L’impresa di Hasse e Brandler sulla Parete Rossa della Roda di Vael è la conferma di quanto pericolosamente l’arrampicata dolomitica stesse avviandosi verso un fondo cieco di artificialità. Gli stessi erano già stati protagonisti sulla diretta alla parete nord della Cima Grande di Lavaredo, dove avevano espresso il massimo di coniugabilità tra ardimento di arrampicata libera e tecniche di salita artificiale. La Parete Rossa è stata appunto una conferma di questo stile, senza ancora travalicare quello che ormai era un confine labile. Sarebbe bastato un grado goniometrico di ulteriore strapiombo o anche una quasi impercettibile diminuzione di disponibilità al rischio per cadere in un cammino di progressione artificiale che presto si sarebbe rivelato senza sbocchi. La via Maestri e ancor più la Concilio Vaticano II l’avrebbero presto dimostrato e proprio sulla stessa parete.
La Parete Rossa della Roda di Vael
di Dietrich Hasse
Parete Rossa della Roda di Vael 2806 m, 1a ascensione: Lothar Brandler e Dietrich Hasse, 9-12 settembre 1958.
Traduzione di Irene Affentranger
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, 1-2, 1960)
Primavera 1957. Giorni indimenticabili sulle rocce del natio Felsengebirge sassone. Durante alcune di queste ascensioni mi è compagno Lothar Brandler. Si tratta di quanto più difficile si possa trovare su quei monti. Parliamo delle nostre scalate e dei nostri sogni più ardenti. Lothar mira soprattutto alle Alpi Occidentali: Eiger, Grandes Jorasses… Per me predominano ancora e sempre le Dolomiti: a poco a poco incominciano a diventare la mia patria alpinistica. Così ad esempio espongo a Lothar il mio progetto di tentare nelle prossime ferie estive un’ascensione sulla Parete Rossa della Roda di Vael, nel Catinaccio.

Poi le occupazioni di ogni giorno ci avvincono di nuovo. «Buona fortuna sulla Parete Rossa», leggo più tardi su una cartolina che Lothar mi manda poco prima dell’inizio delle ferie. Ma le cose vanno diversamente. Nella lotta ostinata per la diretta sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo svaniscono nel nulla tutti gli altri bei progetti dolomitici della perduta estate 1957.
Anche per Lothar quell’anno non porta la realizzazione di nessuno dei suoi sogni di alpinista. Il suo posto di lavoro nel Ticino lo tiene legato con pugno di ferro. L’estate trascorre senza vacanze in montagna. Gli resta l’unica magra soddisfazione di pensare che il tempo del 1957, sfavorevole nell’intera zona delle Alpi, senza dubbio gli avrebbe concesso altrettanto scarse possibilità di grandi ascensioni – fors’anche unicamente delusioni – come a tutti gli altri.
Estate 1958. Siamo seduti in casa del nostro amico di montagna Luis Vigl a St. Johann, il quale ci racconta del tempo passato, della ricchezza degli anni che lo legarono di amicizia ad Hermann Buhl. Quale contrasto con tutta la volgare bassezza che Hermann ebbe sempre e di continuo a sperimentare da altre parti durante la sua troppo breve esistenza! Lui, che ancora per generazioni continuerà ad essere modello alla gioventù alpinistica, lasciando dietro di sé ben lontani, coloro che per tanti anni, con la loro invidia e i loro intrighi gli resero difficile la vita.

Per me tornano presenti i giorni in cui Hermann era stato ospite del nostro sassone Felsengebirge. Con lui avevo scalato alcune delle nostre cime. Quante cose aveva da raccontarci! Di tempi buoni e meno buoni, degli anni lontani della guerra, di casa sua, dell’Himalaya. Insieme trascorremmo lo scorcio dell’estate 1954. Dopo aver arrampicato tutto il giorno, passavamo lunghe ore insieme, in una ristretta cerchia di camerati, seduti attorno al fuoco. Il resto della notte lo si dedicava a dormire sotto qualche grande strapiombo, alla base di una parete.
Si trovava a suo agio con noi. Non avrebbe dovuto essere l’ultima volta che Hermann intendeva soggiornare nel massiccio dell’Elba. In quanto a me poi, egli mi invitò ad effettuare insieme una campagna nelle Alpi. Purtroppo i progetti rimasero tali. Hermann Buhl è morto già da oltre un anno. Siamo seduti in casa di Luis e pensiamo a lui.
Una «via dedicata ad Hermann Buhl»!: l’idea nasce come una folgorazione. Però, che cosa mai sarebbe stata abbastanza bello e degno per Hermann? Dovrebbe essere un qualche grande, importante problema alpinistico.
Se si provasse sulla Parete Rossa? La proposta è di Lothar. Ne siamo entusiasti. La chiaro-splendente parete, che al di sopra del Passo di Costalunga svetta come fiamma dalle rupi del Catinaccio. Alpinisti quali Harrer, Comici, Cassin, Eisenstecken, Rébuffat, Bonatti, Lacedelli, De Francesch e F. Innerkofler, Abram ed Egger ed altri ancora, si sono già cimentati come pretendenti sul fianco di questo giallo precipizio di 400 metri. Una parete di questo genere dovrebbe veramente diventare il grande e degno monumento ad Hermann Buhl!
L’idea vuol essere senza indugi realizzata. L’impresa è posta sotto gli auspici della Sezione di St. Johann in Tirolo dell’Oesterreichischer Alpenverein.

Entro il termine stabilito – fine agosto – Lothar ed io siamo entrambi sulle Dolomiti. Non posso trattenermi a lungo altrove: debbo andare alla Parete Rossa, nei cui pressi mi aggiro durante gli ultimi infuocati giorni d’agosto per familiarizzarmi completamente con quanto ci aspetta lassù. Con Gerd, mio compagno di ascensioni in quel periodo, me ne sto seduto sulla cima della Roda del Diavolo e su una sporgenza rocciosa lungo la cresta della Parete Rossa. Guardiamo giù sul suo fianco scosceso, cerchiamo una possibilità, una via, la prendiamo in considerazione, la scartiamo. A destra di dove si sono svolti i precedenti tentativi sembrerebbe esserci ancora una probabilità di riuscita. Vi si trova infatti una fessura che conduce su un bel pezzo, per scomparire infine in una zona di parete liscia e senza appigli, al di sotto di tetti minacciosi. Ma tuttavia può anche darsi che quella muraglia strapiombante presenti un punto debole. Successivamente ci rechiamo ai piedi della parete e guardiamo in su. Ci appoggiamo con la schiena alla roccia e continuiamo sempre a rivolgere in alto gli sguardi. La visione non cambia. Il grande diedro, ove anche tutti i nostri predecessori hanno tentato la sorte, appare a chi osservi dalla base come l’unico attacco possibile. Al di sopra la roccia sembra dovunque impercorribile allo stesso modo.
Le osservazioni di quei giorni ci permettono di giungere ad alcune importanti conclusioni. Le rupi verticali non offriranno posti da bivacco naturali, tranne che nel tratto superiore, sull’unica cengia a una lunghezza di corda dalla vetta. Dobbiamo calcolare su un’ascensione della durata di tre, fors’anche di quattro, eventualmente addirittura di cinque giorni. Verso le undici del mattino il sole investe la parete e la trasforma in una ripidissima piastra di forno rovente.

Trascorro notti insonni ad almanaccare. Mi sorgono dinanzi le figure dei due italiani morti di sfinimento dopo aver compiuto la prima ascensione della Nord-est del Badile. Che cosa mai ci aspetterà sulla roccia arroventata dal sole della Parete Rossa – e poi, che ci recheranno senza dubbio le notti che dovremo passare seduti su staffe? Ciò significa nessuna possibilità di riposo, né di raccogliere le proprie forze. Andrà tutto bene?
D’un tratto, la riuscita del nostro piano mi sembra messa seriamente in forse. Ma che fare? Infine da lunghe ore d’insonnia scaturisce la soluzione: amache!
Sabato 30 agosto 1958. Luis trasporta con la sua vettura il «materiale della spedizione» al Passo di Costalunga. Hias Noichl, giacente all’ospedale per la ferita riportata sull’Eiger, ha messo spontaneamente a disposizione una parte considerevole del suo equipaggiamento da roccia: chiodi, cordini e moschettoni. Due amici di montagna della squadra juniores di St. Johann, Horst Schneider e Peter Toepke, che in futuro impareremo ad apprezzare quali preziosi compagni, pieni d’abnegazione, sono venuti con noi, pronti ad aiutarci dal basso quando saremo in parete. All’uopo ci occorrerà questa volta un cordino che raggiunga i 400 metri di lunghezza, 100 di più che per la diretta sulla nord della Cima Grande di Lavaredo.
Ai piedi dell’elevato ghiaione che adduce alla Parete Rossa si erigono, al riparo dei grandi massi ivi giacenti, due piccole tende. Dovranno costituire il campo base.
Con l’aiuto di Horst e Peter mi accingo a ispezionare e distribuire gli oggetti di equipaggiamento disponibili. Poco dopo, il fabbro di Nova Levante ha l’incarico di trasformarci tutta una serie di chiodi comuni in chiodi speciali. Ci occorrono cunei di legno! Una incursione che il compagno di motocicletta di Peter compie al Rifugio Tre Cime ci procura in prestito i 200 metri di cordino ancora mancanti. Si procede all’acquisto di viveri speciali: uova, dadi per brodo, sardine sott’olio, sottaceti, tè, zucchero, limoni, frutta fresca e secca, ecc. Il nostro amico alpinista di Bolzano, Erich Abram, ci procura le desiderate amache. Ben presto, in parete, ci renderanno inestimabili servigi. Erich provvede altresì il libro da lasciare sotto la vetta e ci indirizza ad uno dei suoi forti camerati del Club Alpino dell’Alto Adige, che in un momento raduna i cunei di legno necessari. Infine arriva Lothar, e così si può incominciare.

Una puntata esplorativa su per il grande diedro, compiuta venerdì 5 settembre, termina tuttavia, per una prima volta, con rassegnazione. Già, qui hanno tentato anche tutti gli altri. Non che da quella parte non si possa giungere in vetta; con mezzi artificiali l’impresa sarà senz’altro realizzabile.
Anzi, nel tratto inferiore si procede addirittura agevolmente, e non soltanto con passaggi da chiodo a chiodo. Però s’impara a conoscere la roccia! Ora, si sa che la parte superiore della parete, che è anche di gran lunga la maggiore, sarà costituita da un unico precipizio strapiombante, con lastroni levigati e certamente neppure un metro di terreno superabile in libera. Questo stato di cose promette chiodature e trapanature a non finire. A malincuore rinunziamo al nostro progetto in cui tanto avevamo sperato, poiché per l’appunto imprese di questo genere ci appaiono prive di interesse alpinistico. Adesso ci rendiamo altresì conto del motivo per cui gli altri non hanno proseguito, e in merito ci sentiamo incondizionatamente solidali con quanti ci hanno preceduti qui.
La soluzione del problema della Parete Rossa rischia di volatilizzarsi. Per la seconda volta, Erich Abram con un amico gira intorno alla parete con un velivolo da turismo. Cerca invano; da gran tempo ormai siamo di nuovo seduti alla base della muraglia.
La domenica, mentre Peter ed io dobbiamo fare una veloce puntata alla Marmolada, Lothar e Horst percorrono la via Dibona, che delimita sul lato destro il salto della parete. Si tratta di giungere ad esaminare la zona mediana e destra; il grande diedro, che per prima cosa dà nell’occhio, si trova invece sulla sinistra. Entrambi vogliono indagare sull’altra eventuale possibilità – cioè il problema della fessura – che già di primo acchito era apparsa così seducente a Lothar.
Tornati dall’esplorazione, i compagni prorompono in espressioni entusiastiche. Solo non più quest’anno! dicono. Lothar si sente saturo di arrampicate, per questa stagione. È pur vero che ha al suo attivo la nostra diretta sulla Cima Grande di Lavaredo, il tentativo – purtroppo fallito a causa del ferimento di Hias Noichl – alla parete nord dell’Eiger, la scalata del pilastro Walker, ed altre ancora. È dell’avviso che per quest’anno s’è fatto abbastanza. A questo proposito il nostro scaltro Luis, appena giunto fin qui da St. Johann in compagnia di un amico, per una visita lampo, gli dà in un primo tempo pienamente ragione. Intanto però mi sono infiammato per la nuova possibilità. Grazie ad essa non occorrerà più che mandi all’aria il progetto di scalata della Parete Rossa, che ormai avevo quasi dato per compromesso. Anche qui Luis mostra di nuovo, con le sue doti diplomatiche, uno dei lati migliori del suo carattere, cosicché alla fine persino l’irrevocabile diniego di Lothar si tramuta in rinnovata volontà di lotta.
L’indomani attacchiamo. Solitamente progetti di questa specie pregiudicano assai volentieri sonno e appetito. Il che però stavolta, per buona sorte, non si verifica. In compenso, il tempo dà motivo di preoccupazione, allorquando al mattino usciamo fuori dalla nostra tenda. È stato bello così a lungo, e proprio adesso doveva cambiare di colpo e prendere un aspetto tanto brutto! Corpo di bacco! Possibile che l’accumularsi di nubi qui debba sempre significare subito pioggia e maltempo? Oppure… Andiamo, non andiamo? Non siamo ben sicuri di quel che si debba fare. Tuttavia, alla fin delle fini si decide di partire. Se le condizioni atmosferiche peggioreranno, potremo pur sempre tornare indietro; la ritirata nella metà inferiore della nostra via è ancora effettuabile.
Penosamente arranchiamo su per il ghiaione. Il grande masso di avamposto, che ci consente di attaccare, non sembra difficile e viene scalato con la corda in spalla. Subito sopra, ci leghiamo.

Nella puntata esplorativa di venerdì, avevamo estratto a sorte, come già facevamo in Sassonia, il diritto di guidare la prima lunghezza di corda. Allora era toccato a me. Stavolta il primo tratto spetta invece a Lothar.
Lungo un accenno di fessura, la via si inoltra assolutamente diritta su per la muraglia verticale. Superando in spaccata l’intaglio fra il blocco avanzato e la parete, aiuto il compagno a raggiungere, dalle mie spalle, l’attacco. S’inerpica faticosamente metro per metro, in difficile arrampicata, piantando gran quantità di chiodi. Peter, nella sua qualità di incaricato dell’assicurazione, diventa bersaglio di abbondanti cadute di sassi, che a dire il vero non ci eravamo affatto aspettate in questa prima lunghezza di corda. Gli fischiano incessantemente alle orecchie. Il suo viso, sfigurato dal timore – cosa ben comprensibile – minaccia di far crepare Horst dalle risa. È pur alto 2,05 m, si direbbe che pensi, porta scarpe numero 52, e nondimeno ha paura di pietre così piccole… Ah ah ah! Che le celie più stupide debbano sempre essere le migliori? A questo punto Peter proverebbe sommo piacere a bastonare l’amico del cuore.
Quando Lothar ha superato il primo gradino della parete ed è fermo, posso seguire io, aiutato all’inizio da Peter. Quelli che trovo sono in massima parte chiodi sicuri, solidi. Nella lunghezza di corda successiva si sale, con bella arrampicata libera, obliquamente a destra per roccia provvista di buoni appigli e coperta di licheni bruno-rossicci. Due o tre chiodi di assicurazione, e la corda è di nuovo già finita. Con l’aiuto di un anello, secondo il vecchio buon stile sassone, posso far venir su il compagno, continuando ad assicurare. Quindi Lothar perviene, con analogo sistema, ad una serie di fessure, che spostandosi ripetutamente verso destra, raggiungono a mezza altezza la principale caratteristica del nostro itinerario, cioè la rientranza pronunciata, che già ho menzionato.
La nostra fessura all’inizio si presenta come un piccolo diedro estremamente difficile. Lothar vi si inerpica con scioltezza. Mentre lo guardo arrampicare, non sospetto neppure lontanamente quanto in realtà la salita sia impegnativa. Infine – la corda è ormai quasi finita del tutto – può sostare. Si trova in una zona di roccia assai friabile. Massi in bilico e piccoli pilastri appena appoggiati minacciano di precipitare al minimo urto. Giunto accanto all’amico, per la mancanza di posto non vi posso rimanere che brevissimo tempo. Preoccupati, gettiamo una occhiata a tutta quella rovina che ci sovrasta. Qui sarà questione di procedere con cautela. Il sole ci indica che è già pieno meriggio. Occorre spicciarsi.

La mano s’infila con circospezione nella fessura. I piedi non s’azzardano più a posarsi in alcun luogo. È un’impresa pressoché disperata infilarsi su per quell’ammasso di pietre instabili senza che qualcuna non perda l’equilibrio, si stacchi e quindi colpisca sicuramente il compagno o addirittura lo accoppi. Avanzo strisciando, centimetro per centimetro, su per la roccia verticale. Alla fine, debbo ancora appoggiarmi in spaccata contro una placca staccatasi e solo più accostata alla roccia. Piovono fini detriti. Ma lo scricchiolio provocato dal contatto che anziché pressione è piuttosto carezza, ha un suono che pare quasi un benevolo ronron. Il lastrone non se l’ha a male.
Poco più su, i costoloni disgregati del monte si consolidano di nuovo. Lungo la fessura, debbo innalzarmi strisciandovi dietro. Talvolta succede anche che il pugno resti imprigionato entro gl’intagli sfalsati. Per fortuna non mi trovo più così pericolosamente a perpendicolo sopra Lothar, il quale ormai dal canto suo ha ripreso a guardare in alto con molta maggior baldanza. Le lastre, certo non di poca mole, che di quando in quando gli passano accanto con un sibilo, le considera meritevoli appena di un sogghigno. In basso però si rompono con gran frastuono in mille frammenti e polvere.
Horst e Peter erano rimasti a lungo seduti, a distanza sicura, presso l’attacco della via Dibona. Adesso però sono spariti da un pezzo. Ci stanno approntando la cena e l’occorrente per il bivacco.
Una delle più grosse fra le varie lame che caratterizzano questo tratto deve essere afferrata per spostarsi con le mani, mentre le gambe penzolano senza appoggio nel vuoto. È una faccenda aerea per davvero. Verso la fine della lunghezza di corda è tutto così, metro per metro. L’arrampicata è molto impegnativa, principalmente a causa del terreno infido. I costoloni si susseguono ripidi, verticali, talvolta anche strapiombanti. Di chiodi non ne penetra per così dire nessuno nella roccia. Ogni tanto fisso un anello di assicurazione, che tuttavia di massima viene ripescato dal di sopra. La parola d’ordine è qui: arrampicata libera! Con roccia solida dovrebbe essere magnifico. Così com’è invece, appare sommamente pericoloso.
Ormai non rimane che un breve tratto. In basso, Lothar deve già slegarsi. Poi, raggiunta la fessura principale, posso fermarmi. Qualche buon anello passato intorno alla sommità del pilastro, nel punto d’incontro delle due fessure, consente l’assicurazione.

Ora segue il compagno, in mezzo a veri scoppi di petardi. Egli calpesta e butta giù il più possibile tutto ciò che di malfermo gli capita sotto i piedi. Almeno per le cordate a venire non dovrebbe più essere così pericoloso, e Lothar fa proprio un buon lavoro. Tuttavia non dura davvero molto che me lo vedo comparirmi accanto tutto ridente. Il tratto gli è piaciuto.
Nel frattempo è scesa la sera. Adesso abbiamo agio per la prima volta di occuparci di nuovo del tempo. Si è proprio mantenuto discreto! Finché non si fa sentire, il tempo è sempre ottimo. Non è forse vero che ora si direbbe persino meno brutto di prima? Però è tutt’altro che buono. Constatiamo che esistono due diverse direzioni del vento, difficilmente definibili. L’una, più alta, dovrebbe essere all’incirca di nord-nordovest, mentre l’altra sospinge da sud spessi banchi di nuvole. Attorno al Latemar c’è come un fitto ribollìo di mare agitato. Bah, purché alla lunga la vada bene.
Il comprendersi con chi sta in basso è già da questo punto assai arduo, specialmente se si trova vicinissimo alla base della parete. Lothar fa il diavolo a quattro, scoppia di rabbia. Finalmente riusciamo ancora a far andare ogni cosa pel suo diritto verso. Dal basso hanno espresso il desiderio di udire preferibilmente la mia voce armoniosa, in quanto sarebbe più comprensibile. È un fatto che non sono un piccolo Caruso, come il nostro caro Lothar, dal cui naso proprio
adesso qualcosa gocciola sul labbro inferiore, sporgente in segno di stizza. Ma forse, per il cortile di una caserma… beh, potrebbe ancora passare. Peccato soltanto che nel dopoguerra e in montagna, neanche a farlo apposta, una così felice disposizione mi sia stata tanto sciupata!
La fatica di issare l’attrezzatura da bivacco, un voluminoso pacco di chiodi per domani e l’abbondante cena non costituisce affatto uno dei più grandi piaceri quando si «apre» una nuova via. Due volte ci tocca tirar su la fune per l’intera lunghezza. Dannazione, il cordino taglia le mani!
Qual senso di benessere ci procura quindi il brodo all’uovo, che cola giù per le nostre gole inaridite! Tè con limone! Per quel che mi riguarda, solo le fette di salsiccia e particolarmente i panini si ostinano a non lasciarsi inghiottire. Tanto più invece li gradisce Lothar, che ormai di nuovo tutto giulivo, mangia a quattro palmenti con gran rumore e facendo schioccare le labbra in modo tale da far impallidire d’invidia i cinghiali in libera bandita di caccia. Il pane triturato mi aumenta sempre più di volume in bocca. Quando ho seri motivi di temere che possa ostruire non solo l’esofago, ma anche addirittura naso e orecchie, lo sputo via. E quando il fresco venticello sospinge quassù a poco a poco le nubi di farina, che ci avvolgono facendoci tossire e quasi soffocare, Lothar dichiara che d’ora innanzi non sopporterà analoghi spettacoli antiestetici.
La parte umoristica della faccenda continua subito dopo, allorché saliamo nelle amache. Lothar che in basso, quando gli avevo presentati tali oggetti, aveva mostrato da principio solo avversione, adesso invece – e le notti successive – sarà ben contento di questa nostra aerea possibilità di dormire. Con una giacca a piumino e un sacco che gli arriva appena alla vita, è riuscito in tempo relativamente breve ad installarsi nel suo giaciglio. Io non sono altrettanto abile. Fortuna che è buio da un pezzo, e quindi il mio compagno non può vedere i miei disperati quanto vani sforzi, ma solo udirne il rumore, che diventa per lui una piacevole ninnananna. È da considerare però che il sacco da bivacco mi arriva fin sulla testa. O almeno, lo dovrebbe. Non chiedete oltre: è terribile! Dubito di aver dato prova di una qualsiasi genialità escogitando la faccenda delle amache. Per finire, mi ci sono accomodato, sì o no? Non lo so più. Comunque, un sonno misericordioso avviluppa finalmente i miei sensi estenuati, provando così che un bivacco su amache rappresenta senz’altro l’ultimo grido in materia.

Al mattino presto ci risvegliamo dall’assopimento. Passa ancora un certo tempo prima che siamo pronti a cambiare i sacchi ben caldi con la dura realtà. I dieci minuti successivi – questa volta veramente antiestetici – che non ti sono risparmiati neanche su una simile parete, li passerò per vergogna sotto silenzio. Indi si procede di nuovo all’operazione dell’issaggio. Esistono cose per le quali nemmeno la più grande abitudine (che il cielo ce ne preservi!) riesce a dare la minima attrattiva. Si cala il materiale da bivacco, si tira su la colazione. Si mangia o meglio, si beve, si fa scendere il sacco dei viveri. Siamo pronti. Stamattina il tempo ha un aspetto migliore di ieri.
In ossequio al nostro ciclo di turni, anche questa volta è Lothar a guidare la prima lunghezza di corda. La fessura non sufficientemente stretta, ove nulla riesce ad incastrarsi a dovere, sale ripidissima. In parte non la si può superare che chiodando, ma è troppo larga per i nostri cunei di legno. Uno strapiombo di roccia marcia, in cui tosto il compagno viene a trovarsi appeso, mi fa questa volta trattenere il respiro. A dire il vero non è certo se eventuali placche staccate con violenza mi colpiranno o se mi passeranno frullando dietro alle spalle. Ma la faccenda si presenta non scevra di pericolo: e poi, chi mai si riceve volentieri una pietra in testa? A questo punto un uccello grigio-rosso, svolazzante al di sopra di Lothar, attrae su di sé la mia attenzione. È un picchio delle rocce. Provo sempre piacere quando mi capita di incontrare un così raro compagno. Adesso è attaccato alla roccia, saltella, picchia. «Schnippel – grido, – Schnippel, guarda un po’ sopra di te!». Il compagno, che proprio in quel momento è impegnato duramente, trasalisce e di colpo volge il capo verso l’alto. Sennonché, per un movimento del genere, non è questo precisamente l’istante opportuno. Il commento che ne esce è adeguatamente rude, ma viene dritto dal cuore: «Accidenti a te e alla tua porcheria! Pensavo che stesso volando giù qualcosa. Bestia che non sei altro! E tutto per una simile cornacchia!».
Adesso ha superato lo strapiombo. Ancora qualche metro, e subito dopo raggiunge il termine della fessura e si ferma. La parte che, secondo le osservazioni compiute in precedenza, consideriamo la più problematica, d’ora innanzi dovremo digerirla. Si tratta del lastrone giallo, liscio e panciuto, che fiancheggiato a destra e a sinistra da tetti, adduce dall’estremità della fessura sino alla roccia che, al di sopra, appare di nuovo colorata in grigio. Per il momento tuttavia non posso ancora stillarmi il cervello in merito, poiché il tratto di corda lungo la fessura, relativamente corto, ma in compenso tanto più difficile, mi dà parecchio filo da torcere.

Poco dopo mi trovo appeso nel bel mezzo della parete gialla. Sono all’incirca 15 metri di chiodatura. I primi chiodi sono una faccenda puramente ipotetica. Come Dio vuole tanto per rinsaldare il morale, uno penetra fino all’anello nella roccia, seguito da un altro, lungo. Qui si può di nuovo stare allegri. Ma non si avanza che molto adagio: è effettivamente un tratto difficoltoso del nostro percorso. Quando, malgrado lunghe ricerche e tentativi, non ci scappa più nessuna, ma proprio nessuna possibilità di piantare un chiodo, e Lothar già tutto inquieto sdrucciola in qua e in là nella staffa su cui è seduto, do di piglio al trapano. Il primo chiodo a espansione della nostra via si addentra nella roccia. Più su gli tiene compagnia un secondo e poco oltre un terzo. Successivamente pervengo in un piccolo diedro che, a partire da un imponente tetto, s’innalza sulla destra. Subito dopo, segue uno strapiombo. Ciò che, al di sopra del medesimo, era sembrato dal basso una cengia o un pianerottolo, risulta adesso una rientranza notevolmente esigua. Sarà tuttavia senz’altro più opportuno – penso – cercare un punto di sosta, anziché proseguire ancora nella sdrucciolevole traversata a destra.
L’assicurazione che faccio nel luogo ove attendo il compagno non è proprio quel che si dice buona. Eppure bisogna assumerne la responsabilità, deve bastare. Tutto ciò ha richiesto parecchio tempo. Con una tal rete di chiodi, non si può quasi più parlare, per questa lunghezza di corda, di straordinaria difficoltà. Lothar impiega a percorrerla quindici minuti al massimo, poi mi è accanto. Si prosegue senza indugio. La traversata lo porta in una nicchia piuttosto grossa, piena di un ammasso di blocchi staccati. Superandone lo strapiombo, raggiunge con disinvoltura, in libera arrampicata, per un breve ma ripido gradino della parete, una cornice. La segue verso sinistra, indi si arresta, di nuovo quasi a perpendicolo sopra di me. Ben presto posso partire anch’io.
Quando mi ritrovo accanto all’amico, il nostro compito per oggi è finito. Anzi, non c’è tempo da perdere per allestire il bivacco, poiché l’oscurità non si farà più attendere molto. Gli elementi che ci sorreggono in questa e nelle due successive soste notturne sono i chiodi a espansione. Senza di essi qui non sarebbe possibile far venire su il compagno e assicurare con una certa garanzia: in tal caso proseguire la salita costituirebbe leggerezza da irresponsabili.

Trascorriamo la sera e la notte di nuovo come ieri. Dapprima mi diverto a udire il furibondo strillare, a cui Lothar lascia senza ritegno via libera nella vera lotta per giungere a comprendersi con coloro che stanno ai piedi della parete. Sennonché oggi, a questo proposito, la situazione è leggermente peggiore di ieri. In seguito, per un bel po’ non si ode più nulla all’infuori del nostro tranquillo sorseggiare e schioccare di labbra. Ma poi, alla fin fine, viene anche per Lothar il turno di rallegrarsi, visto che i miei pressoché vani sforzi di entrare nel sacco e nella amaca sono stasera un tantino più pietosi della volta precedente. Benché i chiodi ai quali sono fissate le nostre amache siano a breve distanza l’uno dall’altro – ragione per cui siamo costretti a giacere raggomitolati come embrioni -, nondimeno passiamo un’ottima notte. Persino una breve pioggerella ci disturba ben poco.
Il giorno seguente è il mio turno di riprendere la scalata. Fatta la consueta toeletta mattutina, si parte.
Sopra il nostro bivacco la roccia s’impenna a picco, anzi strapiombante. L’arrampicata è di nuovo essenzialmente artificiale. Ogni metro ha da essere conquistato con estrema difficoltà. Allorché la ripidezza diminuisce un poco, posso fare qualche tratto in libera. Qui la parete è costituita in genere da bella roccia solida. Seguo un canale piano, che non tarda però a drizzarsi nuovamente, sempre di più, finché in alto spinge con uno strapiombo a sinistra. È mezzogiorno, quando dopo questa lunghezza di corda altrettanto difficile quanto divertente raggiungo una buona volta il punto di sosta successivo, formato da piccole placche malferme. Il compagno deve darmi corda sino all’ultimo centimetro disponibile e sacrificare anche parzialmente la propria autoassicurazione, affinché la lunghezza della fune stessa sia sufficiente. Anzi, nel frattempo gli è toccato per di più di issare dal basso un mazzo di chiodi, poiché quassù ce n’erano rimasti di una sola qualità.
Preparato il posto per assicurare, tiro su i nostri due zaini. A dire il vero ce ne siamo portato uno solo, bastante per viveri di emergenza, qualcosa da bere, materiale di pronto soccorso, una lampadina tascabile e i sacchi da bivacco. Il secondo invece è quello con cui Lothar ha issato poc’anzi il necessario assortimento di chiodi. Ora si tratta, per far venire su il compagno, di riordinare ancora in gran fretta corde e bagagli, poi via! Ma ecco che all’improvviso odo un fruscìo. Il bel sacco di Lothar con i sacchi da bivacco e tutto il resto! Scompare silenziosamente nel vuoto, sfrecciando con un sibilo accanto al proprietario. Per parte mia, non gli posso far seguire che un’imprecazione. Dopo circa duecento metri di caduta libera, colpisce brevemente una prima volta il contrafforte sovrastante il salto iniziale della parete; quindi con un gran volo rimbalza per i rimanenti cinquanta metri fin giù sul ghiaione, seminando all’ingiro tutto il suo contenuto, visto che per giunta era ancora aperto. Cosciente del mio fallo, mi aspetto una salva di improperi, questa volta pienamente giustificata. Nulla di tutto ciò. Mi sporgo per appurare se il mio compagno di sventura non sia successo qualcosa di così grave da fargli perdere la parola. Ma quello se ne sta muto nel suo punto di sosta, limitandosi a guardare verso di me sogghignando. È già tanto che aggrotti la fronte. La sua reazione è tutta qui. Ne concludo che Lothar è poi proprio un buon diavolaccio.
Finora non avevo ancora avuto agio, in tutto il giorno, di dare un’occhiata al tempo. Adesso debbo constatare, con non poca preoccupazione, che il cielo s’è fatto non solo nuvoloso, ma addirittura nerissimo. E proprio qui, stupido che sono, ho scaraventato giù i sacchi da bivacco.
Lothar viene su. Questo tratto d’arrampicata è particolarmente divertente anche per lui. Nel frattempo Horst, che oggi insieme con Peter ci osserva dalla cresta sommitale, in considerazione della preoccupante situazione meteorologica, ha preso in gran fretta a scendere per vedere di ricuperare i probabili resti dell’equipaggiamento da pioggia, che ho balordamente fatto precipitare.
Lothar continua a salire. Con breve traversata a sinistra perviene a un altro canale verticale, che lo conduce, tra difficoltà estreme, fin sotto a un poderoso strapiombo. Tuttavia procede con una sveltezza che ha del fantastico. Non è quindi da meravigliarsi se maneggiando con la indispensabile virtuosità il martello, il manico di questo improvvisamente si spezzi. Di conseguenza tira su con il cordino il mio.
Incantato, guardo in alto. Ma non a causa di Lothar: sul suo conto qui in roccia posso, come di consueto, star tranquillo. Il tempo invece… Dovunque giri lo sguardo, vedo grigi sbrendoli di nuvole. Sinistre, compatte striature di pioggia avanzano verso di noi: una è sul Latemar e un’altra la distinguo un po’ più lontano, a sud-ovest. Bolzano è avvolta da una terza, da cui per soprammercato guizzano ininterrottamente lampi a ripetizione. Colpi di tuono susseguentisi a breve intervallo s’infrangono contro le pareti. Il vento soffia da ovest, trasportando fin qui, quale preannuncio, gocce isolate.
Lothar si azzuffa con il suo strapiombo. Adesso ne è al di sopra: immobile, con le gambe divaricate, sembra un ragno. Debbo sporgere il capo molto in fuori per poter osservare la sua silhouette sospesa fra me ed il cielo. Ce l’avrà fatta? Sì, ora lo strapiombo è sotto ai suoi piedi. Prosegue in arrampicata libera. Ma poi d’un tratto la corda riprende a scorrermi tra le mani solo più a centimetri: lassù ha da essere oltremodo difficile. Ciò nonostante avanza imperterrito, incalzato dal maltempo incombente. Gocce sempre più numerose picchiano sulla roccia. Se soltanto avessimo i sacchi da bivacco! Ora il temporale si scatena: fra lampi e tuoni piomba dritto su di noi. La pioggia diventa più fitta. Al diavolo! Sono sul punto di dare la stura a una serie di imprecazioni, non contro il cielo e il mondo intero questa volta, bensì contro me stesso, quando la pioggia cessa di punto in bianco. Che succede? Ah! Il temporale infuria ancora. Tuttavia per oggi preferisce sfogarsi dietro alla nostra Parete Rossa e passa oltre. Abbiamo di nuovo avuto una fortuna sfacciata!
Nel frattempo Lothar è giunto al termine della sua lunghezza di corda e lavora di martello per preparare un luogo di sosta. Per me poi è questione di salire con la massima celerità, poiché la terza sera è ormai alle porte. Mentre in lontananza rumoreggiano ancora temporali, uno a sinistra, l’altro a destra, uno davanti e l’altro dietro, mi arrampico di gran carriera.
Il nostro punto di fermata è costituito da una leggera incavatura completamente liscia, dell’altezza di due uomini, in una pietra che quassù è appunto glabra come lardo e ha la durezza del ferro. Siamo costretti a prepararci il bivacco con lavoro lungo e faticoso, ricorrendo ai chiodi ad espansione. Anche il proseguire oltre da qui sembra maledettamente ostico. I miei pensieri sono a questo punto, quando finalmente, dopo tutte le interminabili manovre serali e la ormai abituale commedia dell’installazione nelle amache, sprofondo nel sonno.

Dobbiamo dir grazie a Horst se durante la notte la pioggia non ci inzuppa nuovamente, e questa volta con maggior larghezza che nel pomeriggio. Infatti i nostri sacchi da bivacco sono ritornati quassù, insieme con un martello di ricambio. Tuttavia fredde raffiche di vento mi svegliano a parecchie riprese. Resto a lungo senza poter dormire, cerco invano una posizione più propizia, ma non la trovo. Per finire mi drizzo in fretta e tiro fuori dallo zaino il maglione, ficcandomelo sotto alla schiena. In tal modo il freddo che spira dal basso ed entra nel sacco da bivacco non è più, per lo meno, così pungente. La notte sembra non voglia aver fine.
Ancora in piena oscurità, dopo poche ore di sonno agitato, i due amici in basso debbono alzarsi ed accingersi per l’ultima volta a preparare la bevanda calda del mattino. Con uno stanco sbadiglio Peter osserva a Horst: «Getta preferibilmente ancora una occhiata lassù in parete, per vedere se sono sempre appesi. Forse stavolta potremo risparmiarci la strada». Ma quelli sono proprio sempre appesi.
Spunta il mattino. Siamo fermamente convinti che è l’ultimo a sorprenderci in parete. Le urla degli amici, destandoci di soprassalto, ci fanno uscire dai caldi involucri e allora subito ci riafferra la realtà della vita. I primi metri della lunghezza di corda iniziale li consideriamo come l’ultima grande difficoltà. Lothar è propenso a passare sulla sinistra, io invece vorrei salire sulla destra, che mi par avere un aspetto più semplice. Alla fine la parola decisiva è ai due amici sulla cresta, da cui possono vedere e giudicare meglio la parete. A sinistra, dunque! In seguito dovrò pur constatare che effettivamente Lothar, durante la puntata esplorativa di domenica, ha stabilito un progetto di itinerario degno della massima fiducia.
Il primo tratto oggi non vuol riuscirmi facile. La stanchezza pesa ancora sugli occhi, le articolazioni sono rigide. Qualche chiodo penetra nella roccia panciuta. Così mi sveglio a dovere, salendo infine, meglio di quanto non pensassi, obliquamente a sinistra, in modo da raggiungere una zona superabile in arrampicata libera. Sempre seguendo la stessa direzione m’inerpico su per un piatto diedro. Per superarne lo strapiombo, mi assicuro con un laccio di corda. Al di sopra, con una spaccata mi trasferisco su una stretta ed erta rampa che sale obliquamente. Alt.
Non passa molto che il compagno è presso di me e già prosegue oltre. Prima però qualcosa che non avevo ancora mai visto in questi luoghi, incatena i nostri sguardi attoniti. Sotto di noi, un’aquila sta planando con battiti d’ala poderosi. Questa volta persino Lothar, quando richiamo la sua attenzione sul rapace, non smania più contro la «stupida cornacchia». Ben presto il possente uccello scompare dietro alla parete della Roda del Diavolo. L’ascensione continua. Il salto di parete successivo viene superato in arrampicata libera. Qui il problema principale è quello di infilarsi in un canale. Ma dopo breve riflessione Lothar ne ha vinto l’attacco e poco più su traversa leggermente a destra per raggiungere l’unica cengia abbastanza larga dell’intera parete. Ancora una lunghezza di corda e poi saremo sulla cresta sommitale! Qui per la prima volta possiamo di nuovo sederci comodamente, con roccia pianeggiante sotto i piedi. Dall’alto gli amici ci calano il libro della parete.

Sulla prima pagina del volume si leggono poche amichevoli parole scritte da Erich Abram in nome dei suoi camerati alpinisti, e vicino è apposto il timbro della Sezione di Bolzano del Club Alpino dell’Alto Adige. «Via in memoria di Hermann Buhl» abbiamo scritto sopra un’immagine di lui recante le due date: 21-IX-1924 e 27-VI-1957. Inoltre vi sono riportate alcune frasi salienti del suo libro «Sopra e sotto gli ottomila». Per il resto, abbiamo trovato che una strofa di una delle nostre canzoni di montagna sassoni si addiceva qui in modo particolare e alla fine l’abbiamo aggiunta:
O tu montagna, montagna mia,
Sono tuo per sempre!
Abbi in eredità questo mio giuramento,
Il giorno che io muoia:
Fosti sempre la mia patria!
Adesso, con la scarna annotazione della via, possiamo mettere il punto finale. Abbiamo la lieta consapevolezza che il nostro percorso sulla Parete Rossa costituisce veramente una degna via per ricordare il nome di Hermann Buhl.
Resta però ancora da vincere l’ultimissimo salto della parete. Lothar ha già portato a termine le sue sei lunghezze di corda – che sono il compito assegnato a ciascuno di noi. Così tocca ancora a me. Dapprima si sale agevolmente in libera da destra a sinistra, fin sotto a uno strapiombo. Mi assicuro con un anello. Subito sopra però la cosa si complica parecchio. Qui la roccia è così friabile quale mai l’abbiamo trovata sinora lungo l’intero percorso. I chiodi che vi si piantano sono tutt’altro che sicuri. Solo con la massima cautela mi azzardo a caricarli del mio peso. Fra le mani scorre sabbia. Tutto ciò che ha l’apparenza di un appiglio o di un appoggio si direbbe attaccato solo con la pappetta. La minima sollecitazione lo sfalda. Pieno di angosciosa inquietudine osservo come il chiodo, sotto il mio peso, si pieghi di nuovo in misura preoccupante. Ma neppure su tutti i precedenti c’è da fare grande assegnamento. Come continuare? Non una possibilità di conficcare altri chiodi, non parliamo poi di uno buono. Qualche passaggio in libera, estremamente azzardato. Ma ecco che, bene o male, con poche martellate, un cuneo di legno si lascia incastrare in una crepa. I piedi, poggianti su staffe, remano l’aria. Tutto sommato, un ammasso di sabbia ultravertiginoso.

Quando finalmente, su terreno più consistente, posso di nuovo conficcare nella pietra un chiodo fino all’anello, tanto per rincarare la dose, il martello mi si spezza. Adesso occorre issare quello nuovo di Lothar. Poco oltre la roccia si presenta all’improvviso come una compatta lastra marmorizzata: vi si perviene direttamente superando in verticale uno strapiombo. Quali contrasti e come vicini gli uni agli altri! Poc’anzi ancora un salto di gobbe rotonde, sbriciolantisi; adesso di nuovo marmo duro come metallo, dagli spigoli taglienti. Ma ben presto, malgrado lunghi e penosi sforzi, non si può assolutamente piantare più nessun chiodo nella repulsiva dolomia. Ancora quattro, cinque metri, poi l’ultimo importante baluardo sarebbe liquidato! Non si passa. Pieno di stizza – siamo proprio sotto alla cresta sommitale -, sono costretto a riprendere in mano il trapano. Poco oltre, ove per l’ultima volta sul nostro percorso alza la cresta un insolente strapiombo, pianto un secondo chiodo a espansione. La fessura terminale viene raggiunta in libera. Per uscire, traverso lastroni frammisti a terra e notevolmente disgregati, trasferendomi così da quello che sino a poco fa era stato il regno del verticale, sull’orizzontale dell’ultimo tratto di cresta, dietro al quale si estende, salendo al punto massimo di elevazione, il prato costituente la cima.
Chi avrebbe mai supposto che questo per l’appunto sarebbe stato uno dei nostri tratti più impegnativi? La parete ha ancora mostrato i denti più che poteva. Ma non gliene vogliamo per questo.
Dinanzi mi stanno, al colmo della gioia, gli amici e con essi buon numero di altri camerati di montagna. Le strette di mano non finiscono più. Avevamo creduto che saremmo stati soli con noi stessi, senza quasi partecipazione di altri. Ora imparo che le cose stanno diversamente.
Ancora una volta si tira su con il cordino il nostro sacco. Poi è il turno di Lothar: in breve sbuca sul bordo della vetta. Siamo in punta.
La parete sud-ovest della Roda di Vael è stata scalata per la prima volta.
Uno degli amici di montagna altoatesini ha portato una bottiglia di champagne. Per di più, non ha nemmeno dimenticato la neve perché sia convenientemente diaccio: l’ha presa dal nevaio al Passo di Vaiolon. Il tappo, con uno schiocco, descrive un ampio cerchio, volando oltre la cresta, e scompare in quel vuoto stesso donde or non è molto siamo emersi noi. Sappiamo che sino al fondo non toccherà neppure una sola volta la roccia, cadendo sul ghiaione molto in là, ad oltre una dozzina di metri dalla base della parete.
Per quattro giorni abbiamo avuto d’attorno null’altro che roccia perpendicolare, strapiombi e tetti sporgenti. Ora abbiamo toccato la meta. Ne siamo felici; eppure quasi quasi, siamo come disincantati. Certo, ci troviamo in una delle più belle zone alpine. Il tempo è superbo e il panorama una cannonata! Come si erge limpida la Pala! E tuttavia, di colpo, i miei sentimenti sono pressoché quelli soliti di ogni giorno. Qui dominano nuovamente dimensioni normali.
Ancor poco fa non vedevo l’ora di uscire dalla parete. Adesso, d’un tratto, mi riesce penoso l’essermene liberato. È finita, la grande avventura. L’abituale tran tran quotidiano sta per afferrarci di nuovo. Ben presto, troppo presto, ci riavrà in suo potere. E se ci avesse già?
Sediamo sul prato che forma la vetta, sull’erba duramente martoriata dal vento e dalle intemperie. Non sono completamente qui col pensiero. Uomini e volti si precipitano verso di noi. Ma sì, ci sono tutti compagni, non importa se li conosciamo o no. Apparteniamo loro. Forse adesso si rallegrano più di noi stessi per questa impresa. E perché poi? Non abbiamo buoni motivi per essere più lieti e felici degli altri? Benissimo. Lo siamo anche. Ma la piena dei sentimenti, la fede nella nostra parete, l’incondizionatezza dell’impresa, il peso morale durante gli ultimi giorni, poi il progressivo impercettibile decrescere della tensione interiore ad ogni metro guadagnato… tutto ciò vive ancora in noi. Siamo troppo sconvolti dentro perché, senza tante cerimonie, una sensazione sola possa cancellare la somma di tutte le altre. Dobbiamo per prima cosa ritrovare il vecchio familiare rapporto con la normalità. E tuttavia da quel vasto mondo silenzioso ci siamo portati qualcosa di prezioso: la risonanza di quattro giorni stupendi, anche se duri. Ne rimarrà in noi un ricordo luminoso. È davvero valsa la pena!
Lo champagne spumeggia. Tutti insieme brindiamo sulla vetta al nostro comune successo. È stata una vittoria del cameratismo. Grazie a voi, amici, che ci avete così generosamente aiutati. Solo per merito vostro si è potuta tracciare su questa parete la via dedicata a Hermann Buhl!

Relazione tecnica (originale)
Parete Rossa della Roda di Vael 2806 m, 1a ascensione: Lothar Brandler e Dietrich Hasse, 9-12 settembre 1958.
L’attacco avviene a destra, a sud della verticale calata dalla vetta (attenzione: il ben marcato diedro situato esattamente lungo detta verticale è munito, nel tratto inferiore, di molti chiodi e cunei di legno; questi però non vanno oltre un gran tetto, a un quarto dell’altezza della parete. Anello per corda doppia) (E’ la futura via Maestri-Baldessari, NdR).
A destra del suddetto diedro si trova un contrafforte nerastro, alto 60 m; lo si supera sul lato destro, meridionale, ove è delimitato da un camino (passaggio di III). Indi dal contrafforte si passa in spaccata sulla parete principale, sulla quale ci si arrampica in una sottile fessura, alta 6-7 m (un passaggio di A3, passaggi da superare in arrampicata libera nel tratto intermedio e finale, VI), raggiungendo un pessimo punto di sosta. Si prosegue per roccia inclinata e ben stratificata, senza difficoltà, per 35 metri, salendo obliquamente a destra sino a un chiodo. Sempre tenendosi sulla destra, si continua in arrampicata libera (2 chiodi) per 30 metri su roccia solida, provvista di piccoli appigli, pervenendo a un pessimo punto di sosta (VI). Quindi si procede diritto su per la fessura successiva, alta 90 m, che strapiomba leggermente (numerosi passaggi di V) e dopo 20 metri si allarga. Si continua con piacevole arrampicata; dopo 15 metri, posto di sosta con chiodo, in un punto ove la continuità della roccia presenta un’interruzione. Altri 20 m, di nuovo in arrampicata libera, e si giunge a un buon terrazzino; la larga fessura diventa qui molto ostica. Si sale con grande sforzo per altri 8 m circa nella fessura (nessuna possibilità di piantare chiodi, VI); quindi ancor oltre, sfruttando chiodi in parte poco sicuri e vincendo uno strapiombo (VI), sopra il quale ci si può fermare.
A questo punto la fessura si perde in mezzo a strapiombi. Ora segue una scala di chiodi, estendentesi per 3 lunghezze e mezzo di corda, e che non presenta quasi interruzioni (i chiodi sono pressoché tutti assolutamente sicuri). Essa conduce dapprima, strapiombando, per 20 m obliquamente a destra sino a un piccolo diedro. In tale diedro, salendo 2 m, si perviene a un punto di sosta, costituito da uno stretto terrazzino di roccia friabile (a destra del quale, a 4 m di distanza, trovasi una buona possibilità di bivacco in una nicchia piena di blocchi, chiaramente individuabile già dal circo sottostante). Quindi si sale dritto per 60 metri (dopo 10 m c’è un buon punto di sosta, oppure verso la metà una staffa su cui sedersi), pervenendo su un terrazzino simile al precedente, oltre al quale ci si sposta di qualche metro a sinistra (le due lunghezze di corda successive si percorrono salendo obliquamente a sinistra e costeggiando lo spigolo superiore della gigantesca parete strapiombante). Si continua per una fessura friabile e un piccolo strapiombo, dopo il quale è preferibile far venir su il secondo. Successivamente una liscia placca conduce a un punto ove un chiodo a espansione permette di sostare in una specie di nicchia poco profonda. Ancora alcuni metri di arrampicata obliqua a sinistra (VI) e su roccia meno difficile (IV) si perviene a un punto di sosta. Da qui si procede dapprima diritto per 15 m, su rocce inclinate e friabili, sino a un chiodo, poi si traversa a destra (IV), ove il terreno facendosi piano forma una larga cengia. 30 metri sopra di questa, si trova il libro della parete. Quindi spostandosi alquanto a destra si superano i 45 m di parete finale lungo una rampa, quindi sfruttando chiodi in parte poco sicuri (V) e infine per un fessura molto friabile, alta 10 m (V), che porta alla vetta.

Dietrich Hasse
Studioso di geologia, poi di geografia, biologia e politica, Hasse (Dresda, 24 marzo 1933) inizia nel 1950 la lunga serie delle sue prime, con vie importantissime nell’Elbsandsteingebirge, la palestra vicino a Dresda; nel 1956 apre una variante diretta di uscita alla via Carlesso sulla Sud della Torre Trieste, con Peter Grundherr. Del 1958sonole due splendide affermazioni che lo qualificano uno dei migliori rocciatori tedeschi con Lothar Brandler sulla Cima Grande di Lavaredo e sulla Roda di Vael. Nel 1959, con Sepp Schrott apre due bellissime vie, una sulla parete sud della Torre Innerkofler (Sassolungo), l’altra sulla parete nord-ovest della Torre Delago (Vajolet), un magnifico itinerario di 700 metri. Siamo nel pieno sviluppo di quel sesto grado da lui iniziato sulla Cima Grande di Lavaredo, in cui è valido il chiodo a pressione in quantità minime per il superamento di brevi tratti altrimenti invincibili. La serie continua nel 1966, sulla Cima d’Ambiez, parete est, con Heinz Steinkötter e Claudio Barbier (parete vinta a più riprese, con corde fisse) e sul Grande Lagazuoi, diedro ovest con Barbier. Nelle Dolomiti d’Oltrepiave ha salito con Gerhard Leukroth la parete nord del Col Nudo nel 1968. Nel 1972 con Steinkötter sale tre nuove vie nel Gruppo di Brenta: parete sud della Torre Sud della Cima Bassa d’Ambiez, diretta sud-est della Cima d’Àgola e diretta est della Punta dell’Ideale. Fuori delle Alpi: nel 1960 sale il Band-e-Koh 6843 m, nell’Hindukush centrale, con una spedizione berlinese. Ancora con i berlinesi, nel 1969 compie l’ascensione della cresta sud dell’Illiampu nelle Ande Boliviane. Nel gennaio 1972 con Hermann Huber realizza, nel gruppo dell’Hoggar (Algeria), la salita del Tezouiag Sud 2709 m. Numerosissimi sono i suoi scritti di montagna, soprattutto quelli sul problema della sicurezza.