezzone che mi rimane. Dalla cima continuano a cadere grosse valanghe. Passano ore e arrivano le corde fisse: scendo lungo queste. La parete è un inferno; a pochi metri dal cono di deiezione, mi scivolano i piedi e non riesco a tenermi con le mani, volo e la neve caduta durante la notte mi accoglie materna e attutisce il colpo. Lo spirito di conservazione mi porta attraverso il tormentato ghiacciaio a circa 300 metri dal campo 3 dove Cesarino è rimasto ad attenderci per 6 giorni da solo, ed è appunto Cesarino che, per caso, mi trova molte ore dopo in uno stato di semi-incoscienza mentre, accucciato davanti a un grande crepaccio che mi sbarrava la strada, balbettavo: «Toni è caduto».
Due giorni dopo, dopo uno sfortunato tentativo di Cesarino e dei compagni per cercare il corpo di Toni, lasciamo il campo al «Mocho», per scendere al campo 1 sotto una nevicata fortissima.
Ora, ritornato a casa mia, fra i miei amici, fra le mie consuetudini, sento maggiormente la mia solitudine. Toni non sarà più con me, e i miei amici e compagni di spedizione vivono in un’immensa metropoli, tanto immensa che non riesco ad immaginarli in qualche luogo noto. Quanta tristezza e amarezza ho trovato sulla cima del Torre, e quanta ai suoi piedi lungo la strada che lo divide dalla mia Trento. Mi resta solo un ricordo e una pesante cartella piena di lettere e fogli.
La cartella contiene la prima lettera scrittami nel 1953 da Fava, il quale mi parla della possibilità di effettuare una spedizione al Cerro Torre. Contiene una lettera del signor Manfredo Segre, presidente dell’allora sezione del CAI di Buenos Aires, dove, dopo avermi proposto di partire sotto il Suo patrocinio, si augura di vedermi «capitaneggiare un plotone di alpinisti che dovrebbero piantare la bandiera Italiana sulla cima del Cerro Torre».
Solo nel 1956 riusciamo quasi a formare la spedizione, ma per opera del Circolo Trentino di Buenos Aires, essendosi disciolta, per beghe interne, la sezione del CAI, riusciamo a partire solamente nel dicembre del 1957 con una spedizione patrocinata dalla SAT e dal Circolo Trentino di Buenos Aires e sotto la direzione della guida Bruno Detassis.
In mare veniamo a sapere che il signor Folco Doro Altan ha pagato il biglietto in aereo a Bonatti e Mauri perché fossero gli uomini di punta di una spedizione italo-argentina. Nessuno arrivò in cima, anche perché il nostro capo spedizione dichiarò il Torre impossibile e quindi ci proibì di attaccarlo.
Ritornammo. Lasciai la mia piccozza al Circolo Trentino di Buenos Aires con la promessa che sarei ritornato a riprenderla per piantarla sulla cima del Cerro Torre.
Nell’estate del ’58 ognuno preparò la spedizione al Torre per conto proprio, chi parlandone, chi in silenzio.
Nell’autunno del ’58 i francesi chiesero al CAI se questi patrocinasse spedizioni ufficiali al Torre. Il CAI rispose di no e dava per tanto ai francesi campo libero. Couzy scrisse a Bonatti che cosa avesse intenzione di fare, ma nessuno si ricordò che anch’io avevo la mia parte di diritti su questa montagna.
Seppi da vie indirette e in modo inesatto di questo carteggio fra i Francesi e gli Italiani.
La notizia della morte di Couzy mi colpì duramente. Non lo conoscevo personalmente, però lo stimavo e lo avevo sempre classificato il più forte e più completo arrampicatore del mondo. Pur non avendomi interpellato, non mi sarei mosso da Trento se avessi saputo che Couzy fosse partito alla volta del Cerro Torre. Solo dopo la sua morte partii per Buenos Aires dopo aver racimolato due milioni e mezzo di lire. Non ci fu nessun aiuto ufficiale; Toni Egger partecipò con 250 mila lire e così partì in silenzio, solo, alla volta di Buenos Aires. Non mi piacciono le fanfare suonate alla partenza, preferisco quelle suonate all’arrivo.
Su questa grande montagna dopo circa 200 ore Toni ha perso la vita. Ha pagato a caro prezzo il suo sogno, ma ora dorme tranquillo. Non lo disturberà mai più il freddo, o l’urlo dà vento. Dorme avvolto nei colori delle bandiere che hanno sventolato sulla cima, perché tutte le bandiere del mondo rispecchiano il colore della natura che avvolge Toni. Il celeste del cielo, il bianco della neve, il verde dei boschi e il rosso del calore. Lui ora dorme. Ha lasciato a noi il doloroso racconto, e un vuoto incolmabile nell’Alpinismo mondiale e nei nostri cuori.
L’aria è limpida sul Cerro Torre
di Giulio Gabrielli
(pubblicato su Bollettino della SAT del marzo-aprile 1959)
Lo stesso silenzio che è regnato in alto durante la salita alpinistica deve durare nella valle, quando l’impresa è compiuta se si vuole che essa conservi la sua originaria purezza. Ed è con dispiacere che noi rompiamo questo silenzio, questa saggia e antica consuetudine della SAT per obbedire a un imperativo di giustizia e al mandato datoci dall’Assemblea generale dei Delegati delle Sezioni, riunita a Trento il 19 aprile 1959. Essa ha voluto che intorno alla più scintillante vittoria dell’alpinismo trentino non restassero, nella mente di chi non aveva vissuto da vicino l’impresa, le ombre del dubbio suscitate da una serie di articoli di Folco Doro e Bonatti cui, per l’accennata avversione alla polemica alpinistica, non era seguita una pronta e pubblica risposta. Ora, vagliate nel modo più obbiettivo possibile tutte le circostanze conosciute, parliamo col semplice intento di dire la verità, che è la cornice più umile e più doverosa entro cui si possa inquadrare l’eroica impresa di Toni Egger e Cesare Maestri sul Cerro Torre e quella precedente di Bruno Detassis con gli alpinisti trentini.
Sul Cerro Torre, montagna delle Ande Argentine, è nata prima la leggenda che la storia. Per bocca degli scalatori francesi reduci dal Fitz Roy il mondo alpinistico seppe di questa allucinante montagna e della qualifica avuta dai primi uomini che l’avevano guardata da vicino: impossibile. Quanto bastava perché gli alpinisti se ne innamorassero. Il Cerro Torre era di tutti. La montagna vergine è di tutti. Ma quando l’uomo taglia il primo gradino alle sue falde, dà vita a quel complesso di norme di lealtà e correttezza la cui osservanza lo qualifica alpinista nel pieno significato della parola. I Trentini in Patagonia furono alpinisti nel 1957 e nel 1958-59.
1957
Cesarino Fava con i suoi amici del Circolo Trentino di Buenos Aires fu il primo entusiasta del Cerro Torre e scrisse già nel ’53 a Cesare Maestri prospettandogli l’impresa. Maestri accettò e nacque così fra trentini di Buenos Aires e trentini locali il colloquio pieno di sogni, progetti e impegni che per comprensibili difficoltà economiche e organizzative si protrasse fino al ’57. In una lettera del 19 luglio 1954 così Cesarino Fava scriveva:
… La spedizione doveva essere organizzata con il patrocinio del CAI e infatti il signor Segre, Presidente della Sezione di Buenos Aires, ora sciolta, inviava a Maestri, il 12 aprile 1955, la lettera che riproduciamo qui sotto.
Allora segretario di quella Sezione era il signor Folco Doro che prestò la sua preziosa opera per esplorare la zona del Torre a vantaggio della progettata spedizione con Cesare Maestri e (come egli stesso dice in lettera a Lo Scarpone del 20 ottobre 1958) non a vantaggio di una sua spedizione personale. Cesarino Fava viene in Italia per accelerare i preparativi e accordarsi con gli scalatori trentini. E’ scelto capo spedizione Bruno Detassis, la guida alpina dalla formidabile carriera alpinistica e dalla provata esperienza. Membri della spedizione sono l’accademico del CAI Marino Stenico, taciturno e insuperato collezionista di vie di VI grado, Catullo Detassis, guida alpina e fratello di Bruno, Luciano Eccher, fotografo e abituale compagno di cordata di Cesare Maestri, il quale rappresenta il punto forza e un po’ l’anima della spedizione. Questa coraggiosa fatica sostenuta da alpinisti trentini distanti migliaia di chilometri, ha il significato di un ponte ideale con gli italiani all’estero e le autorità regionali e provinciali, dimostrando pronta sensibilità, danno il loro appoggio finanziario a fianco della SAT e di altri enti cittadini.
Il 19 dicembre 1957 la spedizione parte da Genova a bordo della nave Salta. Ad essa si uniranno a Buenos Aires il valoroso alpinista Cesarino Fava e Tito Lucchini. Frattanto in Argentina Folco Doro Altan, forse per sopravvenute divergenze col Circolo Trentino, decide all’improvviso di organizzare per suo conto una spedizione al Cerro Torre con altri uomini. L’imminente partenza degli alpinisti trentini era già di dominio pubblico sia in Italia che in Argentina. Con lettera del 2 ottobre 1957 Folco Doro invita Walter Bonatti e Carlo Mauri a partecipare alla sua spedizione, raggiungendo l’Argentina in aereo. Questi partono.
Sulla stampa si leva qualche voce di protesta per la gara che sembra essere sorta. Ma la SAT non crede opportuno intervenire, conscia che una gara nasce non per colpa di chi parte tranquillamente, bensì per colpa di chi insegue.
Ora incombe sul Cerro Torre la condanna di essere vinto. Ma non è stato un pastore che appoggiandosi al suo bastone ha guardato sbigottito il Cerro Torre e ha detto: «Impossibile!». Sono stati Lionel Terray e Guido Magnone, i fortissimi alpinisti francesi vincitori del Fitz Roy e il loro giudizio ha presto per entrambe le spedizioni il crudo sapore della realtà.
La cordata di Bonatti e Mauri si innalza fino ad alcune centinaia di metri dalla vetta, poi discende. I trentini restano alla base del vertiginoso versante opposto e non attaccano, obbedendo all’ordine del loro capo spedizione che giudica troppo gravosa la responsabilità di mandare allo sbaraglio i suoi uomini sulla repellente parete. Chi è abituato a toccare il muro dell’impossibile con le mani stremate piange nella sua tenda.
Ci si vendica sulle altre cime e intorno al Cerro Torre i trentini scalano per la prima volta il Cerro Grande, il Cerro Doblado, il Cerro Raganella, la punta Lelia e la punta Anna. Inoltre vengono compiute la prima ascensione dell’Adela Sud per il versante occidentale, la seconda ascensione dell’Adela Centrale per la cresta nord-est e la seconda ascensione del Cerro Adela Sud.
La spedizione trentina ritorna. Il Cerro Torre resta solo e intatto e gli uomini che si erano attendati per settimane alla sua base lo avranno negli occhi e nel sangue come una malattia. Più di tutti Cesare Maestri. Egli lascia la sua piccozza al Circolo Trentino di Buenos Aires con la ferma promessa che l’anno prossimo ritornerà.
1958
A Trento Cesare Maestri è la formica che con inflessibile tenacia porta una briciola alla volta nella tana per la provvista dell’inverno. Un chiodo qui, un moschettone là, la barba lunga e negli occhi sempre le disperate lavagne del Cerro Torre e una volontà più dura della pietra. Ora gli aiuti non sono più così facili. Anche gli amici a volte lo guardano come chiedesse sovvenzioni per un salto nella luna.
La Sezione Universitaria della SAT è un gruppo di alpinisti giovani ed entusiasti. Come nel 1957 anche ora dà la sua fiducia, il patrocinio morale e un mazzo di chiodi arrugginiti. E’ tutta la sua ricchezza, ma è quanto basta perché Maestri non si senta solo. Altri danno generosamente il resto. Cesarino Fava, Tito Lucchini e gli amici del Circolo Trentino lavorano con lo stesso entusiasmo in Argentina.
Ma anche i francesi, capitanati da Jean Couzy, affilano le armi e così Bonatti e Mauri con Folco Doro. Quando Maestri è informato che la spedizione francese è pronta e sul punto di partire, sospende deluso i suoi preparativi ancora in alto mare. Ma un fatto nuovo interviene. Jean Couzy, il grande alpinista francese, scompare tragicamente. I francesi non partono più. Anche Bonatti e Mauri non partono, come risulta da uno scambio di lettere avvenuto tra Jean Couzy e Bonatti prima del luttuoso evento e riportato per esteso dal quindicinale Lo Scarpone. Bonatti esprimeva nel suo scritto a Jean Couzy tutto il rincrescimento di dover rinunciare all’impresa causa difficoltà finanziarie e lasciava libero il campo alla spedizione francese.
La via è dunque aperta. Maestri parte. A questo punto si leva l’inaspettata protesta di Folco Doro Altan e di Bonatti che pubblicamente si dichiarano offesi e defraudati di un loro sacrosanto diritto di precedenza. La SAT anche questa volta non parla, certa che i suoi alpinisti hanno obbedito al codice della lealtà e della correttezza per gli accennati motivi e perché essa è in possesso di documenti del CAI Centrale dai quali risulta che Bonatti aveva inspiegabilmente rinunciato all’impresa prima della notizia della partenza di Maestri e quando gli veniva offerto dal CAI il patrocinio morale e dalla Snia Viscosa il completo finanziamento della spedizione.
Quindici giorni dopo la partenza di Cesare Maestri, lascia l’Italia alla volta dell’Argentina il suo amico e compagno di cordata Toni Egger. «Caro Cesare – aveva scritto la guida austriaca un mese prima – ho sentito che vai al Torre, se vuoi vengo con te». Quando Maestri, con gli occhi scintillanti, ci sbandierò la lettera, comprendemmo che intorno al Cerro Torre la leggenda dell’impossibile stava rompendosi.
«Toni, piacere», e l’uomo tutto nervi, muscoli e sorriso ti stringeva la mano come fosse un appiglio e poi incominciava a parlare con il suo italiano un poco sconquassato e le sue immagini piene di allegria. A saper leggere dentro le parole brevi, a saper guardare le sue allucinanti diapositive, a poco a poco ti nasceva un rispetto e un’ammirazione grande per Toni, l’alpinista eccezionale. A Trento sorrise dal finestrino del treno e disse che era felice perché partiva col suo amico Cesare e perché sentiva che insieme avrebbero vinto. Insieme hanno combattuto la sognata battaglia. Accanto a loro Cesarino Fava, Angelo Vincitorio, Juan Pedro Spikermann, Gianni Dal Bagni e Augusto Dal Bagni. Tutti la stessa battaglia del coraggio e della volontà contro la montagna proibita.
Il 31 gennaio 1959 il Cerro Torre fu scalato. Ma due giorni dopo Cesare Maestri, in ginocchio sull’orlo della crepaccia terminale, solo, con la sua disumana resistenza, non disse a Cesarino Fava che lo scuoteva: «Abbiamo vinto», disse «Toni è caduto». Noi alpinisti trentini ripetiamo le sue parole.
In ricordo di Toni Egger
di Alfred Thenius
(Traduzione di Tina Calandra Pedrotti)
(pubblicato su Bollettino della SAT del marzo-aprile 1959)
Nato il 12 settembre 1926 a Bolzano, e trasferitosi a 13 anni a Debant presso Lienz, il giovane Toni Egger ebbe, si può dire, due patrie. Ma sia Bolzano che Debant avevano qualcosa in comune: le montagne. E così le montagne divennero la vera patria di Toni.
Già all’età di 15 anni egli cominciò a percorrere le Dolomiti di Lienz e scalò, solo, l’Alpenrautenkamin. Non possedendo pedule da roccia, dovette arrampicarsi con i soli calzetti ai piedi, tenendo le scarpe in mano. Dopo la guerra egli cominciò la sua carriera di rocciatore delle Dolomiti della regione di Lienz. Andava quasi sempre solo giacché gli era difficile trovare un compagno adatto.
Nel 1950 venne per la prima volta nelle Dolomiti di Sesto. Non avendo Toni un passaporto, egli varcò la frontiera sui sentieri dei contrabbandieri. Nel suo diario turistico egli scriveva: «Arrivai per la prima volta nelle Dolomiti e fui incantato dalla bellezza di quelle maestose montagne. Ho uno struggente desiderio di ritornarvi per dedicarmi a escursioni più importanti». Le Dolomiti di Sesto divennero infatti, insieme alle Dolomiti di Lienz, le montagne più amate.
Tre mesi dopo, con Franz Rienzer, egli scalava la parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Generalmente il suo compagno di cordata era Heini Heinricher. Tra la salita invernale della parete nord del Laserzkopf e la prima sulla parete nord del Roter Turm (11 settembre), vanno elencate molte belle salite tra le quali la parete nord del Kellerturm nelle Alpi Carniche.
Nel luglio 1951 Toni incontrò, alla Stüdlhütte nel gruppo del Glockner, Franco Mantelli. Il giorno seguente essi scalarono il canalone Pallavicini sul Grossglockner. Durante la stessa estate è in giro per misurazioni, ma può concedersi alcune escursioni nelle Dolomiti. Scala lo Spigolo Giallo della Cima Piccola di Lavaredo con Heinricher e da solo le torri dello Spitzkofel.
Nel settembre 1951 Toni si iscrive al corso di guida alpina nelle Alpi dello Zillertal. Tra i 50 partecipanti al corso egli si piazza al quarto posto nel corso invernale e al secondo nel corso estivo. «… E’ stato un grande successo» egli scrive nel suo diario «giacché vi sono molti altri ottimi alpinisti, e devo onestamente riconoscere che non mi sono mai ritenuto il migliore».
Ma questo era solo il principio della carriera alpinistica di Toni.
Poi deve tornare alle misurazioni. Sul tracciato si trova una rovina di castello diroccato, alta 25 metri, e su di essa andrebbe messo un contrassegno per la misurazione. «Si può fare Toni?» chiede l’ingegnere. Toni allora si improvvisa scalatore di mura, riuscendo ad arrampicarsi sulla parete liscia alta 25 metri.
Nel 1952 ritorna nelle Dolomiti di Lienz. «Quante volte sono già stato nelle Dolomiti di Lienz, eppure qualcosa mi richiama sempre lì» si trova scritto nel suo diario di montagna. Le prime sulla parete sud-est del Roter Turm (16 marzo), della parete del Wildsender, della parete nord del Ellerturm e della parete nord-est del Roter Turm (15 giugno) danno la misura della sua attività. Con una costola rotta egli sale sulla parete nord del Grossglockner. Scala lo Spigolo Giallo, la via Cassin della Piccolissima di Lavaredo e la parete nord della Grande. Con Franco Mantelli raggiunge il Cervino per la Cresta di Furggen. Mentre Toni è su alto in parete, Franco gli grida: «Toni pianta chiodi!». Questa frase vien ricordata ancor oggi dagli alpinisti della Alpinen Gesellschaft Alpenraute a Lienz, società della quale Toni divenne socio nel febbraio 1952. E spesso durante una difficile arrampicata, nei punti più esposti, si gridava: «Toni, pianta chiodi!».
Alla fine dello stesso anno Toni sale ancora sulla Cima Ovest di Lavaredo con Gottfried Mayr e sulla Civetta, parete nord-ovest (via Solleder), con Franco Mantelli. Poi Toni va a lavorare in Svizzera.
Seguì un anno molto duro. Sembrava che tutto congiurasse contro lui. «Le montagne, le mie care montagne, sembrava che non avessero più nessuna attrattiva per me», scrive nel suo diario. Ma egli era e rimaneva uno scalatore; con tenacia, con asprezza si riprende. Il successo più importante di questo periodo fu la parete nord del Laserzwand nelle Dolomiti di Lienz. Questa prima egli la giudicò di difficoltà pari alla parete nord-est della Torre Valgrande.
Nell’anno 1954 Toni consegue importanti successi. In una scalata pomeridiana fa la via Cassin della Piccolissima e al ritorno il camino Preuss, poi lo spigolo Mazzorana della Cima Piccola in quattro ore e mezzo, la seconda scalata della parete sud del Laserz e infine il capolavoro: la parete nord della Cima Ovest e la parete nord della Cima Grande in un solo giorno con 11 ore di scalata effettiva.
Tutte queste arrampicate Toni le fece con Mayr. Ma anche da solo egli compì varie arrampicate: il Campanile Basso di Brenta, lo Spigolo Giallo della Cima Piccola in un’ora e un quarto, la Cima Grande per lo spigolo Mazzorana in salita e lo spigolo Dibona in discesa.
Confrontate con queste scalate, hanno meno risalto le altre indubbiamente belle imprese come la Torre Venezia per la parete sud (via Tissi) e la Torre Valgrande (in 6 ore e mezzo) fatte con Hansl Frisch. Una torre nel Seekofel, nelle Dolomiti di Lienz, ebbe una nuova via sulla parete est. Questa Torre porta oggi il nome di Toni Egger.
Il resoconto delle imprese del 1955 è così vasto che non è facile fare una scelta delle più importanti. Già il 30 gennaio egli comincia con la prima invernale della parete nord del Roter Turm. Poi la sua attività si estende dalla parete nord della Piccolissima (via Eisenstecken) fino ai monti della Bregaglia (Val Masino) dove scala la parete nord-ovest del Badile; da un salvataggio sulla parete nord della Cima Grande fino alla salita della parete est del Grand Capucin nel gruppo del Monte Bianco. Con Hans Sauscheck sale la gialla e difficilissima parete sud della Cima Piccola di Lavaredo (13 agosto).
C’è qualcos’altro in questa sua attività che a noi piace specialmente e che resta in ombra. Il 27 agosto egli va con un ragazzino, pieno di entusiasmo per la montagna sulla Cima Grande per lo spigolo sud-ovest; siccome il giovane si dimostra buon scalatore, Toni gli promette di condurlo sullo Spigolo Giallo il giorno successivo. La sera del 27 però la società «Alpenraute» festeggia il suo cinquantesimo anniversario. Così Toni torna in fretta a Lienz e riesce ad essere libero solo nelle prime ore del mattino. Ma fedele alla promessa egli va con Walli, così si chiama il giovane, sulla Cima Piccola per lo Spigolo Giallo. «In principio sentivo ancora lo strascico dei festeggiamenti notturni nelle ossa, ma dopo la seconda lunghezza di corda tutto andò bene».
Tali simpatici episodi emergono spesso dai semplici racconti delle sue imprese alpinistiche. Quando Toni, in novembre, insieme al giovane svizzero Seth sale per la quinta volta la Zustall-Südwand, quest’ultimo è ansioso di vedere come Toni avrebbe dominato le difficoltà nei punti più esposti. « … ora ho il punto chiave davanti a me. Seth aspettava di vedere con visibile ansietà, come me la sarei cavata. Quando già mi trovavo oltre il punto critico, chiesi a Seth: arriva presto quel cane bastardo? Egli mi rispose: l’hai appena superato, sei un vero campione Toni Egger».
Quando una bella ascensione gli riusciva bene, Toni si dimostrava sempre lieto. Ma non se ne insuperbiva. Quando una volta dovette interrompere una bella ascensione per andare alla ricerca di conoscenti che si erano perduti nella nebbia, egli scrisse: «La mia soddisfazione fu quella di aver salvato vite umane».
Come introduzione alle salite del 1956 sta scritto: «Quest’anno alpinistico deve essere uno dei più ricchi di successo. Voglia il Signore proteggermi e accompagnarmi per tutte le vie difficili che percorrerò. Siamo creature del nostro Creatore e ammiratori delle meraviglie della Natura che Egli ha creato».
Non più tardi del 6 gennaio egli scala, in compagnia di Peter Pfauder, una delle pareti più impervie delle Alpi Orientali, la parete nord dell’Hochstadl, nelle Dolomiti di Lienz. Poco dopo la parete sud del Roter Turm con Mayr. Una caduta di 150 metri da una parete di ghiaccio nel gruppo dell’Ortler si risolve per fortuna senza gravi ferite. Nel gruppo del Monte Bianco va sull’Aiguille Noire per la cresta sud, poi sul Dente del Gigante per la parete sud e ovest senza assicurazione. La parete sud dell’Aiguille du Midi fu quasi una prima. Toni non sapeva che Gaston Rébuffat due giorni prima aveva scalato la stessa parete. La parete nord della Cima Grande la scala da solo in 4 ore. Lo parete sud della Marmolada di Ombretta è scalato da lui assieme a Cesare Giudici per la prima volta. Nel gruppo delle Tre Cime di Lavaredo egli incontra Cesare Maestri; nessuno ancora può immaginare che quei due, in seguito, avrebbero insieme conquistato uno dei monti più impervi. L’anno termina con un viaggio in Turchia, organizzato dalla HG-Bergland, al quale partecipa anche Kollensperger. Molte belle cime nella regione del Kaçkar Dag vengono scalate.
Nel 1957 Toni Egger va nel Perù con la spedizione esplorativa del Club Alpino Austriaco. Dirige la spedizione il dottor Heinrich Klier. Per lungo tempo nessuna loro notizia arriva in Europa. Poi la radio e i giornali annunciano: il monte Jirishanca, il Cervino del Sudamerica, è stato conquistato il 12 luglio dalla cordata Egger-Jungmair. La conquista di questo monte, alto 6127 metri e che presentava notevoli difficoltà, fu un gran successo. La cosa si ripeté sul Monte Toro 6121 m, ma durante quell’ascensione Egger e Jungmair sfuggirono per caso ad una slavina di ghiaccio. Lo Yarupa 5685 m e il Cerro Santa Rosa 5706 m nella Cordillera Raura, assieme ad altre cime sui cinquemila, furono le vittorie maggiori.
Questo successo alpinistico provocò anche un successo professionale per Egger. A Toni venne data la direzione della Scuola d’alta montagna del Tirolo, con sede a Innsbruck. Egli si dedicò anima e corpo a questa nuova attività, e anche qui come semplice guida alpina egli si conquistò subito la simpatia di tutti. Il nuovo incarico gli lasciò naturalmente poco tempo disponibile per le sue ascensioni private. Ciononostante gli riuscì di compiere alcune «prime», quale lo spigolo del Patteriol (Ferwall), e la ripetizione dello spigolo sud-est della Cima Bois.
Alcune salite specialmente difficili, che da molti alpinisti sono vantate come «direttissime», e tra queste annoveriamo la Parete Rossa della Roda di Vael (2a ascensione) e la Cima Grande per la parete nord (4a ascensione della via Hasse-Brandler) dimostrano che su Toni si poteva sempre contare.
Poi vennero i monti della Patagonia. Già anni or sono Toni ci raccontava di enormi cuspidi di granito ferrigno che nella lontana America del Sud si ergevano nel cielo, sempre battuti da tempeste paurose. Per anni una strana nostalgia lo aveva tormentato, e sarebbe bastata una scintilla per indurlo a scattare. Così si compì il suo destino. Egli trovò in Cesare Maestri il compagno ideale di cordata e combatté la sua ultima vittoriosa battaglia. Morì realizzando il grande sogno della sua nostalgia. Il destino lo troncò nell’ultima parte della discesa: da una valanga di ghiaccio fu trascinato nell’abisso.
Le parole scritte nel suo diario sono diventate realtà: «Ringrazio Dio che per tutta la vita mi ha concesso di essere un uomo che ha sempre sentito la nostalgia».
La carriera di Toni è cominciata nelle Dolomiti di Lienz sul Roter Turm, e lì si erge la Egger Turm. Nelle Ande della Patagonia, sul Cerro Torre la sua carriera si è conclusa, e lì si erge il Cerro Egger.
Prima dell’ultima ascesa Toni ha scritto: «Il Torre è veramente un monte fantastico, un’enorme torre di granito le cui pareti sembrano tagliate da una lama. La parte superiore è coperta di ghiaccio: è una torre con pareti a picco che sale dai ghiacciai a quota 1000, si eleva fino alla vetta di 3128 metri e sfreccia nel cielo della Patagonia».
Dobbiamo prendere commiato dal nostro compagno di alpinismo Toni, ricordando le sue virtù di coraggio e di modestia. In molti cuori è entrata una grande tristezza, giacché Toni era un uomo buono e generoso e un ottimo compagno.
Il cordoglio di Trento per la morte di Toni Egger
(pubblicato su Bollettino della SAT del marzo-aprile 1959)
La notizia della morte di Toni Egger addolorò profondamente la cittadinanza Trentina che per la sua lunga e generale tradizione alpinistica è abituata a considerare amici gli alpinisti di qualsivoglia paese. Una delegazione composta dal Presidente della Sezione di Trento della SAT, dal Presidente della SUSAT, da un rappresentante degli accademici del CAI e dal padre dì Cesare Maestri partiva immediatamente per raggiungere a Settequerce la madre di Toni Egger e porgerLe le più vive e sincere condoglianze.
Alle solenni esequie celebrate a Lienz intervennero i rappresentanti delle Autorità Regionali e Provinciali Trentine, Cesare Maestri, i rappresentanti della SAT e della SUSAT e un folto gruppo dì amici Trentini,
Oltreché in queste tristi occasioni, anche in contatti successivi, si approfondiva il sincero legame di affetto sorto fra la gente trentina e la signora Egger, che ha dato a tutti un’edificante lezione di forza d’animo e di rassegnazione cristiana.
Dal diario
di Cesarino Fava
(pubblicato su Bollettino della SAT del marzo-aprile 1959)
E’ domenica, pomeriggio del 21 dicembre. Siamo al «Circolo Trentino». Finalmente si parte su di un camion in mezzo alle nostre casse e a un mucchio di masserizie. E’ un momento veramente commovente. Molti piangono. Tito, il caro e vecchio Tito, non gliela fa a terminare le otto parole di commiato e scappa via. Lui è dignitoso anche nelle sue emozioni. Il «vecio» non rappresenta per noi solo l’amico e la colonna principale della spedizione come organizzatore, ma una generazione: quella dei puri dei pionieri; quella, infine, dei grandi esempi. Lui vive nei suoi ricordi e nella sua genuina passione per la montagna. Caro Tito, io non avrò il bene di toccare la magica cima del superbo magnifico Torre (questo «non plus ultra» delle vette) ma se l’avessi, l’offrirei a te.
Inizia la grande avventura
Le case, le persone che sfilano davanti uscendo dall’interminabile Buenos Aires mi danno un senso di inspiegabile mestizia. Poi, finalmente, la «pampa», piatta come un tavolo, verde per le recenti piogge, ben coltivata in questa prima parte. Al crepuscolo il cielo si infuoca di un colore rosso sangue; le ombre si accentuano, si allungano fino all’infinito, poi, a poco a poco, svaniscono. Il caldo umido e soffocante lascia il posto a una fresca e riposante aura. Dietro a noi le avvilite e tristi luci urbane ci porgono l’ultimo saluto. L’avventura comincia. In questo camerone rotante su di un fondo che ha più la parvenza di un campo arato che di una strada, se non siete fachiri, non dormite. E se non dormite e non potete andare in nessun posto, che diavolo si può fare per accorciare la notte? Guardo Cesare che a poppa è incastrato dentro e sopra una fila di casse (ha lasciato che tutti si accomodassero alla meno peggio sul fondo, sopra delle reti metalliche). Lui è il capo e i suoi doveri li rispetta; e caso strano ho l’impressione che sia veramente un fachiro. Dorme. L’osservo da prua allungato sopra un mucchio di biciclette. L’immobilità di Cesare e il suo presunto sonno mi danno stizza. Cambio posizione. Penso e immagino: il Torre? Macché, le Dolomiti con un comodo rifugio e una tazza di brodo fumante davanti. Dalla finestra, stando seduto al tavolo dirimpetto, vedo lo spigolo del Crozzon di Brenta; se mi abbasso un po’ posso scorgere un pezzo della via delle Guide. Cambio finestra e vedo la valle di Brenta su su fino alla bocchetta omonima; ecco la Tosa, che bel nome la ragazza! Poi uno scrollone toglie il filo dei miei pensieri. Anche l’immaginare e il pensare è difficile stando su di un camion che attraversa di corsa la Patagonia.
Bahia Bianca, Trelew, Comodoro Rivadavia, San Julian, Comandante Piedrabuena. Città tutte eguali: case basse e strade dritte. E tra una città e l’altra il vuoto di centinaia di chilometri, terra eterna e sempre terra, piatta al nord, ondulata e collinosa al sud.
E’ la mesata patagonica venuta su dal mare nell’era geologica mesozoica che porta sul dorso, quale vestigia irreputabile della sua provenienza, grandi strati di conchiglie ora pietrificate. Per il resto noia, noia da morire; solo la fauna numerosa e varia ci offre uno svago. Le lepri, pernici e martinette sono il bersaglio preferito di Cesare. C’è lo struzzo veloce e dondolante, il guanaco leggero ed elegante come una gazzella, la volpe argentata. L’anno scorso la Patagonia la vidi attraverso il finestrino di un «DC3». Ora la «provo» da terra. E ne concludo che se non fosse per i milioni di pecore che vi nascono, crescono e si moltiplicano a parer loro, in Patagonia non ci sarebbero che cercatori di petrolio.
Il giorno 27 dicembre alle 10 di sera arriviamo all’Estancia Primera «Viedma» dei signori Perez Compane. Il giorno dopo il signor Schinco, amministratore della stessa, ci porta in camion sulla riva sinistra orografica del rio de Las Vueltas.
Il passaggio del Las Vueltas
L’unico punto di unione fra le due sponde è un cavo di acciaio di 24 mm pescante nell’acqua. Quattro chilometri a monte, una passerella sospesa. Optiamo per il cavo. Lo tendiamo il più possibile; costruiamo una rudimentale teleferica e, alla fine del secondo giorno, materiali e uomini si trovano sulla sponda opposta del fiume, largo in questo punto 110 metri.
Carichiamo tutto sul camion del signor Rojo e alle 18 dello stesso giorno siamo sulla sponda destra del rio Fitz Roy. Disgraziatamente qui non ci sono né cavi, né passerelle. Cesare, senza perder tempo, sbriga tutto con una prodigiosa e audacissima nuotata attraversando nello stesso punto dove perse la vita il compianto Jacques Poincenot.
Il sole di mezzogiorno del 31 fa colare grosse gocce di sudore sul viso e sulle groppe nostre e dei cavalli, cariche fino all’inverosimile delle cose e delle cassette. Attraversiamo boschi pianeggianti, bellissimi, sotto lo sguardo dei curiosi pappagalli dal canto stridulo e celioso. Radure interminabili piene di cespugli, vivai naturali delle lepri e anitre selvatiche. Finalmente, per una corta e ripida rampa, usciamo dal bosco sulla cresta della morena della Laguna Torre.
Il primo campo e lo spirito della spedizione
Ancora un’ora e siamo sul posto dove installeremo il campo 1. E’ un luogo ameno con un bellissimo ruscello d’acqua sorgiva e una specula, dalla quale, seduti sul muschio e sull’erica, si domina con un solo sguardo lo scenario maestoso di ghiacciai, di creste affilate come lame, cascate di ghiaccio e pareti precipiti incrostate e lisce come il marmo. La capanna costruita l’anno scorso con tronchi e adibita a magazzino è stata sfondata dalla neve; una cassetta vuota e una bombola arrugginita qui, più in là l’erica appiattita e dissecata segna il rettangolo dove avevamo la grande tenda. Dalla parte opposta il braciere con vicino il tronco su cui ci si sedeva. Nel mezzo il tavolo rudimentale tenuto assieme da chiodi da roccia, i soli usati dei 700 che avevamo. Tutto questo cancella a un sol colpo un anno di tempo. Un senso di tristezza mi invade. Osservo Spikermann che, accanitamente li ricupera e in questa azione vedo materializzata la differenza di spirito in cui si svolse e si svolge quella e questa spedizione.
Sette anni ormai son passati da quando nella sede del CAI, Sezione Argentina, conobbi Lionel Terray, reduce dalla Patagonia. «C’est plus difficil que le Fitz Roy» mi disse.
Come nacque l’idea del Torre
Corsi da Lucchini a sfogliare libri, consultare cartine e osservare fotografie. Poi scrissi: «Caro Cesare, qui c’è pane per i tuoi denti». Mi rispose con una lettera entusiasmante. Non lo conoscevo che attraverso le relazioni pubblicate sul bollettino del CAI e varie riviste, ma capii subito che era l’uomo del Torre. Da Lucchini, con Toffanelli, Careglio, Mazzoldi e Minola studiammo le possibilità di una spedizione che il segretario della sezione, Folco Doro, metteva poi in bella copia.
Cesare fu designato come capo spedizione e come tale suo era il compito di scegliere altri tre alpinisti nonché tutto il materiale tecnico. Noi ci saremmo sobbarcati le spese dei viaggi dall’Italia e verso l’interno, e il vettovagliamento. Poi non se ne fece più nulla. Verso la fine del ’57 mi trovavo a Trento. Mi diedi da fare. Ne risultò la prima spedizione trentina. Dopo questa, la seconda. Ora siamo in sette: quattro ragazzi, giovani studenti conosciuti al Club Ateneo ove proiettai due film: Scuola di Roccia e Monologo sul VI grado, e alcune diapositive a colori. Angelo Vincitorio, Juan Pedro Spikermann, Gianni e Augusto Dal Bagni. Giovani entusiasti, amanti della montagna, seri e intelligenti, forniti di poderose spalle. Li ingaggiai.
Una cordata di punta formata da Cesare Maestri e Toni Egger. Due formidabili arrampicatori, due nomi dell’alpinismo mondiale, due scuole, due caratteri. Impulsivo e creativo il primo, freddo e calcolatore il secondo. Un gruppo più eterogeneo difficilmente si può immaginare, sia per capacità individuale che per nazionalità. Un austriaco, cinque italiani, di cui quattro residenti qui, un argentino. Ciò nondimeno, in pratica, questa fu la più omogenea delle cinque spedizioni che effettuai sulle Ande. Non uno screzio. Armonia, entusiasmo sono gli elementi in cui fluttua dal principio alla fine, la nostra piccola ma perfetta spedizione.
I nuovi campi
Prima di disporre e iniziare l’andirivieni che ci porterà alla installazione dei tre campi in meno di dieci giorni, Cesare disse: «Ragazzi da questo momento siamo nelle vostre mani». Nessuno rispose, ma si è capito, dai loro volti seri, che erano decisi a non mollare. Il tempo record con cui si installarono i campi, sta a dimostrare quanto si possa fare, quanti ostacoli si possono sormontare anche se in pochi quando le forze sono unite e bene incanalate verso un’unica meta: l’esito della spedizione. Questo dimostra inoltre che la via del Torre è all’est, molto più corta, più accessibile e meno esposta ai paurosi venti patagonici.
Il primo chiodo sul Torre
Il 6 gennaio Cesare ed io partiamo all’attacco del Torre e sotto l’infuriare della tormenta alle dodici e venti il primo chiodo, della lunga serie, entra nella parete nord-est di questa bellissima e temibile guglia andina. A sera ritorniamo fradici. Fino al giorno 11 Cesare e io lavoriamo per rifornire i campi superiori e attrezzare un tratto di parete. Toni è ancora al campo uno immobilizzato da un foruncolo al piede. L’undici risaliamo tutti al campo tre: Toni è completamente ristabilito. Mentre egli rimane a rifinire il campo tre, portiamo il materiale da roccia alla parete. Cesare ne approfitta per innalzarsi. Risale a braccia sulle corde fino al chiodo. Poi via sulla fessura con il suo inconfondibile stile ed eleganza. Dal modo in cui sale mi sembra relativamente facile: va su circa 150 metri, poi mi dice di seguirlo. Mi attacco alla corda di canapa di 12 millimetri che rimarrà in parete, faccio un pendolo per portarmi sulla verticale e parto. Da come salgo io, assicurato all’altro, ho l’esatta misura della straordinaria abilità e classe di questo arrampicatore e, capisco ora, il perché l’hanno soprannominato «il ragno».
Lavoro estenuante e maltempo
Più giorni di lavoro estenuante è costato il superamento del diedro strapiombante alto circa 300 metri; tre giorni durante i quali Cesare, tra corde, staffe e chiodi a espansione ha ballato una tarantella agghiacciante. Alla fine esce sul ghiacciaietto pensile appoggiato sulla sommità del diedro. Lui e Toni scendono al campo 3 stanchi ma soddisfatti del lavoro fatto e per avere attrezzato la prima parte.
Il giorno dopo lo dedichiamo al riposo. Il tempo, che fin qui ci ha permesso di lavorare, ora si mette decisamente al brutto: aspettiamo alcuni giorni al campo 3, poi scendiamo al campo 2 per proseguire fino alla «Estancia Madsen» dove rimarremo ad aspettare il bel tempo una settimana intera, ospiti del rude ma buonissimo Standhart.
Discussione tecnica fra Maestri ed Egger
Il 27 Cesare, Toni ed io siamo nuovamente al campo 3. Al lume delle candele assisto al più bello scambio di idee di alto livello tecnico sul modo di attaccare a fondo. Cesare è del parere di attrezzare anche il secondo diedro che porta alla forcella e costruire su questa un buon bivacco. Toni invece pensa che il migliore sistema sia quello già usato nell’Jirishanca, andare avanti cioè con tutto il necessario per un’autonomia di cinque o sei giorni: è il più speditivo e costa meno energie. Cesare accetta la proposta, ma giustamente fa osservare che non è possibile portar tutto. A questo punto è chiaro che il mio appoggio sarebbe di grande aiuto, ma capisco anche che non mi si vuole esporre. «Ragazzi, ho diversi anni più di voi, quindi le responsabilità mie personali, vi prego, lasciatele a me. Se il mio aiuto è necessario, fin dove posso, vi accompagno».
Il 28 gennaio
28 gennaio. – Nel cielo nero brillano ancora le stelle, quando a braccia saliamo su per le corde del grande diedro assicurati con un prusik. Arrampicando fra due simili campioni mi sento tanto sicuro che mi vien voglia di gridare dalla gioia. L’entusiasmo è alle stelle, la volontà non manca, i muscoli centuplicano il rendimento. Attraversiamo sulla sinistra sotto il tetto ed eccoci sul piccolo terrazzo adibito a magazzino. Infiliamo i ramponi, mi carico lo zaino di cunei e chiodi.
Toni passa in testa, attraversa il piccolo e ripidissimo ghiacciaio e attacca il secondo diedro. Ho visto Cesare sugli strapiombi, sui tetti: mai vista una cosa uguale e mai pensavo si potesse raggiungere una tale perfezione nell’arte dell’arrampicare: dico arte, non in senso di professione. Ora è la volta di Toni ed è altrettanto impressionante.
La prima slavina
Ciò che fanno questi due giovani è un vero capolavoro che mi stupisce, mi entusiasma e, lasciatemi dire, mi esalta e umilia nello stesso tempo. Sulla grande traversata che porta alla forcella passa in testa Cesare, poi mi dice di seguire. Quando mancano pochi metri per raggiungere, dà l’allarme. Guardo in alto e, a poco più di cento metri, una massa biancastra cadeva a perpendicolo su di noi. Ho appena il tempo per correggere la mia posizione e appiattirmi contro la parete. Un tonfo sulla testa e sulle spalle, uno strattone alla corda, stringo i denti e serro la presa. Toni, penso, è volato. Attimi di estrema tensione. Passata la furia guardo indietro e lo vedo ancora appiattito alla parete, coperto di neve e ghiaccio. «Toni è passata!». Alza la testa. «Ci sei ancora, mi dice? Credevo che fossi volato».
Alle sedici siamo sulla forcella. Chiuso a sud dal Torre e al nord da un’altra non meno imponente guglia, questo colle è una vera finestra ciclopica. Di fronte in basso, l’immensa distesa del «Hielo Continental», un vero mare di ghiaccio reso ancora più simile dal colore azzurrognolo caratteristico della zona. Un ghiaccio esteso, piatto come una superficie d’acqua sulla quale i riflessi del sole e l’ombra delle nubi fuggenti imprimono un illusorio moto ondulatorio. Spigoli affilati, limati, lustri come balaustre incombono sopra le nostre teste, ci sfiorano e si perdono nel vuoto. Strapiombi paurosi; diedri senza fessure né appigli, compatti come il metallo, coperti a tratti dalla neve che il vento vi smalta con inaudita violenza prima, e lavora in strani arabeschi poi.
Che direbbero, penso, se fossero le nostre Dolomiti investite d’improvviso da simili furie? Per quanto tempo resisterebbero? Se poi da questa finestra giriamo lo sguardo verso est lo scenario non è meno maestoso e imponente: guglie dalle pareti verticali e lisce si succedono a creste frastagliate e infiorate da pinnacoli acuti come lance. Qua e là si scorgono le fronti sgretolate di piccoli ghiacciai pensili, strozzati come in una morsa da enormi paretoni granitici.
Verso la vittoria
Non vi è tempo da perdere. La meta ormai è a portata di mano resa ancora più vicina dalla prospettiva deformata. Desiderio e rinuncia si urtano fino alla nausea. Allora? «Andare, si va» disse Toni «ma saremo nell’aria per tutti i primi 300 metri». Pausa. «Ce la farai a scendere solo?» mi chiese Cesare. «Credo di sì, ad ogni modo mi arrangerò». In questa ultima domanda era la decisione.
Scendere a corda doppia, si sa, non è una cosa dell’altro mondo. Il solo grande pericolo era di rimanere in parete con la corda attorcigliata e bloccata nel chiodo. Toni aggiunse: «Meglio tu scenda subito». Mi aiutarono a superare la grande traversata, poi iniziai a scendere alla Dülfer, tenendo le corde divise a monte con la piccozza infilata nel mezzo. Il vero problema, che richiedeva una pazienza e preoccupazioni infinite, consisteva nel recuperare la corda e disporla per la calata seguente.
Giunsi sul ghiacciaio che era notte; tuttavia l’estrema punta del Fitz Roy era ancora dorata dagli ultimi raggi riflessi del sol cadente. Soltanto allora mi ricordai di non esserci salutati. Ognuno di noi era ormai preso dal proprio problema: loro a salire, io a scendere. Guardai su alla forcella col cuore pieno di speranza, di timore e di fiducia. L’attacco all’orgogliosa vetta era incominciato, che Iddio ce la mandi buona.
L’ansiosa attesa
Il 29 uscii all’aria con il sole già alto. Giornata splendida, non si scopre una sola nube. Lassù in alto due uomini lottano con tutti i loro mezzi, con tutte le loro forze, con tutta la loro intelligenza nella speranza di trovare sulla sommità della vergine guglia il compenso a tanti sacrifici: un senso alla vita.
Guardo su alla forcella con l’illusione di vederli pur sapendo che è impossibile. Sono più che mai soddisfatto e contento. Quando l’ombra del Torre invade le placche del «Mocho» dove ero sceso a trastullarmi al sole, torno su al campo. Scendo a prendere acqua nella seraccata e preparo uno spuntino.
L’immagine della «via» percorsa mi appare in tutta la sua potente struttura: placche, strapiombi, diedri dal fondo gelato, lavine e cascate d’acqua. Dove saranno? Avranno trovato un posto per il bivacco?
31 pomeriggio. Fuori fa freddo e tira vento, dentro il campo è frigido come l’acqua di neve che beviamo; scuro e silenzioso come un pozzo. Vorrei scrivere, ma che cosa posso scrivere in questa immobilità del tempo che non passa mai, in questa attesa passiva? Oggi è la data più ottimistica del loro ritorno.
Nella mattinata del primo, guardando fuori dalla tenda non scorgo il tenue riverbero che normalmente filtra dalle pareti dell’igloo, né odo il leggero risucchio del vento più lieve ancora di quello prodotto dallo staccarsi di una ventosa.
Neve, disgelo, vento e valanghe
Nevica. La neve spinta da forti folate ha chiuso l’uscita. Esco «a nuoto» trascinando la pala; dal di fuori sgombero, mentre il vento richiuderà in breve tempo. Ogni rumore estraneo mi fa sobbalzare. Nella cucina, sul «primus» l’acqua bolle continuamente. Nelle tende i due materassini vuoti rispecchiano l’immagine materializzata di tutta l’avventura. L’attesa si fa sempre più spasmodica. Nel pomeriggio vado sotto la parete e rimango fin sul calar della notte emettendo di quando in quando, un richiamo che l’eco mi riporta senza risposta. Due uomini come loro non cadono tanto facilmente. Questa è la sola mia speranza.
2 febbraio. Notte lunga senza fine, resa ancora più tormentosa da una goccia d’acqua che, dal soffitto, cade sulla tenda e sembra scandire secondi lunghi e interminabili. In tanti giorni vissuti nel campo mai scorgemmo acqua sulle pareti. Un nuovo gravissimo pericolo si aggiunge ai molti già esistenti. Il disgelo provocato dal vento caldo dell’ovest.
Sfondo l’uscita e senza preoccuparmi di sgombrarla proseguo verso la parete. La quantità di neve caduta durante la notte è impressionante; molti crepacci sono completamente cancellati. Altri, grandissimi prima, si scorgono appena. Fitte cortine dì neve riducono la visibilità a pochi metri. Avanzo affondando fino alle braccia tra una schiarita e l’altra. Pochi metri più sotto il solco lasciato dietro a me è già cancellato. A volte affondo tanto che ho l’impressione di essere inghiottito dal vuoto invisibile. Solo qualche rara gobba di ghiaccio verde affiorante mi ridà fiato. Il rumore assordante del vento simile a un fiume in piena è superato da quello delle valanghe che cadono su tutti i versanti. Più avanzo più la méta invisibile mi sembra lontana. Irraggiungibile. Tutti i sogni, tutta la speranza di vittoria per me sono finiti qui. A metà strada fra il campo 3 e l’attacco. In tale inferno lo sperare ancora nel loro ritorno non ha più senso. Nel campo la tenue fiamma della candela oscilla, si scompone e piano piano si spegne. Grosse lacrime mi rigano le guance. Addio Cesare, addio Toni, addio per sempre.
Toni! Toni!…
3 febbraio, ore 7. Metto il sacco «duvet» nello zaino, buco l’uscita e scendo verso il campo 2. Cinque giorni, sei notti ormai sono trascorsi da quando li vidi l’ultima volta sulla forcella. Cinque giorni di speranza, di timore, di incertezza. Bello sarebbe stato tornare, e tornare con la vittoria.
Lentamente, approfittando delle brevi e saltuarie schiarite, scendo. In una di queste, guardando su verso il Torre, noto una strana macchia scura. Penso sia la bocca di una crepaccia vista di fronte. Attendo, scendo qualche metro, ma poi torno indietro spinto più dallo scrupolo che dalla speranza. Avvicinandomi ho l’impressione che la macchia si muova e prenda vagamente forma umana. Forzo il passo. Ora la sagoma umana, immersa nella neve sull’orlo di una crepa è a pochi metri, ma ancora non so chi dei due sia. Salto. La giacca a vento di nylon sulla quale la neve non fece presa, ha salvato chi la portava. Solo tre parole uscirono tra i denti e la spessa cresta di ghiaccio della barba: «Toni… Toni… Toni…».
Più tardi, al campo due, Cesare racconta…
Il 4 mattina il tempo, se si può dire, peggiorò ancora. Con Augusto Dal Bagni e Spikermann parto verso il Torre. La nostra missione è di dovere e di amore verso il compagno e amico caduto, ma purtroppo senza speranza. Con grande fatica e rischio raggiungiamo il campo 3. Non ce la facciamo a proseguire oltre.
Toni Egger, sulla parete della guglia impossibile, il tuo nome rimarrà inciso, indelebile, attraverso il tempo.
Relazione tecnica
di Cesare Maestri
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI n.7-8 del 1961)
La salita al Colle della Conquista
La parete est del Cerro Torre è alta circa 1300 m. La sua parte centrale presenta difficoltà tali da non poterla prendere in considerazione. Due sono i suoi punti deboli. La cresta est (in realtà sud-est, NdR) che scende verso il Fitz Roy fino a formare una tozza cima denominata El Mocho, e un gran diedro situato sulla destra di questa formidabile parete.
La cresta porta con passaggi difficili alla base di grandi torri a circa 400-500 metri dalla cima.
Sarebbe stata nostra intenzione, dopo rilievi aerei fatti dalla nostra prima spedizione, di risalire tutta la cresta per poi alla base delle torri attraversare tutta la parete sud, fino ad un grande strapiombo di ghiaccio sul filo della cresta sud-ovest, e di qui risalire per il versante ovest.
Decidiamo di attaccare il gran diedro che porta ad un piccolo nevaio e successivamente ad una forcella situata a nord del Torre.
Il tratto per arrivare al nevaio pensile è di circa 300-350 metri e parte dal ghiacciaio sottostante a quota 1850 m. Questo diedro che presenta difficoltà di quinto e sesto grado con lunghissimi tratti di sesto grado artificiale e artificiale a espansione, è stato attrezzato con corde fisse fino al suo termine dove abbiamo posto un piccolo magazzino depositando tutto il materiale rimasto.
Fin qui usiamo, per superare questo tratto di parete, circa 80 chiodi, cinque dei quali ad espansione e lasciamo attrezzato il tratto usando circa 50 chiodi ai quali sono assicurati circa 300 metri dì corda di canapa dello spessore di 12 mm.
Per la salita effettiva, usufruendo delle corde fisse, ci portiamo alla base del nevaio a forma conica che termina sul bordo superiore del gran diedro. Lo tagliamo e ci portiamo con una traversata diagonale alla base di quella serie di fessure che partono dal bordo del nevaio e portano fin sotto ad un gran diedro strapiombante che va da destra verso sinistra. Fin qui, dal nevaio, sono circa 150 metri di quarto e quinto grado (chiodi usati circa 15-20).
Dal terrazzino alla base del diedro suddetto, che lasciamo alla sinistra, si comincia ad attraversare la stretta parete nord che scende dalla cima a forma di triangolo con la base rivolta alla forcella fra il Torre e la cima che chiameremo «Cima Egger». La traversata di circa 200 metri tende a salire finché si tramuta in una fessura da una costola che porta alla base di un pilastrino di circa 50 metri sulla cresta che limita a destra (è sinistra, NdR) la parete nord.
Lasciamo nella traversata una corda doppia fissa di 100 metri che verrà in seguito usata dal Fava per discendere e recuperata, per poi calarsi a corda doppia.
Fin qui quarto, quinto e un tratto di sesto grado (chiodi usati 10-15).
Poniamo il posto di bivacco sulla forcella stessa scavando un foro nella neve orientandone l’apertura verso est.
La parete nord
Da qui si presentano due soluzioni: tagliare per cenge e canali tutta la parete ovest per entrare in un gran camino che intravvediamo e che porterebbe alla base del gran strapiombo di ghiacci sulla cresta sud-ovest, oppure usufruendo di una particolare condizione di innevamento che ricopre il tratto di parete nord per circa 300 metri semi-nascondendo placche, fessure e canali molto ripidi. Preferiamo questa seconda soluzione essendo la parete nord leggermente più riparata dal vento. Dalla forcella, per via tortuosa e a volte illogica, ci portiamo da canali a fessure cercando di sfruttare al massimo le condizioni di innevamento e sfruttando i tratti meno ripidi. L’assicurazione, data la precarietà e l’insufficiente consistenza dello strato di neve dura e gelata che ricopre la parete, è stata fatta scavando la crosta ghiacciata fino a trovare la roccia, usufruendo per assicurazione, di chiodi ad espansione.
Puntando sempre verso il primo terrazzino di ghiaccio che s’incontra sulla cresta a nord-ovest, ci alziamo così di circa 300 metri. Sotto questi strapiombi di ghiaccio poniamo il secondo bivacco scavando nel ghiaccio stesso, ora abbastanza solido, una nicchia capace di ripararci da eventuale vento. (Quota data dall’altimetro 2720 m – chiodi usati: 30 ad espansione, 15 da ghiaccio).
Da qui la salita presenta le particolarità di una parete di ghiaccio ed è un susseguirsi di giri viziosi, sfruttando piccoli canali formati dal vento per aggirare piccole pareti verticali o grandi cavolfiori dì ghiaccio che a volte non possiamo fare a meno di salire direttamente. Saliamo ora quasi sempre verso il versante ovest essendo quello a nord troppo ripido e difficilissimo. Poniamo il terzo bivacco su quella grande terrazza a circa 150 metri dalla cima (quota data dall’altimetro 3250 m, l’apparecchio segnava in anticipo l’arrivo del brutto tempo; in realtà il terzo bivacco è a circa quota 2980 m, chiodi usati circa 20, pendenza variabile tra i 50° e 60°, in tutti i 250 metri).
Dal terzo bivacco si supera una ripida e verticale parete di ghiaccio di circa 60 metri (20 chiodi) per poi usufruire di canali e della calotta nevosa che porta a pochi metri dalle grandi cornici che strapiombano sulla parete est, sud e ovest. (L’altimetro segna 3200 m).
La discesa
In discesa usufruiamo di funghi di ghiaccio ai quali assicuriamo dei cordini di perlon. In tre corde doppie ritorniamo al punto del terzo bivacco dove passiamo la quarta notte. Riprendiamo a scendere all’incirca lungo la via di salita usufruendo ancora dei funghi e chiodi da ghiaccio. Le ultime due corde doppie della giornata sono state fatte su chiodi a espansione avendo superato il limite del ghiaccio e trovando ora, dato il forte scirocco che viene dall’ovest, tutta la parete nord priva della neve che ci aveva permesso di salire. Bivacchiamo la quinta notte a quota 2550 m circa (nove corde doppie). Di qui tagliamo la parete nord lungo la superiore di due fessure sovrapposte, per non toccare la forcella e dover così rifare la traversata resa difficile dal fatto che Fava aveva recuperato la corda lasciata fissa.
Obliquando verso est, ci troviamo quasi sopra all’inizio della traversata da dove parte il diedro strapiombante che va verso sinistra. Arriviamo a quota 2250 m dove poniamo il sesto bivacco (11 corde doppie). Qui succede la disgrazia.
Il giorno dopo continuo a scendere solo con uno spezzone di circa 120 metri di corda così da usufruire di soli 60 metri di corda doppia. Con tre corde doppie assicurate a funghi di ghiaccio, taglio il nevaio e scendo sempre a corde doppie fino alla base della parete.
Circa 175 ore di permanenza in parete. Chiodi da roccia usati circa 120, chiodi da ghiaccio circa 65, chiodi a espansione circa 70, cunei di legno circa 20. Alla partenza il nostro equipaggiamento era di due corde da 200 metri (una di queste servirà a Fava per scendere dopo averla lasciata fissa sulla traversata), 10 staffe, 50 chiodi da roccia, 100 chiodi a espansione, 30 chiodi da ghiaccio, cunei di legno e 30 metri di cordini, viveri per tre-quattro giorni, ed equipaggiamento vario per il bivacco.
I motivi che mi hanno spinto ad attaccare il Torre dal lato est possono essere così elencati:
1) estrema facilità di accesso. La base del Torre dista dall’Estancia Fitz Roy, circa 20 km dei quali i primi 11 da farsi a cavallo;
2) poter lavorare in una zona relativamente riparata dal vento che proviene sempre da ovest;
3) la parete est presenta difficoltà tecniche molto forti ma superabili dalla nostra tecnica dolomitica;
4) estrema sicurezza contro i venti su tutta la parete est;
5) conoscenza della zona per averla in precedenza studiata durante la prima spedizione in Patagonia.
I nostri campi erano situati: campo 1 a quota 750 m in località Laguna Torre, campo 2 ai piedi di «El Mocho» a quota 950 m, il campo 3 era situato a quota 1650 m, l’attacco della parete a quota 1850 m.
Nel conteggio dei chiodi sono esclusi i chiodi di assicurazione e da bivacco.