Riabilitate Compagnoni!

La mia campagna nei confronti del Club Alpino italiano per la revisione del caso K2 si è chiusa a marzo 2024 con le mie dimissioni da socio.
Questo è il racconto di quella campagna che ho inserito in un mio libro insieme con gli atti che la documentano.
La  condanna  proposta dai cosiddetti ‘Tre Saggi’, condivisa dal Consiglio Nazionale del Club alpino con la delibera del 22 maggio 2004 e ribadita nel libro CAI del 2007 K2 una storia finita nei confronti di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, colpevoli d’avere portato al successo il 31 luglio di settant’anni fa la spedizione nazionale al K2, è ancora lì a macchiare l’immagine della più grande impresa dell’alpinismo italiano di tutti i tempi.
Ciò perché i vertici del Club alpino, con l’avallo del silenzio dei suoi rappresentanti sul territorio, hanno rifiutato con tenacia di discutere le ragioni della richiesta, contraddicendosi platealmente e negando la stessa realtà documentale, pur di non riconoscere  che Walter Bonatti, grandissimo alpinista però fallibile come tutti gli umani, sbagliò nell’accusare i due della cima.
La prospettiva d’avere posto una pietra tombale sulla vicenda e sulle responsabilità per averla chiusa in questo modo è però un’illusione, la storia non è mai finita e prima o poi qualcuno troverà il tempo e il coraggio di riaprirla (Francesco Saladini).

Riabilitate Compagnoni!
di Francesco Saladini
(pubblicato in Momenti, youcanprint 2024)

Vittoria e sospetti
Il suo nome nella lingua locale (Chogo Ri) sta per ‘Grande Montagna’, ma in Occidente la seconda vetta della Terra per altezza, 8611 metri sul livello del lontano Oceano indiano e quindi quasi il doppio del Cervino, è individuata con la sigla K2 e cioè Karakorum 2.

Il 31 luglio 1954 due italiani, il valtellinese Achille Compagnoni, guida alpina a Cervinia, e Lino Lacedelli, guida a Cortina d’Ampezzo, raggiunsero per primi, nell’ambito d’una spedizione nazionale del Club alpino italiano, la vetta del K2 tentata invano nei decenni precedenti da tre spedizioni statunitensi e risultata poi la più difficile tra quelle di tutti gli Ottomila del pianeta.

Il successo sollevò in Italia un enorme entusiasmo e contribuì alla ripresa morale del Paese devastato dalla guerra, ma fu poi oscurato da polemiche tra gli alpinisti e il CAI e, a partire dal 1961, dalle accuse di Walter Bonatti ai due della vetta e in particolare ad Achille Compagnoni.

Nel 1954 avevo poco più di vent’anni e, preso dai problemi dell’età, non partecipai, malgrado avessi già avviato il rapporto con l’alpe, all’entusiasmo sollevato dal successo sul K2.

Ne ho letto solo molti anni dopo schierandomi come tutti dalla parte di Bonatti i cui libri, ognuno dei quali riportava le sua accuse, occupavano buona parte della mia modesta biblioteca.

Non si trattava di accuse da poco. In Le mie montagne del 1961 Bonatti aveva infatti imputato a Compagnoni e Lacedelli d’aver violato il piano stabilito per l’assalto finale la sera del 29 luglio 1954 tra loro tre e Pino Gallotti in una tenda dell’ottavo campo.

Secondo Bonatti quell’accordo prevedeva che i due della cordata di punta salissero il giorno dopo a porre il nono e ultimo campo a 7950 metri sulla Spalla del K2, dove lui e Gallotti li avrebbero raggiunti col carico dell’ossigeno supplementare necessario per raggiungere la cima.

Compagnoni e Lacedelli, secondo Bonatti, erano però saliti più in alto di 250 metri (il testo riporta 250 m, ma in realtà, come si evince in seguito, l’autore intende 150 m, NdR) rispetto al punto concordato, un’enormità a quella quota, spostandosi poi in un luogo dove lui e il portatore Amir Mahdi, che aveva sostituito l’esausto Gallotti, non avevano potuto raggiungerli.

Ne era conseguito che essi erano stati costretti a un durissimo bivacco all’addiaccio a 8100 metri di quota e con una temperatura di quaranta gradi sotto zero, dal quale il portatore aveva riportato congelamenti invalidanti.

A partire dai primi anni ’80, in altri libri e in conferenze tenute in tutta Italia, Bonatti aggravò l’accusa ipotizzando che i due della cordata di punta si fossero nascosti per non farsi raggiungere nel timore, soprattutto di Compagnoni, ch’egli potesse sostituire uno di loro nella corsa alla vetta.

Bonatti accusava ancora i due ex compagni d’aver mentito sulla fine dell’ossigeno, non avvenuta come essi sostenevano prima della cima, in sostanza proponendo che questa menzogna ne provasse l’inattendibilità.

Compagnoni aveva al contrario sempre sostenuto che il piano del 29 luglio prevedeva per lui e Lacedelli di salire il giorno seguente ‘il più in alto possibile’, ciò che egli aveva fatto spostandosi infine a sinistra solo per porre il campo al riparo dai possibili crolli del grande seracco sovrastante, e che l’ossigeno era davvero finito durante la salita.

Dopo aver sottoscritto al rientro della spedizione la versione di Compagnoni, Lacedelli era rimasto in silenzio, senza confermarla ma neppure smentirla.

Il Club alpino ignorò per anni, irritandolo a morte, le contestazioni di Bonatti alla ‘versione ufficiale’, che era poi quella di Compagnoni e Lacedelli, sino a quando negli anni ’90 decise finalmente d’interessarsi al caso incaricando poi, a marzo 2004, una Commissione di tre “Saggi’ d’accertare la ‘verità storica’ sulle vicende di quei giorni.

Nello stesso 2004 comparve il libro K2, il prezzo della conquista nel quale dopo un silenzio di cinquant’anni Lino Lacedelli, intervistato dal giornalista Giovanni Cenacchi, si schierava con Bonatti contro Compagnoni.

In particolare Lacedelli, pure confermando che l’ossigeno era finito prima della vetta, sul punto fondamentale del luogo del nono campo cambiava versione rispetto al ’54 sostenendo che il 29 luglio s’era deciso di porlo in un punto ‘stabilito’, che Compagnoni aveva voluto invece porlo più in alto e fuori dalla linea di salita e che secondo lui aveva fatto ciò appunto per non farsi trovare da Bonatti.

Sulla base della relazione dei suoi ‘Saggi’ confermata da questa ‘confessione’ di Lacedelli, il 22 maggio 2004 il CAI condivise sostanzialmente le accuse di Bonatti e pubblicò nel 2007 un libro, K2 una storia finita, che condannava Compagnoni e Lacedelli come traditori e bugiardi.

La Moretti ‘Super K2’
Leggendo intorno al 2016 il libro di Cenacchi-Lacedelli del 2004, fui colpito da una breve nota a pagina 60 che riportava le misure della tendina ‘Super K2’ del nono campo – altezza 75 centimetri, larghezza 120 centimetri davanti e 90 dietro – nella quale il 30 luglio avrebbero dovuto pernottare, come secondo Bonatti s’era deciso nel ‘piano’ della sera prima, non solo Compagnoni e Lacedelli ma anche lui e Galotti.

Ne risultava che quattro alpinisti vestiti con gli ingombranti indumenti di piumino e calzati con i grossi scarponi d’alta quota avrebbero dovuto secondo Bonatti entrare e dormire in uno spazio simile a quello che vedevo sotto il mio tavolo da pranzo.

Mi sembrò assurdo che scalatori tanto esperti avessero previsto di riposare così scomodamente la notte prima d’una impresa che avrebbe richiesto freschezza d’energie, e mi chiesi se il ricordo di Bonatti non fosse sbagliato.

Trovai una prima risposta nello stesso libro laddove Lacedelli precisava che anche per entrare in tre nella Super K2 si sarebbe dovuto tagliarla, e una seconda e definitiva nel parere di Reinhold Messner, primo salitore di tutti gli Ottomila: “non sarebbe stato possibile trascorrere la notte in quattro in quella tendina: troppo piccola”.

Qualcosa dunque non andava nel racconto di Bonatti.

A questa considerazione seguì, spinta dall’attitudine professionale e probabilmente dal gusto di ficcarmi in una storia più grande di me, l’altra che quel racconto, pure se condiviso ormai da tutti, poteva essere errato e che allora si dovesse, il che nel mio universo significava che io dovessi, rivedere l’intera questione.

Lessi o rilessi i libri pubblicati sino allora, mi convinsi che le accuse di Bonatti erano solo sospetti senza prove e il 5 gennaio 2017 scrissi al Presidente generale del CAI Vincenzo Torti una lettera di quattro facciate esponendo argomentati dubbi in ordine alle dimensioni della tendina, al supposto ‘spostamento’ dell’ultimo campo e al dovere di Bonatti di portare in salvo il portatore quando ciò era ancora possibile, invece di far notte nel tentativo di raggiungere a tutti i costi i compagni all’ultimo campo.

Torti rispose che la questione era stata ben ponderata dai ‘Saggi’ e che non si può valutare a tavolino comportamenti presi nello stato d’alterazione mentale delle alte quote.

Controbattei facilmente che l’impossibilità di valutare da casa le vicende del K2 avrebbe dovuto escludere condanne come quelle invece inflitte a Compagnoni e Lacedelli e, certo che Torti non m’avrebbe riscontrato ancora, come fu, cercai di risolvere altrimenti i miei dubbi.

Lessi ancora, in particolare Sulla vetta del mondo di Mick Conefrey, e nel marzo 2018 pubblicai a mie spese con un’editrice ascolana un breve saggio, K2 la storia continua, nel quale argomentavo più ampiamente le ragioni in difesa di Compagnoni e Lacedelli, e in realtà soprattutto del primo, già esposte inutilmente al CAI.

Recensito favorevolmente su MontagnaTV – con commenti in parte positivi e un divertente “direi che il libro non ha molto valore, ma mi riservo di leggerlo”, – e però non promosso in alcun modo, il saggio vendette pochissime copie e l’insuccesso, anche perché si trattava della mia prima fatica letteraria, mi fermò per qualche tempo.

Altre incongruenze
Il tarlo di quella che consideravo una palese ingiustizia continuava però a rodere e cercai di scavare ancora negli scritti su quell’impresa.

Capii così che all’incongruenza della tendina ne andavano aggiunte altre, riguardanti la supposta violazione da parte di Compagnoni del piano per l’assalto finale, risultanti dagli scritti degli stessi protagonisti, tre delle quali rilevanti nel loro insieme.

La prima era questa: nel libro del 2004 Lacedelli dichiara come s’è visto che il ‘piano’ prevedeva che il nono campo andasse posto a 7950 metri in un ‘punto stabilito’.

Dallo stesso libro risulta però che egli non propose mai a Compagnoni di fermarsi in quel punto né gli contestò di non volercisi fermare o di non averlo fatto, e che lo seguì invece sino a 8100 metri senza affatto parlarne.

Questo comportamento è evidentemente incompatibile con l’affermazione dello stesso Lacedelli che il ‘piano’ prevedesse di porre quel campo 150 metri più in basso, specie ove si considera che egli era un ottimo alpinista e una guida attenta per mestiere a ogni particolare e figurarsi a uno così importante, che lui e Compagnoni restarono vicinissimi tutto il giorno e che il ‘punto stabilito’ doveva necessariamente trovarsi sulla loro linea di salita.

E’ vero che giunto a 8100 metri Lacedelli contestò la decisione di Compagnoni di spostarsi a sinistra, ma non lo fece, sempre secondo il suo libro, perché il ‘piano’ prevedesse di porre lì il nono campo o per aspettare Bonatti, bensì in quanto egli riteneva la traversata più pericolosa dei possibili crolli che, detto per inciso, avrebbero provocato più d’una sciagura mortale nelle ascensioni successive alla loro.

E’ dunque evidente che sul punto cruciale di dove si fosse deciso di porre il nono campo, la versione di Lacedelli del 2004 è inattendibile, ciò che toglie ai sospetti e alle accuse di Bonatti la loro sola base testimoniale.

La seconda incongruenza stava nel comportamento di Bonatti e Lacedelli la sera del 30 luglio, quando finalmente, ma ormai a notte, si stabilì tra le due cordate, di punta e di supporto, un contatto vocale a distanza di almeno cento metri in linea d’aria e fortemente disturbato dal vento.

La prima e sola domanda di Bonatti, che secondo il suo stesso libro del 1961 Le mie montagne aveva cercato per ore la tendina dei compagni e che era già fortemente irritato con loro non fu, come sarebbe stato naturale in quel quadro, “Perché non vi siete fermati dove concordato?” o qualcosa del genere, ma “Perché vi fate vivi solo ora?”

Questa domanda, limitata a contestare la mancata risposta ai suoi richiami, mi sembrava escludere che egli ritenesse i due compagni in torto perché si trovavano dov’erano, risultando allora incompatibile con la versione del 1961.

A sua volta la risposta di Lacedelli, che secondo il suo K2, il prezzo della conquista del 2004 si sentiva in colpa per essere salito con Compagnoni più in alto di quanto concordato, non fu “L’ha deciso Achille” o qualcosa del genere, come sarebbe stato naturale in coerenza col sentirsi in torto, bensì che egli e Compagnoni non potevano gelare fuori della tendina per attenderlo.

Il senso e più ancora il tono crudo di questa risposta, quello di chi non accetta rilievi, mi sembravano escludere che Lacedelli si sentisse in quel momento in colpa rispetto a Bonatti, risultando dunque e comunque incompatibili col suo racconto del 2004.

La complessiva incompatibilità del breve dialogo della sera del 30 luglio coi sospetti che i suoi protagonisti hanno affermato, anni o decenni dopo, d’aver nutrito già allora, suggeriva con forza che quei sospetti fossero insorti non sulla montagna ma molto tempo dopo, e che fosse dunque errata la loro collocazione temporale in quei giorni.

La terza incongruenza riguardava il comportamento di Bonatti dopo la ‘conquista’ della vetta.

Giunto dopo Mahdi all’ottavo campo nel mattino del 31 luglio, Bonatti non aveva esposto ai compagni lì presenti, Gallotti e Abram, i sospetti e il risentimento verso Compagnoni e Lacedelli che dal 1961 in avanti avrebbe affermato di nutrire già in quei momenti e non lo aveva fatto neppure scendendo con loro nei giorni successivi lo Sperone Abruzzi, né al campo base, né lasciando la montagna, né durante il viaggio di rientro in Italia, né per anni dopo il ritorno.

Risulta invece da racconti, interviste e documenti mai contestati che i rapporti tra Bonatti e gli altri componenti della spedizione, Compagnoni e Lacedelli compresi, furono a lungo cordiali e senza ombre e che tutti parteciparono amichevolmente insieme agli incontri per i primi anniversari della vittoria sul K2.

Come mai, dunque, il Bonatti scalatore di rinomanza mondiale, come tale e per il suo carattere senza paura di fronte a niente e nessuno, non aveva mai, nelle migliaia di contatti coi colleghi della spedizione e poi con altri alpinisti e parenti e amici e giornalisti intrattenuti nei sette anni dal 1954 al 1961, detto una sola parola del giusto risentimento per essere stato sul K2 ingannato ed esposto a rischi mortali?

La sola risposta possibile era che quel risentimento non fosse sorto sul K2 ma molto dopo, per altri motivi che quelli addotti nei libri di Bonatti, motivi che io peraltro non conoscevo e che non avevo il dovere di indagare né il diritto di supporre.

Queste tre incongruenze, unite a quella riguardante l’accertata impossibilità di pernottare in quattro nella tendina Super K2 come Bonatti sosteneva invece si fosse deciso, mi sembrava gettassero ombre pesanti sul suo racconto e sulle illazioni e sui sospetti da lui avanzati contro Compagnoni e Lacedelli quanto al punto decisivo dell’osservanza del ‘piano’ per l’assalto finale e, conseguentemente, alla condanna pronunciata dal CAI.

Riflettendoci nei tempi lunghi del Covid, dovetti però riconoscere che per quanto numerose e concordanti quelle incongruenze costituivano solo indizi, come tali ovviamente discutibili, che se pareggiavano ampiamente il solo elemento posto da Bonatti alla base delle sue accuse – la mera sensazione che Compagnoni apparisse sfinito la sera del 29 luglio e tanto da temere di dover essere sostituito nella cordata per la vetta – non provavano però che il piano di quella sera fosse nel senso che Compagnoni e Lacedelli potessero salire il giorno seguente sin dove potevano o volevano, non scagionando dunque il primo da quelle accuse.

Al di là del livello indiziario restava dunque, sul punto dell’osservanza del piano, la parola dell’uno contro l’altro e conseguentemente mancava, alla mia richiesta di riabilitazione, quella che in penale si chiama ‘la prova regina’ e nelle indagini poliziesche ‘la pistola fumante’, un elemento cioè che dimostrasse indiscutibilmente la buona fede di Compagnoni.

La pistola fumante
Capii di dover cercare ancora e nell’ottobre 2021 entrai in contatto con la Libreria Alpina di Angelo Recalcati che mi fornì un dimesso volumetto, una copia a stampa del diario giornaliero o quasi di Pino Gallotti, il quarto uomo del ‘piano’ del 29 luglio, steso a suo tempo nell’immediatezza dei fatti narrati e quindi ancora sulla montagna.

Scorrendo con ansia le date vi lessi che la sera del 29 luglio s’era stabilito che Compagnoni e Lacedelli dovessero il giorno seguente salire a porre il nono e ultimo campo “il più in alto possibile”, esattamente come riferito da Compagnoni.

Significava che questi non doveva affatto fermarsi a 7950 metri, che non c’era nessun ‘punto stabilito’ per l’ultimo campo, che qualsiasi cosa avesse capito Bonatti sul momento o fatto finta di capire Lacedelli cinquant’anni dopo, lo stesso Compagnoni, lungi dal violare il ‘piano’ l’aveva adempiuto come doveva e non era dunque colpevole di nulla.

Della questione della fine dell’ossigeno non volevo curarmi, si trattava d’un sospetto senza prove basato su assurdi calcoli ragionieristici a tavolino e relativo a una menzogna che non avrebbe avuto alcun motivo né alcuna possibilità d’essere costruita nelle condizioni estreme della discesa notturna dalla vetta del K2, un sospetto che non faceva onore né all’alpinista né all’uomo che Bonatti era stato.

E quanto alla buona fede di Compagnoni avevo appunto trovato la pistola fumante.

Riabilitate Compagnoni!
Potevo dunque riprendere la mia campagna e non più a partire da indizi ma da una testimonianza indiscutibile per la serietà della persona da cui proveniva, la collocazione temporale e il non essere stata smentita quando Bonatti, come egli stesso riporta, aveva nel 2002 accoratamente chiesto a Gallotti di farlo.

Preparai dunque un nuovo saggio, più breve di quello del 2018, che intitolai K2 vittoria pulita, qui riportato nell’appendice di documenti in versione solo marginalmente aggiornata, centrato sulla tesi, provata appunto dal diario di Gallotti, che la programmazione del piano per l’assalto finale alla vetta del K2 fosse stata inficiata da un malinteso, ciò che avrebbe giustificato la divergenza delle versioni di Compagnoni e Bonatti, escluso ogni sospetto di malafede nell’uno e nell’altro e restituito all’impresa del 1954 tutto il suo valore alpinistico e umano.

Il 21 gennaio 2022 ho inviato quel saggio al Presidente generale del Club alpino, questa volta chiedendo espressamente d’annullare la delibera del Consiglio Nazionale del 2004 e quindi l’infamante condanna di Compagnoni e Lacedelli.

Dopo avere atteso e sollecitato inutilmente un riscontro, a luglio 2022 ho informato via email del silenzio del CAI centrale le sue circa cinquecento Sezioni territoriali, rimettendo anche a loro il mio documento.

Cinque giorni dopo il nuovo Presidente Antonio Montani m’ha assicurato che il Consiglio Nazionale, lo stesso organo che aveva deciso nel 2004 la condanna di Compagnoni e Lacedelli, m’avrebbe dato una “adeguata risposta”.

In attesa della decisione ho sottoposto K2 vittoria pulita al mio indirizzario di montagna comprendente più di milleduecento recapiti di alpinisti amici e no, Sezioni CAI, guide alpine e siti del ramo, oltre che a un ristretto numero di capi di spedizioni extraeuropee, studiosi e scrittori d’alpinismo e di esponenti del Club alpino, avendo specie da quest’ultimo gruppo diverse risposte scritte.

Alcune nel senso che la questione da me sollevata riguardava fatti troppo lontani nel tempo per risultare interessante, altre invece contrarie anche decisamente alla condanna del CAI che veniva però ritenuta immodificabile e poche, infine, concordanti con la mia richiesta di riabilitazione.

Nessuno di quelli che hanno risposto ha però contestato, e in nessuna parte, le ragioni esposte nel mio documento documentate con riferimento alle fonti.

Avevo intanto preso nota dei riconoscimenti attribuiti a Compagnoni, una medaglia d’argento al valor civile nel 1952 per un salvataggio sul Cervino e, dopo il K2, un’altra medaglia al valor civile nel 1955, questa volta d’oro, e la cittadinanza onoraria di Bormio capoluogo della natia Valtellina.

M’aveva colpito in particolare che nel 2003, meno d’un anno prima che nel libro K2 Una storia finita il Presidente del CAI Annibale Salsa censurasse Compagnoni come traditore e bugiardo, un altro Presidente, Azeglio Ciampi, gli avesse conferito il titolo di Cavaliere di Gran Croce, la massima onorificenza della Repubblica italiana.

Non c’era, però, da stupirsi: i ‘Saggi’ incaricati dal CAI d’accertare la ‘verità storica’ delle vicende del K2 non avevano provveduto neanche all’elementare adempimento d’ascoltarne i protagonisti, figurarsi se potevano tener conto del parere d’un semplice Presidente della Repubblica.

A quel punto non solo il CAI ma la quasi totalità degli appassionati di montagna in Italia e nel mondo erano convinti che i sospetti senza prova ripetuti per decenni da Walter Bonatti fossero realtà indiscutibile.

Non, ovviamente, Achille Compagnoni il quale, cento volte meno di Bonatti introdotto nel mondo dei media, si difese però energicamente ogni volta che gli fu permesso, come nell’intervista di Aldo Cazzullo dell’estate 2004, successiva alla pubblicazione del libro di Cenacchi-Lacedelli e riportata qui sotto.

Ma i sospetti di Bonatti erano ormai divenuti condanna.

A ottobre 2022 avevo peraltro pubblicato il libro Storie di montagna al dichiarato scopo di far conoscere, e di lasciare come testimonianza cartacea nei data-base del settore, il documento K2 vittoria pulita che vi avevo inserito con altri cinque racconti scritti per l’occasione.

Anche questo volume è stato venduto molto poco dalla piattaforma Youcanprint con la quale l’avevo editato, ma ne ho inviato gratuitamente quattrocentosettanta copie a librerie e siti di montagna nonché a chi, del mio indirizzario, me ne ha fatto richiesta.

Pagina 15 del Corriere della Sera del 9 agosto 2004. Purtroppo manca qualche riga di testo.

Nell corso della campagna pro-Compagnoni (qui come altrove cito solo lui perché mi ha molto disturbato il voltafaccia di Lacedelli nel libro del 2004) ho avuto il sostegno di alcune persone che non conoscevo prima d’avviarla e alle quali sono profondamente grato.

La prima delle due, tra esse, che ho sentito più vicine, è un alpinista e scrittore d’accurate biografie di grandi scalatori che m’ha generosamente fornito consigli preziosi e recapiti che hanno permesso gran parte dei contatti ad alto livello citati sopra.

La seconda è Fernanda Mossini, cognata di Achille Compagnoni: non vedo modo migliore di presentarla che riportare, come faccio nella sezione Documenti, l’intervista effettuata a luglio 2023 e che è stata pubblicata su MontagnaTV, aggiungendo soltanto che anche lei, sentendosi tenuta a ciò dall’affetto per la sorella scomparsa, ha chiesto formalmente alla presidenza del Club alpino d’annullare la condanna del 2004 senza avere riscontro.

Decisioni contraddittorie
Nel 2023 ho ancora sollecitato il Club alpino a esaminare la mia richiesta del gennaio ‘22, insistendo per essere ammesso a illustrare e discutere le ragioni indicate nel documento K2 vittoria pulita.

Il 25 marzo 2023, con la delibera riportata nell’appendice di documenti, il Consiglio Nazionale ha affermato, anche sulla base d’una relazione dell’ex Presidente Roberto De Martin, che la relazione dei Tre Saggi ”non costituisce la posizione ufficiale del CAI la quale deve, piuttosto, rinvenirsi aliunde”, che tale posizione è quella espressa in una delibera del 1994 dello stesso Consiglio e che le ”successive diverse interpretazioni in merito alla vicenda ed ai suoi protagonisti non sono ascrivibili al Consiglio Centrale o a posizioni ufficiali del CAI”.

La sostanza era che la condanna del 2004-2007 non fosse ‘ascrivibile’ al CAI e se ciò comportava che io avessi condotto per anni una campagna contro i mulini a vento ne ho gioito col mio indirizzario perché l’obiettivo di riabilitare Compagnoni era comunque raggiunto.

Questa interpretazione deve aver scosso i vertici del CAI perché il Presidente Montani s’è affrettato a riconvocare il Consiglio centrale che con delibera del 25 aprile 2023, pure riportata tra i documenti, ha rovesciato la decisione assunta solo un mese prima dichiarando che “la posizione ufficiale del CAI sull’intera vicenda K2 è stata precisata nella cosiddetta Relazione dei Tre Saggi.”

Questa seconda delibera, che riafferma la condanna del 2004-2007, non discute affatto, come la precedente, le ragioni che avevo portato per riabilitare Compagnoni risultando, poiché nella sostanza respinge quelle ragioni, priva di motivazione rispetto alla mia richiesta.

Ho protestato cercando d’interessare non solo, e questi di nuovo, i Presidenti delle Sezioni CAI territoriali, (un solo riscontro positivo su circa cinquecento destinatari), ma anche il Ministero del Turismo che in quanto titolare del potere di controllo sul CAI dovrebbe indurlo a rivedere la condanna e comunque a motivare sulla mia richiesta (nessuna risposta a oggi), e i mezzi di comunicazione a stampa e in rete (idem).

Una soluzione conciliativa…
Il 10 gennaio 2024 ho inviato al Presidente generale del CAI, ai componenti del Consiglio nazionale e per conoscenza al mio indirizzario, una seconda richiesta formale, riportata qui nell’Appendice, d’annullare la condanna del 2004–2007.

Questa volta, dopo aver sottolineato che la versione di Compagnoni sul suo obbligo di salire “il più in alto possibile” stabilito nel piano del 29 luglio era avallata dalla testimonianza di Gallotti e andava dunque privilegiata o alla peggio ritenuta equivalente a quella opposta di Bonatti sostenuta solo dai sospetti anch’essi senza prova di Lacedelli, proponevo più chiaramente la soluzione conciliativa già accennata in precedenza.

Sottolineavo cioè che le circostanze di definizione del ‘piano’ – la stanchezza, l’alterazione mentale prodotta dalla quota (questa e come sopra già richiamata nel 2017 dal presidente generale Torti), l’ansia per la vicina conclusione dell’impresa, la diversità dei compiti assunti dalla cordata di punta e da quella di supporto – aggiunte all’accordo senza ombre tra gli alpinisti al rientro in Italia già sottolineato da Mirella Tenderini (in Tutti gli uomini del K2, Corbaccio 2014) e alla determinazione con la quale due persone integre come Bonatti e Compagnoni avevano sostenuto sino alla morte le loro opposte versioni, imponevano di riconoscere che i quattro dell’ottavo campo non si capirono, la sera del 29 luglio 1954, su sino a dove o a quale altezza Compagnoni e Lacedelli dovessero salire a piantare l’ultimo campo.

Riconoscere questo malinteso avrebbe consentito d’annullare la condanna inflitta a Compagnoni e Lacedelli senza nulla togliere alla grandezza di Bonatti.

Aggiungevo peraltro che, risultando per la mia età necessario chiudere quanto prima possibile una storia per me penosa, mi sarei dimesso da socio in mancanza di riscontro positivo entro il 29 febbraio 2023.

… e una scappatoia inaccettabile
La mia richiesta del 10 gennaio ha suscitato il consenso di non più di quattro amici ma anche un articolo di Stefano Ardito che su MontagnaTV l’ha riportata quasi per intero e senza commenti.

Resa pubblica la mia proposta, il CAI avrebbe potuto rivedere senza clamore l’intera questione e giungere a una soluzione onorevole e positiva per la memoria di Compagnoni e Lacedelli ma anche di Bonatti, tutti riconosciuti in buona fede, per l’immagine della vittoria italiana sul K2 e per quella dello stesso Sodalizio.

Sarebbe stato necessario, però, ammettere che Walter Bonatti aveva frainteso l’accordo del 29 luglio, toccando così, anche se a fin di bene, il mito, nel quale l’intero Club alpino è immerso sino al collo, dell’eroe infallibile insidiato dall’orco Compagnoni, un eroe da ricondurre invece alla condizione umana nella quale di non intendersi capita, e fare il diavolo a quattro credendo d’essere nel giusto si può senza biasimo se si è in buona fede, un’audacia evidentemente eccessiva per i vertici del Club alpino.

Tanto che con lettera del 1° febbraio, pubblicata poi su MontagnaTV e qui pure riportata tra i documenti, il Presidente Montani ha riscontrato la mia richiesta definendola “davvero incomprensibile… per il semplice fatto che non vi è stata e non vi è alcuna condanna”.

Una contro-soluzione comoda, perché eliminava il problema alla radice, ma contraria alla realtà documentale.

Infatti nelle conclusioni della relazione dei tre ‘Saggi’ si legge che Compagnoni e Lacedelli usarono l’ossigeno supplementare “per dieci ore, fino all’arrivo in vetta al K2”, al che consegue necessariamente che la loro versione contraria è una menzogna e ancora che vi fu da parte di Compagnoni e Lacedelli una “mancata osservanza delle intese sul luogo programmato per il campo IX, spostato in altro luogo”, al che pure necessariamente consegue che il campo fu posto in violazione di quelle ‘intese’.

Alle pagine 11 e 12 del libro CAI del 2007 K2 una storia finita il Presidente generale di allora Annibale Salsa chiarisce poi che Compagnoni e Lacedelli usarono l’ossigeno sino in vetta “contrariamente a quanto dagli stessi affermato” e spostarono ‘arbitrariamente’, che in italiano significa ‘abusivamente’, il luogo del nono campo.

Chiudere la questione accettando la scappatoia proposta da Montani avrebbe significato in questo quadro lasciare intatta la condanna che il CAI aveva dovuto, dopo la delibera del 2004, confermare ed esplicitare nel 2007 proprio per le insistenze di Bonatti che non restassero dubbi sulle colpe dei suoi ex compagni.

Ho dunque, come dai documenti, contestato quella tesi via email e con due commenti sulla stessa pagina di MontagnaTV che l’aveva ospitata, sottolineando le risultanze documentali sopra richiamate.

Nei giorni successivi ho esposto ancora la situazione, e ancora come nei Documenti, ai componenti del Consiglio Nazionale in un estremo tentativo d’evitare di dovermi dimettere da un Sodalizio del quale ero socio dal 1950 e per i cui fini m’ero appassionatamente impegnato lungo un quarto di secolo, anche promuovendo iniziative di rilievo, nella mia Sezione e nella sua Scuola d’alpinismo – e nel cui comportamento però non potevo riconoscermi.

Non è servito, la scadenza del 29 febbraio 2024 è passata nel silenzio del Presidente generale e dei Consiglieri nazionali e il primo marzo 2024 ho comunicato come dal Regolamento del Club le mie dimissioni al Consiglio direttivo della Sezione di Ascoli Piceno.

Conclusioni
L’ultima ‘impresa’ collettiva della mia vita, che poi collettiva non è stata se non nelle mie aspettative, sembra dunque terminata con una sconfitta.

Si può infatti pensare che il CAI abbia ‘vinto’ non solo perché la condanna che avevo contestato è ancora lì ma in quanto la mia richiesta di cancellarla non ha interessato nessuno o quasi delle centinaia di soggetti che ho contattato e la campagna che ho portato avanti per quasi sei anni s’è risolta in una prevedibile perdita di tempo, energie e denaro.

Ma non è affatto così, o non nel mio mondo culturale e morale, e ovviamente non importa che fuori da quel mondo, e dunque fuori dalla morale e dalla ragione, altri e magari tutti gli altri la pensino in modo diverso.

Infatti la condanna è ancora lì solo perché i vertici del Club Alpino sono venuti meno, se non al dovere universale della verità, a quello loro proprio di rispettare la memoria dei due alpinisti che anche a loro nome sono arrivati per primi sulla cima del K2.

E il disinteresse di coloro che avrebbero potuto, e più ancora di coloro che avrebbero dovuto, esaminare e discutere le ragione poste a base della mia richiesta non prova affatto che fossero sbagliate o fuori tema, documenta al contrario la loro fondatezza in quanto nessuno è stato in grado e ha trovato il coraggio di contestarle anche solo in parte.

Dopo essermi impegnato quanto potevo e quindi dovevo per ciò che credevo giusto, senza avere la verità in tasca ma contando di poterla raggiungere attraverso il dialogo che m’è stato negato, lasciare ii Club alpino al suo mito, irragionevole e deleterio come tutti i miti, e stato ancora una volta indolore e liberatorio.


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  1. says: Cinzia Nardi Lorenzi

    Al di là dell’ingiustizia presunta o reale, quel che, in questa dolorosa vicenda colpisce, è la chiusura censoria al dialogo e al confronto.
    È doloroso che un sodalizio come il CAI che è, o dovrebbe essere, il simbolo del cammino, l’antonomasia del salire in alto e dell’andar lontano, abbia sbarrato ogni possibile strada alla ricerca della verità. Francesco Saladini, un uomo dalla moralità e dalla generosità indiscutibili, è stato messo in condizioni di dimettersi. Epilogo naturale di una appartenenza non più congrua e possibile che lo ha, a suo dire liberato e senza dolore, ma per quelli che ancora credono nei valori alti dell’umanità, il gesto del grandissimo uomo di montagna, e non solo, significa sconfitta e impoverimento profondo. Infatti, il cammino non è solo quello dei passi, ma soprattutto quello del pensiero libero e condiviso, anche se non si è d’accordo. Siamo esseri umani, possiamo e dobbiamo sbagliare, ma ragionare sugli errori ed essere aperti alla loro correzione è ciò che ci distingue,o, almeno, dovrebbe esserlo…

  2. says: lorenzo

    Leggo con tristezza questo articolo,non tristezza nelle fondamenta dell’articolo ma nella non risposta del consiglio centrale su una verità appurata con dei documenti e il non coraggio di affrontarla.
    Ma sopratutto il disinteresse sulle dimissioni di un socio che ha dato tanto alla sua sezione,il CAI non ha più i valori di una volta ed anch’io come presidente di una piccola sottosezione non mi ci ritrovo più,per il momento reggo solo per la fiducia che le persone hanno verso il lavoro del mio direttivo e delle varie commissioni,altrimenti se dovessi guardare di come vengono gestite le varie cose all’interno del carrozzone burocratico che il soldalizio è diventato sarebbe da dimettersi subito.
    Un esempio è la spedizione al K2 che stà per partire per il 70° anniversario della salita composta da sole donne ma gestita come capo spedizione da un uomo (senza nulla togliere al valore della persona in capo) ma possibile che non ci sia stata una donna che fosse in grado di gestire il tutto?

  3. says: Francesco Saladini

    La domanda di Lorenzo acquista peso col senno del poi.
    Forse una donna esperta di Ottonila, se fosse stata interpellata come non so se sia accaduto, e se avesse accettato, sarebbe riuscita meglio d’un uomo a ridurre la grancassa che ha accompagnato l’avvio della spedizione K270, a preparare più accuratamente l’acclimatamento delle atlete e a raccontare con maggiore continuità e completezza i momenti d’una avventura surclassata dall’arrivo in cima di team commerciali.
    Resta che alla mancanza d’una corretta commemorazione della straordinaria impresa di settant’anni fa il Club alpino ha aggiunto il fallimento dell’iniziativa che avrebbe potuto e forse dovuto far dimenticare la vetta di Compagnoni e Lacedelli.
    Non c’è da rallegrarsene ma è opportuno e giusto chiedersi in cosa s’è sbagliato, quale è stato il costo dell’insuccesso e chi lo pagherà.
    Francesco Saladini

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