Montagna magica – 02

l sito Montagnamagica.com, associato al portale Sherpa, è in dismissione. Nella sua vita di otto anni (dal 2016) ha pubblicato più di una cinquantina di post sull’alpinismo, in genere extraeuropeo. Abbiamo deciso di riprenderne i migliori, in cinque puntate. Tutti gli articoli, a parte quelli diversamente attribuiti, sono di Federico Bernardi.

Latok I, The (Un)Finished Business
(pubblicato il 14 agosto 2018)

“The unfinished business of last generation”, così Jeff Lowe, autore del primo storico tentativo di 100 tiri, su 103 previsti più o meno, definisce la cresta nord del Latok I. Avevano superato le difficoltà maggiori ma brutto tempo e le condizioni di salute dello stesso Jeff Lowe, costrinsero i quattro grandi alpinisti americani al rientro. Uno dei più grandiosi fallimenti in stile alpino, che ha ispirato generazioni di alpinisti di tutto il mondo a riprovarci, senza mai avvicinarsi non alla vetta ma nemmeno ai 7000 su 7145 m del 1978.

Jeff Lowe, George Lowe, Michael Kennedy sul Latok 1, 1978. Foto: Jim Donini.

Le prime anticipazioni della clamorosa salita di un trio anglo-sloveno, composto da Aleš Česen, Luka Stražar e Tom Livingstone, parlano di una variante che ha evitato la parte finale della cresta; quale sia la via scelta, questa impresa è comunque storica, stupefacente. E’ la seconda assoluta al Latok I.

Basti dire che per Tom Livingstone era la prima grande spedizione, anche se il giovane 27enne gallese ha nel suo carnet un’invernale allo Sperone Walker, numerose difficili invernali in Scozia e una spedizione in Alaska. Di Aleš Česen, 36 anni, che dire? Un fuoriclasse capace di scalare tutto in Yosemite, in Himalaya, in Karakorum (il GIV); Luka Stražar, a 22 anni nel 2011 una prima sul K7 e molto altro.

È con una certa emozione, dunque, che aspettiamo di vedere la partitura scelta in quest’opera compiuta in una settimana dal giovane trio che, anche se non chiude l’unfinished business, renderà Jeff Lowe molto contento: anche per il salvataggio del russo Gukov che su Facebook lo stesso Lowe ha seguito e commentato con apprensione. E’ a lui, a George Lowe, a Jim Donini, a Michael Kennedy, che va il tributo riconoscente e ammirato per un’ispirazione durata 40 anni.

“… ma il nostro pensiero speciale va al giovane alpinista russo Sergey Glazunov, morto recentemente mentre scendeva in doppia, dopo un tentativo con Alexander Gukov, quest’ultimo salvato dopo una terribile settimana in parete da piloti pakistani militari…”.

Secondo le testimonianze di Alexander Gukov, che ha dimostrato un’onestà sincera, Sergey è uscito dalla parete raggiungendo l’anticima del Latok I, appena 50 metri sotto; Sergey era convinto fosse la cima, ma Alexander, secondo di cordata, dalla sua prospettiva si è accorto che la cima vera era poco più distante. Detto questo, capiamo come i russi abbiano quasi sicuramente superato il limite raggiunto dagli americani nel 1978 e percorso integralmente la cresta nord.

Purtroppo, sappiamo cosa è successo in seguito.

Salvataggio in longline di Alexander Gukov sul Latok I. Foto: Askari Aviation.

Anna Piunova, redattrice in capo del prestigioso sito russo mountain.ru, instancabile organizzatrice e punto focale anche per i soccorsi all’alpinista russo bloccato a 6200 metri, ha ricevuto il seguente SMS da Aleš Česen:

Abbiamo seguito la cresta nord per due terzi, poi ci siamo spostati a destra, salendo il colle tra il Latok I e II, infine abbiamo continuato sulla parete sud fino alla cima. Per noi, era la linea più logica e sicura in quella situazione. Ci abbiamo messo sette giorni, tra scalata e discesa”.

Nei prossimi giorni sapremo di più sulla seconda salita assoluta del Latok I da Cesen & Co., avremo maggiori dettagli sulla salita di Gukov e non dimentichiamo che alla base della montagna pakistana dovrebbe esserci un certo Thomas Huber…

Latok I (e II, sulla destra dietro alla cresta Nord del Latok I). Foto: blackdiamondequipment credit.

Le vie sui Latok
In una documentata ricerca di Stefano Lovison su alpinesketches pubblicata nel 2014, che riprende a sua volta uno splendido articolo di Montagne360 di Carlo Caccia, troviamo una cronologia dei tentativi al Latok I, per la maggior parte sulla inviolata cresta nord (cit), che riportiamo, integrandola con i tentativi salienti, dal 2015 fino ad oggi. Prima, ringraziando ancora Stefano Lovison, riprendiamo la sua bella mappa fotografica, con indicazione di alcune vie e vari tentativi, aggiungendo le probabili linee delle due spedizioni recenti, la russa e la anglo-slovena di questo agosto 2018:

1. Jim Donini, Michael Kennedy, Jeff Lowe e George Lowe, 1978;
2. Cresta nord-ovest del Latok II, Álvaro Novellón e Óscar Pérez, 2009;
3. Tentativo di Josh Wharton, Colin Haley e Dylan Johnson, 2009; Giri-Giri boys, 2010;
4. Tentativo di Fumitaka Ichimura, Yusuke Sato e Katsutaka Jumbo Yokoyama, 2010; Maxime Turgeon e Louis-Philippe Menard avevano tentato la linea nel 2006 fermandosi a circa 5300 metri;
a. linee in progetto di Josh Warthon;
b. progetto della spedizione russa 2012.
In rosso, Glazunov/Gukov, luglio2018; in azzurro, Česen/Livingstone/Stražar, agosto 2018 (presunte e stimate). Foto: Josh Warthon.

Luglio-settembre 1975
Un team giapponese guidato da Makoto Hara circumnaviga il gruppo dei Latok via Biafo, Simgang, Choktoi, Panmah e ghiacciai Baltoro. Valanghe e frane impediscono qualsiasi tentativo significativo.

Luglio-agosto 1976
Un team giapponese guidato da Yoshifumi Itatani tenta il couloir tra i Látok I e III (Latok Est), raggiungendo circa 5700 m prima di tornare indietro di fronte alla caduta di seracchi.

Agosto-settembre 1977
Un team italiano guidato da Arturo Bergamaschi esplora il percorso tentato dai giapponesi nel 1976 ma decide che è troppo pericoloso. Fanno la prima salita della Latok II dal ghiacciaio Baintha Lukpar.

Giugno-luglio 1978
Gli americani Jim Donini, Michael Kennedy, Jeff Lowe e George Lowe tentano la lunghissima cresta nord, impiegando 26 giorni in capsula-style. Raggiungono in punto più alto a circa 7000 m.

Giugno-luglio, 1979
Un team giapponese guidato da Naoki Takada compie la prima (e finora unica) salita del Latok I attraverso la parete sud. Dopo un lungo assedio e con l’impiego di molte corde fisse e tre campi a sinistra del canalone tra Latok I e III, sei alpinisti raggiungono la cima.

Luglio 1982
I britannici Martin Boysen, Choe Brooks, Rab Carrington e John Yates tentano la cresta nord due volte, la seconda fino ad un punto a circa 5800 m.

Luglio 1986
I norvegesi Olav Basen, Fred Husøy, Magnar Osnes e Oyvind Vlada tentano la cresta nord, fissando almeno 600 metri di corde fisse e raggiungendo i 6400 m dopo 18 giorni di scalata. Passano altri 10 giorni tra bufera e neve pesante prima di arrendersi.

Luglio-agosto 1987
I francesi Roger Laot, Remy Martin e Laurent Terray installano corde fisse sui primi 600 metri della cresta nord. Per una forte nevicata tornano indietro da un’altezza di circa 6000 m.

Giugno 1990
I britannici Sandy Allan, Rick Allen, Doug Scott e Simon Yates e l’austriaco Robert Schauer compiono una serie di ascensioni nella zona ma non tentano quello che è il loro obiettivo primario a causa di condizioni difficili e pericolose e per la molta neve sulla cresta nord del Latok I.

Luglio-agosto 1992
Jeff Lowe e Catherine Destivelle tentano la cresta nord, incontrando enormi funghi di neve sul percorso. Carol McDermott (Nuova Zelanda) e Andy McFarland, Andy MacNae e Dave Wills (Gran Bretagna) raggiungono circa i 5900 m sulla cresta durante due tentativi nella stessa spedizione.

Luglio-agosto 1993
Gli americani Julie Brugger, Andy DeKlerk, Colin Grissom e Kitty Calhoun tentano la cresta nord, tornando da circa 5500 m a causa del brutto tempo.

Agosto-settembre 1994
Gli alpinisti britannici Brendan Murphy e Wills Dave tentano la cresta nord raggiungendo i 5600 m al loro secondo tentativo.

Luglio-agosto 1996
Murphy e Wills ritornano sulla cresta nord, raggiungendo circa 6100 m prima del ritiro a causa della perdita di uno zaino. Due tentativi successivi sono ostacolati a 5900 m dal cattivo tempo.

Agosto 1997/1998
Gli americani John Bouchard e Mark Richey tentano la cresta per tre volte, l’ultima con Tom Nonis e Barry Rugo, raggiungendo il punto più alto a 6100 m. A differenza delle precedenti spedizioni, riscontrano temperature elevate e condizioni di asciutto che portano alla caduta di rocce dalla parte alta della parete.
Seguendo un pilastro di roccia dal fondo della parete, trovano una linea superba con difficoltà fino al 5.10. Torneranno l’anno successivo sulla North Ridge per un altro infruttuoso tentativo a causa del maltempo.

Agosto 2001
Wojciech Kurtyka (Polonia) e Yasushi e Taeko Yamanoi (Giappone) hanno un permesso per la cresta nord ma non riescono ad attaccare a causa di avverse condizioni meteorologiche.
Stein Gravdal, Halvor Hagen, Ole Haltvik e Trym Saeland (Norvegia) raggiungono circa 6250 m dopo 15 giorni sulla via.

2004/2005/2006
I fratelli Benegas (Argentina) tentano la cresta nord per tre anni di fila. I primi due anni avversati dal cattivo tempo nonostante le ottime condizioni della montagna.
Nell’agosto del 2006 una forte tempesta li ferma a circa 5500 m.

Agosto 2006
Maxime Turgeon e Louis-Philippe Menard (Canada) tentano la futuristica parete nord, ritirandosi da 5300 m. a causa del gran caldo e delle condizioni estremamente pericolose della parete. Rivolgono quindi la loro attenzione sulla cresta nord ma si ritirano per la troppa neve fresca.

2007
Tentativo degli americani Bean Bower e Josh Wharton

Luglio 2008
Secondo tentativo di Wharton e Bowers che tentano la cresta ma sono avversati dal maltempo. Due soli giorni di bel tempo non permettono che il raggiungimento di 5500 m di quota prima del ritiro.

Luglio 2009
Josh Wharton, Colin Haley e Dylan Johnson sono respinti dalla cresta nord del Latok I dopo aver bivaccato a quota 5830 m.

Luglio-agosto 2009
Álvaro Novellón e Óscar Pérez tentano la cresta raggiungendo circa i 5800 m per le pessime condizioni della neve.
Decidono quindi di cambiare obiettivo focalizzandosi sul Latok II 7108 m dove riusciranno nella prima salita completa della cresta nord-ovest. Questa notevole scalata purtroppo finirà in tragedia, quando per una caduta durante la discesa rimane gravemente ferito Pérez. Nell’impossibilità di trasportare il compagno, Novellón scende da solo per chiedere aiuto, creando una grande mobilitazione internazionale di salvataggio.
Immobilizzato a 6500 metri sulla cresta nord-ovest del Latok II con una gamba e una mano fratturate, abbandonato alla sua sorte, per Óscar Pérez non fu più possibile alcun soccorso.

Luglio 2010
I Giri-Giri Boys Fumitaka Ichimura, Yusuke Sato e Katsutaka Jumbo Yokoyama si ritirano dalla cresta nord a circa 5900 metri per le condizioni di neve molto pericolose. Prima di questo tentativo la squadra aveva provato l’impressionante parete nord raggiungendo un’altezza di circa 5900 metri.

Giugno-luglio 2011
Ermanno Salvaterra, Andrea Sarchi, Cesare Cege Ravaschietto, Marco Majori e Bruno Mottini, dopo aver passato 6 giorni in parete e aver raggiunto quota 5300 metri circa sono costretti al ritiro per il maltempo e pericolo di valanghe.

Luglio-agosto 2012
Tentativo dei russi Oleg Koltunov, Vyacheslav Ivanov, Shaman Valera e Ruslan Kirichenko.

2015
Thomas Huber rinuncia al tentativo per condizioni impossibili della parete.

Agosto 2016
Thomas Huber al Latok I con Toni Gutsch, Sebi Brutscher, Max Reichel e gli statunitensi Jim Donini, George Lowe e Thom Engelbach. George e Jim, reduci del 1978, assieme a Thom per una scalata commemorativa in un 6000 della zona. Il dramma sull’Ogre II e la scomparsa dei fortissimi Adamson e Webster, spingono Thomas Huber a prendere parte a un tentativo di salvataggio, con salita della cresta a 6200 m sull’Ogre II, dopo le infruttuose ricerche in elicottero. Il team, nonostante Huber volesse fare un tentativo, decide di non affrontare la cresta del Latok I per le condizioni della parete, oltre al segno lasciato dal dramma sull’Ogre II.

Luglio-agosto 2018
Tentativo dei russi Alexander Gukov e Sergey Glazunov. Sergey Glazunov guida da primo l’ultimo tiro su una torre in uscita dalla cresta nord, convinto di essere in cima. Al rientro, Glazunov muore per caduta e Gukov rimane bloccato per giorni a 6200 metri, prima del salvataggio in extremis, compiuto dai coraggiosi piloti dell’Askari Aviation militare, tramite longline. Proprio in questi giorni Gukov, dall’ospedale, testimonia che secondo lui hanno scalato tutta la cresta ma che la torre era circa 50 metri più in basso della vera cima. Analizzando la topologia, se verrà confermata questa versione, la cresta nord è stata integralmente scalata. Il team anglo-sloveno composto da Česen, Livingstone e Stražar, compie una salita della cresta nord “per due terzi, poi traversando sul colle tra Latok I e II, transitando sulla Sud per arrivare in cima… la linea più sicura e logica per noi…”. Insomma, una variante della via del 1978 con probabili innesti su vie già percorse, parzialmente, ma comunque seconda assoluta del Latok I. Thomas Huber è in arrivo sulla montagna, al momento in cui scriviamo: vuole effettuare un tentativo dopo la consueta stagione, convinto che il riscaldamento globale possa aver posticipato i tempi proficui per un tentativo alla cresta nord. Non sappiamo se ha cambiato idea…
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Rockandice intervista Tom Livingstone sul Latok I
(pubblicato il 23 agosto 2018)

Traduciamo questa importante e controversa intervista, rilasciata da Tom Livingstone a RockandIce e pubblicata il 21 agosto 2018. Ringraziamo per la disponibilità Michael Levy, Associate Editor della prestigiosa testata statunitense.

Tom Livingstone, insieme agli alpinisti sloveni Aleš Česen e Luka Stražar, ha effettuato la seconda ascesa confermata di Latok I, e la prima salita in assoluto confermata dal nord. C’è la possibilità che la cordata russa di Alexander Gukov e Sergey Glazunov abbia raggiunto la vetta attraverso la cresta nord, anche se Gukov crede di aver completato la cresta nord ma ritiene di non aver raggiunto la vera cima. La squadra anglo-slovena ha scalato tre quarti della famigerata cresta, prima di traversare verso il colle tra Latok I e II e finire la loro nuova via verso la cima sul versante sud.
Rock and Ice ha raggiunto Livingstone tramite WhatsApp ed e-mail: il giovane britannico ha espresso alcune suggestive intuizioni sul Latok I, la loro scalata e la sfortunata spedizione di Alexander Gukov e Sergey Glazunov.

Da sinistra, Luka Stražar, Tom Livingstone e Aleš Česen. Foto: Tom Livingstone.

Congratulazioni per la scalata! Puoi raccontarci dei piani che avevate, rispetto alla spedizione [sul Latok, ndT]?
Entriamo sempre in questi progetti con una mente aperta, ma certamente l’obiettivo principale era scalare Latok I dal lato nord, dal ghiacciaio Choktoi. Il secondo obiettivo era scalarlo nel migliore stile percorrendo tutta, o una parte della Cresta Nord. Volevamo fare un’ascensione pulita in stile alpino, in sette giorni o meno.

Eravate già al Campo Base quando è avvenuto il salvataggio di Gukov?
Sì, eravamo al Base quando è successo. Quando siamo arrivati, il 13 luglio 2018, una squadra russa di due aveva cominciato l’attacco alla parete la notte prima. Un’altra squadra russa, composta da tre alpinisti, ha cominciato la notte dopo. Sebbene abbiamo cercato di ignorare i russi e di non essere messi sotto pressione dalle altre squadre sul nostro obiettivo, era impossibile non provare un po’ di rivalità amichevole. Quando il team in duo ha vissuto la sua tragica epopea (Sergey è morto, e Alexander è rimasto bloccato in parete), abbiamo offerto tutta la nostra assistenza per aiutare loro, e appoggio ai tre russi che erano a campo base.

La morte di Sergey e il successivo salvataggio di Alexander hanno rafforzato in noi l’evidenza dei pericoli di spingersi troppo lontano su un percorso del genere. La cresta nord superiore è complessa, ad alta quota, e inevitabilmente hai scalato moltissimo e per molti giorni, per arrivarci.
Il processo decisionale non è facile, specialmente con la parte finale e sommitale. Il tempo peggiora inevitabilmente, dopo tanto tempo trascorso a quell’altitudine: le finestre di opportunità sono generalmente piccole nel Karakorum. Sono comunque sicuro che l’intera cresta nord può essere ancora scalata.

Voglio fare le mie condoglianze alla famiglia di Sergey, e augurare ad Alexander una rapida guarigione.
Tuttavia sono molto critico nei confronti delle azioni e delle parole di Alexander. Anche se ho cercato di zittirmi, sento che è importante per me parlarne.

Alexander ha avuto un’avventura epica sulla cresta nord già l’anno scorso. Ha trascorso 15 giorni sulla montagna, e i suoi due partner hanno sofferto pesantemente. Uno ha perso un paio di dita dei piedi, l’altro tutte le dita dei suoi piedi e alcune parti delle dita della mano. Il commento finale di Alexander, in un rapporto, recitava: “Sono fiducioso di avere una buona possibilità la prossima volta”. Questo ci ha fatto arrabbiare (a me e ai miei amici sloveni). Sembrava non curarsi dell’ordalia e del pericolo che aveva appena attraversato. Uno dei suoi amici [russi, NdT] al Campo Base, quest’anno, ci ha detto: “Non è capace di capire quando ritirarsi”. Ha anche rafforzato le voci sullo “stile russo”, cioè il successo a tutti i costi, qualunque sia il prezzo.

Quando Alexander e Sergey stavano scalando quest’anno e si trovavano in alto sulla montagna, hanno ripetutamente affermato che stavano facendo ambiziosi e irrealistici “tentativi di vetta”. Erano molto al di sotto della vetta (a circa 6800 m), e nonostante i tentativi nei giorni precedenti, hanno di nuovo e ancora (per forse tre giorni di fila) spinto per la cima. Li abbiamo osservati attraverso il binocolo al campo base, ed eravamo nervosi per il loro atteggiamento, così rischioso.

Il loro ritmo rispetto ai nove giorni precedenti era incredibilmente lento. Era improbabile che il loro ritmo fosse migliorato sensibilmente durante i tentativi alla vetta, e stavano scalando distanze molto ridotte, ogni giorno di più. E’ arrivato maltempo, in alta quota, ed erano molto stanchi, dopo molti giorni, senza molto cibo.
La loro perseveranza è stata impressionante, ma crediamo che avrebbero dovuto ritirarsi qualche giorno prima.
Infatti, quando è comparso il maltempo, hanno comunque fatto un tentativo di vetta.
Abbiamo scosso la testa e abbiamo pensato che si stessero spingendo troppo lontano, a un’altitudine troppo alta, per troppo tempo.
Pensavamo che avrebbero avuto una discesa da ordalia.
Persino i loro amici russi al Campo base erano preoccupati e fecero organizzare il volo di un elicottero per controllare le loro condizioni e tentare di lanciare rifornimenti.

Poco dopo, Sergey è caduto ed è morto. Sei giorni dopo, Alexander soccorso in elicottero.
Penso che questo fosse il suo diciottesimo giorno in parete. Quando è stato portato sul ghiacciaio, Aleš ha detto: “Non ho mai visto nessuno così vicino alla morte, ma ancora vivo”.

Sono orgoglioso della nostra ascesa al Latok I. Aleš, Luka e io siamo saliti in pieno controllo mentale. Abbiamo preso decisioni strategiche e sensate. Eravamo indipendenti. Abbiamo scelto la linea più semplice. Siamo tornati sani e salvi dopo sette giorni. Non abbiamo perso le dita delle mani o dei piedi. L’alpinismo è un gioco pericoloso. Se non torni a casa in sicurezza, perdi. Se le dita dei piedi vengono amputate a causa del congelamento, perdi. Certo, era impossibile non essere toccati dal dramma russo.
Ma quando abbiamo discusso delle nostre motivazioni una volta conclusa l’intera epopea, abbiamo deciso di continuare con il nostro piano: scalare il Latok I lungo la nostra linea, che era quella che avevamo sempre immaginato.

Puoi parlarci un po’ della scalata della tua squadra?
L’itinerario stesso era di difficoltà moderata per l’arrampicata. E ‘stato divertente e siamo rimasti molto contenti di quanto velocemente siamo passati attraverso tutto. Eravamo in simul-climbing e procedevamo velocemente.
C’erano naturalmente le solite parti di ripido ghiaccio marcio e non tante protezioni, ma c’è da aspettarselo su una via alpinistica. Altrimenti, generalmente, siamo passati su difficoltà moderate.
Dal ​​campo base alla cima e ritorno in sette giorni. Cinque su, due giù. Abbiamo ripetuto il percorso di salita, scendendo.

La discesa è stata semplice o c’è stato qualche intoppo?
Da sempre è la parte dell’arrampicata che mi piace meno. Quindi siamo stati abbastanza strategici durante la salita. Sono piuttosto contento di come siamo saliti al momento giusto e riposati quando non c’erano condizioni sicure.
Quindi, ad esempio, siamo scesi durante la notte, perché le condizioni erano più sicure, tutto era congelato. Poi siamo passati dalla cresta Nord, a un’altezza di circa tre quarti, fino al colle.
Lo abbiamo fatto perché era più sicuro.

Josh Wharton e Thomas Huber hanno commentato in passato che le condizioni su Latok I durante il loro tentativo erano assai diverse da quelle che aveva la spedizione americana del 1978. Quali sono state le condizioni per voi ragazzi?
È un buon punto. Questa è stata la mia prima volta, ho idea che le condizioni fossero effettivamente buone, più di quanto si pensasse, in generale. Visto un percorso così lungo, inevitabilmente incontrerai condizioni sfavorevoli. Ma noi abbiamo trovato buone condizioni per la maggior parte della scalata. Ovviamente è una parete nord, ma riceve parecchio sole e attraversa un sacco di cicli temporaleschi.

Se le condizioni siano cambiate da 40 anni fa ad oggi, non lo so, ma me l’aspetto. Josh Wharton e Thomas Huber ci sono stati diverse volte e se dicono che le condizioni sono cambiate, immagino abbiano ragione. Non sarei sorpreso se il riscaldamento globale abbia avuto effetti sulla via. Il ghiaccio era ghiacciato, la roccia era asciutta e rocciosa.
Penso che anche i russi abbiano avuto buone condizioni. Forse siamo stati fortunati e questo è stato un buon anno, non saprei…

Com’è nata la tua collaborazione con Aleš e Luka?
Ho incontrato Luka a un incontro invernale internazionale BMC in Scozia alcuni anni fa. Anche se non avevamo scalato insieme, siamo andati d’accordo subito e ci siamo incontrati parecchie volte negli anni seguenti.
Luka mi ha invitato in Pakistan, sono andato a scalare in Slovenia lo scorso inverno e in primavera con lui e Aleš. Ci è sembrato subito che andassimo bene, c’era poco da dire e ci siamo goduti la compagnia reciproca.
Non vedo l’ora di salire di nuovo con loro. Sono scalatori forti, esperti e sensibili, e ora buoni amici.

Latok I è la scalata di cui sei più orgoglioso?
Lo è certamente.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Vado in India tra tre settimane – con Uisdean Hawthorne e Will Sim – e sono davvero contento dell’idea. Un po’ presto dopo essere tornato dal Pakistan, ma ne ero consapevole. Abbiamo un permesso per una montagna chiamata Barnaj II, che si trova nel Kishtwar. È stato scalato da alcuni americani negli ultimi due anni, ma la parete nord è inviolata.
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Del dolore e del rispetto
(pubblicato il 1° marzo 2019)

Daniele Nardi e Tom Ballard sul Nanga Parbat, Sperone Mummery

Domenica 24 febbraio 2019 alle ore 14.28 italiane, l’ultima comunicazione di Daniele Nardi: “Abbiamo scalato lo Sperone fino a circa 6300 metri, ora siamo scesi in tenda al C4, a 6000 m. Siamo stanchi, il tempo non è buono, raffiche di vento, nevischio. Domani decidiamo come proseguire“.

Da allora il satellitare e la radio tacciono. Dopo due giorni una macchina di soccorsi difficile, enorme, piena di solidarietà si è messa in moto; i team sul K2 si sono offerti di aiutare; Muhammed Ali Sadpara, compagno di Nardi in passato e primo salitore invernale del Nanga, è volato al Campo Base, ha fatto ricognizioni in elicottero e a piedi al C1. Nessun segnale, solo tracce di valanghe.

E’ ormai passata una settimana e le speranze di ritrovare vivi i due forti alpinisti sono ormai nulle. 

Stamattina, 4 marzo 2019, Alex Txikon e il suo team compresi due alpinisti e un dottore sono riusciti ad atterrare al Campo Base del Nanga Parbat. Alex ha con sé droni per l’estrema ricerca di qualche traccia dei due.

E’ opinione di molti che un evento tremendo e improvviso abbia posto fine al tentativo di scalata dello Sperone Mummery, noto per il pericolo rappresentato dai seracchi sovrastanti, che come lingue si affacciano dal plateau, e spazzano lo sperone con blocchi “grandi come grattacieli” (Messner).

Sui social media, la settimana di ricerca e soccorso è diventata teatro di offese, recriminazioni, disprezzo, accuse al Pakistan, accuse agli alpinisti, accuse ad altri alpinisti, uno spettacolo orribile mentre le famiglie di Daniele e Tom soffrivano e seguivano le frenetiche comunicazioni, che si accavallavano da fonti russe, polacche, italiane, pakistane tra smentite, speranze, atti di coraggio. 

Bisognerà affrontare, a freddo, quanto è accaduto, su tutti i fronti: più che quello alpinistico, quello umano.

E forse anche grandi alpinisti, in buona fede e in questo comprensibilissimo momento emotivo, avrebbero potuto evitare certi toni, certi giudizi, certe convinzioni tranchant anche solo sulla decisione di Nardi e Ballard di affrontare lo Sperone. 

Daniele Nardi era il massimo conoscitore dello Sperone, l’aveva osservato e salito fino a 200 metri dall’uscita (assieme ad Élisabeth Revol, l’unica altra alpinista al mondo ad averne scalato oltre 700 metri, dai 5700 dello zoccolo di partenza. Non era uno sprovveduto; in coscienza, come ha notato Simone Moro, era convinto vi fosse la possibilità di mitigare ed evitare i rischi dei seracchi.

Il rischio era altissimo, Nardi e Ballard lo sapevano; così come lo è stato per le migliori – e ritenute impossibili – imprese di alpinismo esplorativo e di ricerca. 

Parlare di “ossessione” e “suicidio”, oltre che irrispettoso nel momento, ci sembra francamente inutile e fuori luogo. Semplicemente, fuori luogo.

Per ora ci limitiamo a pubblicare un paio di foto emblematiche, di quel tentativo del gennaio 2013, giunto ai 6450 metri:

La parte terminale del Mummery. Si può notare il muro roccioso che protegge dalla traiettoria di crollo dei seracchi.
Punto più alto raggiunto, 6450 m Nardi/Revol; vedi immagine sottostante
Sperone Mummery, 6450 m. Nardi fotografa la Revol al punto più alto raggiunto. Sono evidenti i grandi seracchi di uscita dallo Sperone.

In questo momento doloroso, in cui forte è la tentazione di fuggire lontano dal parlare di alpinismo, in cui l’amarezza nel vedere che l’odio e la divisione sporcano e offendono donne e uomini che seguono dei sogni, apparentemente inutili e rischiosi, è bene tornare a ciò che ha acceso in noi la scintilla della passione per la Montagna e le storie di chi la sceglie.
Ricordiamoci che il giudizio sommario e la superbia di chi ti urla “è impossibile” si scioglie inesorabilmente come un ghiacciaio nel corso del tempo…
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La tragedia sullo Sperone Mummery: fanatismi e alpinismi
(pubblicato il 18 marzo 2019)

 Tom Ballard (a sinistra) e Daniele Nardi

Fanatico /fa’natiko/, dal latino fanatĭcus “ispirato”, derivato da fanum “tempio”, aggettivo (di persona che mostri eccessivo entusiasmo per la propria fede, le proprie convinzioni, e intolleranza verso qualsiasi altra posizione: un fanatico moralista).

Cronaca dei fatti sul Nanga Parbat

Daniele Nardi e Tom Ballard arrivano in Pakistan con l’obiettivo di scalare lo Sperone Mummery, che si erge come freccia puntata verso la cima del Nanga Parbat, sul versante Diamir – primo e dichiarato obiettivo dei due – e se possibile, proseguire fino alla vetta.

Il team, oltre ai due, comprende Rahmat Ullah Baig e Karim Hayat, esperti alpinisti pakistani con esperienza di alta quota. Entro la fine di gennaio 2019, il team procede con buona lena fino alla base dello Sperone Mummery, a 5700 metri di quota, stabilendo 3 campi (C1 deposito sui 4700 m, C2 sul ghiacciaio a 5200 m, C3 alla base dello zoccolo, 5700 m). Poi il maltempo ferma le operazioni, neve e valanghe si abbattono sul Nanga e seppelliscono C2 e C3 e i due pakistani, l’uno per problemi di salute, l’altro per timori della pericolosità delle valanghe, abbandonano la spedizione. 

Nardi e Ballard non demordono, si allenano al Campo Base sui grandi sassi con lunghe sessioni di drytooling, spalano in continuazione i campi, perdono molto materiale tant’è che Nardi fa arrivare altri portatori per un rifornimento: nonostante sia ormai metà febbraio, il morale e la determinazione dei due alpinisti rimangono alti.

Dopo la lunga sosta al Campo Base del Nanga Parbat per maltempo, si apre una finestra di tempo favorevole: Daniele Nardi e Tom Ballard partono il 22 febbraio e si spingono fino al C2, posizionato sui 5200 metri.

Il 23 febbraio, con zaini molto pesanti (in quanto il precedente C3 era andato distrutto dall’accumulo di neve da valanga) raggiungono e allestiscono il C3 a 5700 metri, alla base dello Sperone. Riferiscono di essere un “po’ stanchi” , eppure riescono a salire 300 metri dello Sperone per allestire il C4, a 6000 m circa. Daniele Nardi riferisce che nevischia e c’è vento leggero, circa 20 kmh con qualche piccola raffica oltre i 30 kmh.

Sabato 24 febbraio, verso le 15 (ora pakistana), Daniele Nardi chiama la moglie col satellitare, riferendo di aver raggiunto 6300 metri, in stile leggero e di essere in discesa verso il C4, con meteo non buono: nebbia, nevischio e raffiche di vento. Annuncia alla moglie che la avrebbe richiamata una volta giunti al C4.

Alle 18.28 ora pakistana (le 14.28 italiane) Daniele Nardi richiama, come promesso, la moglie: “siamo al C4” [6000 m NdR]. Pochi minuti dopo, alle 18.35, la moglie di Daniele avvisa e conferma a Filippo Thiery che i due sono a C4.

Abbiamo fatto chiarezza nella tempistica, perché in tutti questi giorni abbiamo letto ipotesi diverse: i media hanno riportato che l’ultima comunicazione era avvenuta prima/durante la discesa da 6300 m a 6000 m. E’ l’ultima comunicazione dei due.

Il giorno seguente lo staff di Nardi, dalla pagina facebook che è canale primario della loro comunicazione – assieme ai rilanci de “Le Iene”, popolare (e controverso, per il sensazionalismo che ne costituisce la cifra primaria) programma televisivo – annuncia che non vi è stato contatto con i due, “probabilmente per zona con assenza di campo”.

Cominciano, dietro le quinte, le preoccupazioni degli esperti: possibile che sia il satellitare che la radio in possesso dei due siano scariche o “senza campo”? Le fonti pakistane, tra cui Ali Saltoro, manager dell’agenzia in carico di logistica e addetti al Campo Base, è fiducioso che sia un problema di batterie scariche. 

Il 26 febbraio mattina si sparge una falsa voce che dice che i due stanno bene e sono al C4. Dopo frenetiche comunicazioni con le fonti pakistane, confuse e contradditorie, arriva la triste conferma che non c’è stato alcun contatto né visivo, causa nuvole sopra 5700 metri, né radio. 

Si cominciano ad attivare i soccorsi, coordinati dall’Ambasciatore italiano in Pakistan Stefano Pontecorvo.

Purtroppo, il 27 febbraio, giorno in cui il tempo migliora decisamente, causa grandi tensioni militari a seguito dall’abbattimento di jet indiani su territorio pakistano conteso nelle zone del Kashmir, gli sforzi per un invio immediato degli elicotteri non hanno subito esito positivo. Muhammed Ali Sadpara, celebre alpinista pakistano, compagno di Nardi nelle due spedizioni al Nanga con Txikon, si offre immediatamente per andare a cercare i due, essendo vicino a Skardu; così come i due ex compagni di Nardi e Ballard, Rahmat Baig e Karim Hayat.

Ed è così che il 28 febbraio un elicottero riesce a sorvolare la zona dello Sperone, con a bordo Ali Sadpara, che riesce solamente ad avvistare la tenda al C3 semisepolta dalla neve; tracce di valanghe nella zona, in più una ricognizione sulla via Kinshofer – nell’ipotesi che i due avessero progredito la scalata e fatto rientro dal plateau – non porta altro che all’avvistamento dei vecchi resti di una precedente spedizione.

Ali Sadpara e altri locali, una volta di ritorno al Campo Base, non avvistano null’altro che enormi valanghe che cadono dai seracchi sommitali all’uscita del Mummery.

Lo scenario diventa drammatico, e ormai si teme per la vita di Daniele Nardi e Tom Ballard. E’ marzo, sono passati oltre 5 giorni senza alcun avvistamento, nessuna pila frontale, nessun segno visibile sulla via che sale al centro della parete Diamir.

Alex Txikon e l’operazione di ricerca e soccorso
Contemporaneamente, dal 28 febbraio, al CB del K2, entrambe le spedizioni, in quel momento in pausa per il maltempo sul gigante del Karakorum, si offrono generosamente per un aiuto nella missione di ricerca e soccorso: dopo uno stallo dovuto al maltempo e a consultazioni tra famiglie, staff, Ambasciata e locali coinvolti la decisione è di chiedere l’intervento di Alex Txikon, unico ad avere droni capaci di una precisa ricognizione video, senza incorrere nei rischi di una ricerca su terreno pericoloso.

Si ripete lo scenario del 2018, quando il team di Urubko, Bielecki e soci abbandonò il K2 per soccorrere Élisabeth Revol e Tomek Mackiewitz, riuscendo a salvare la prima in un drammatico ed eroico soccorso.

Txikon non ci pensa un attimo ad abbandonare la sua spedizione al K2, lasciando gli Sherpa del suo team al Campo Base sul Baltoro e scegliendo il medico e i due fedeli compagni spagnoli nel team (operatore di droni e comunque alpinisti ), arriva dal K2, prelevato dagli elicotteri della Askari Aviation (ricordiamo che è un’agenzia che utilizza mezzi e piloti sotto controllo militare e a pagamento, parliamo di circa 50.000 dollari al giorno) e sorvola lo Sperone: nessuna traccia.

Viene scaricato al C1, per cominciare le operazioni di ricerca in loco e l’ispezione con i droni, che possono spingersi oltre i 6000 metri di altezza in totale sicurezza e con precisione di movimento, programmato con GPS, ecc.

Drone del team Txikon per la ricerca di Nardi e Ballard. Foto: Atta Ullah.

I quattro spagnoli baschi, tra cui un dottore, non risparmiano forzi immensi salendo tra Campo Base e Campo 2, in zona già pericolosa per gli scarichi, evitando valanghe e tracciando su terreno pieno di neve e infido di crepacci, sul ghiacciaio che si inerpica alla base dello Sperone.

Lo sforzo immane di Txikon e dei suoi, assieme agli alpinisti pakistani summenzionati, è più che generoso, commovente, rischioso, la comunicazione del team di Txikon sempre rispettosa, precisa e delicata verso le famiglie e chiara con i Media.

Lo spagnolo non si ritira quando è evidente che i due non torneranno vivi dalla montagna, non cede quando le evidenze di enormi valanghe suggeriscono che i due siano ormai sepolti e dispersi per sempre. Vuole dare una risposta alle famiglie, non vuole lasciare nulla di intentato.

Nonostante la lite e la rottura tra Txikon e Nardi nel 2016, con estromissione di quest’ultimo e l’entrata di Simone Moro e Tamara Lunger nel team composto da Txikon e Sadpara, in quella che si rivelerà la cordata che agguanterà la prima storica invernale del Nanga Parbat, nonostante tutto Alex Txikon è molto legato a Daniele Nardi; questo suo mirabile sforzo, disperato ma determinatissimo, alla ricerca dei due alpinisti persi, è una sorta di catarsi, oltre a un obbligo morale che lo spagnolo già aveva dimostrato di seguire senza alcun dubbio, a costo della sua stessa spedizione, in passato. Inoltre, con Nardi nel 2015 sempre sul Nanga aveva raggiunto i 7800 metri, ad un “passo” dalla prima invernale lungo la via Kinshofer; poi aveva compiuto una via incompiuta, parzialmente nuova e intensa su quella montagna pazzesca che è il Thalay Sagar per la parete nord; infine aveva passato due settimane di acclimatamento nelle Ande con Daniele, subito prima della spedizione – e la rottura dei rapporti tra i due – del 2016. 

E infine, il 5 e il 6 marzo c’è il tragico epilogo, che ha un aspetto sorprendente e terribile, in qualche modo epico: col telescopio Txikon avvista e riconosce i corpi di Nardi e Ballard, a 5900 m di quota, vicino al cosiddetto Campo 4;non sono quindi stati uccisi da una valanga, difficile anche immaginare una scarica di ghiaccio come causa dell’incidente fatale; i loro corpi sono intonsi e visibili dopo oltre una settimana, poco distanziati, tra le rocce, con corde e tracce di materiali aggrovigliati e vicini ai corpi. Le immagini non sono chiare ma sono tremende, e i media non si risparmiano il triste banchetto finale di esposizione quasi oscena, ripetuta, condivisa fino alla nausea.

Le foto prese dal tele vengono inviate, via Ambasciata, alle famiglie, che compiono il triste e definitivo riconoscimento.

Il Team SAR guidato da Alex Txikon

I rilanci dei Media e la reazione sui social
Non vogliamo spendere troppe parole per riassumere l’isteria e il frenetico accavallarsi di notizie ufficiose, ufficiali, non verificate; si crea una gran confusione, anche gli esperti sono costretti a un lavoro di fact checking continuo; Anna Piunova, editor capo di mountain.ru ha fonti dirette nei soccorsi, alcune fonti pakistane sono estremamente confuse e non controllate, la narrazione dei fatti spesso contrasta, anticipa o è differente da quella, ufficiale, gestita dallo staff di Daniele Nardi.

La notizia suscita grande clamore e va in prima pagina sui media mainstream, sui social accade uno scontro, accorrono orde di commentatori che seguono le stesse (orrende) dinamiche di giudizio sprezzante, di biasimo per gli alpinisti sconsiderati, e si accendono le tifoserie anche tra seguaci, più o meno attenti, dell’alpinismo.

Va detto che la scelta di Daniele Nardi, di instaurare un rapporto continuo di reportage video e news con “Le Iene”, drammaticamente rivela un effetto clamoroso di “backlash”: verrebbe da dire nomen omen (riferendosi alle… Iene), la massa in cerca di sensazionalismo e liti virtuali si affolla, in un bruttissimo spettacolo, nelle pagine social della suddetta trasmissione, per debordare – condivise, rilanciate, ribadite, travisate – con una eco enorme in tutto il mondo.

E naturalmente, sin dai primi giorni, quando ancora la speranza di trovare i due in vita era concreta, famosi alpinisti ed esperti vari rilasciano a catena, tra mezze smentite, risposte a terzi, ecc., interviste, ipotesi tragiche, vere e proprie prese di posizione durissime sulla scelta di provare una via “quasi suicida”. Ma su questo torniamo dopo.

Ognuno dice la sua, diffamazioni, insulti, sberleffi, liti tra amici, indignazione da quattro soldi per i “soldi buttati via” per i soccorsi.

La figura di Daniele Nardi è in primo piano, d’altra parte lo scalatore romano ha sempre dovuto lottare per il riconoscimento del suo alpinismo, oggetto di critiche, figura istrionica e piena d’entusiasmo, tendeva a una certa drammatizzazione nei suoi racconti per le Iene; saltano fuori tutte le vecchie polemiche con Moro, con Messner (vedi di seguito). Tom Ballard, nonostante nell’ambiente sia considerato un fuoriclasse ed esperto su pareti difficili e pericolose sulle Alpi, viene marginalizzato – lui timido, introverso, riservato, schivo – e spesso ridotto al “giovane fuorviato” dal più esperto e abile Nardi in una impresa con incognite elevatissime su terreno a lui completamente sconosciuto.

Eppure, in tutto questo, succede anche un’altra cosa, degna di nota: una gran massa di persone finanziano il crowdfunding lanciato dalla famiglia e dagli amici di Ballard e Nardi, per le ingentissime spese degli elicotteri militari “a noleggio”. Vengono raccolti quasi 150.000 € in pochi giorni.

Una volta avvistati e riconosciuti i corpi sulla parete, il finale e triste banchetto di sciacalli, di cui accennavamo prima, si compie (tramite i social) in improbabili analisi, impietose esposizioni di ipotesi più o meno macabre e ben poco rispettose del dolore e lutto terribile per le famiglie coinvolte.

Poi ci sono le prese di posizione dei grandi alpinisti, e nasce una contrapposizione che esula quasi dalla specificità della vicenda e dello scenario per “volare” sul terreno del cosa è possibile, cosa impossibile ora ma fattibile domani e cosa, invece, secondo alcuni, non andrebbe mai fatto né scelto da un’alpinista saggio, l’alpinista che vuole invecchiare ( citiamo il grandissimo Riccardo Cassin, praticamente: il grande alpinista è l’alpinista vecchio, e quindi vivo ).

E’ un capitolo a parte, che trattiamo di seguito, partendo dai due più famosi e autorevoli alpinisti italiani.

Le dure posizioni di Messner e Moro 
La posizione di Reinhold Messner sulla possibilità di scalare una via sullo Sperone Mummery era nota da qualche anno: in occasione di un incontro a Trento, affrontò piuttosto duramente Daniele Nardi, dicendogli: “salire sullo sperone Mummery non è un atto eroico, ma è stupidità”. Non arriva da nessuna parte, non è difficile ma il rischio non è gestibile; è solo un imbuto di valanghe, in succo questa la sua posizione.

Va ricordato, a chi non conosce nei dettagli la storia personale del fuoriclasse altoatesino, che suo fratello Günther fu ucciso da una valanga proprio al termine dello Sperone, già sul ghiacciaio, a quota 5500 metri circa, quasi al salvo dopo la incredibile scalata della parete Rupal col fratello, e la drammatica ritirata per la sconosciuta parete Diamir. Questa vicenda, nel 1970, segnò Messner per decenni, che fu travolto da polemiche. Messner è poi tornato per la sua celebre solitaria lungo una nuova via sul Diamir, che saliva a lato del Mummery; infine, per recuperare i resti del fratello, restituiti dopo trent’anni dal ghiacciaio, confermando finalmente la verità urlata e contestata da tanti.

Messner, nel corso delle ricerche sul Nanga, è ovviamente stato interpellato e ha rilasciato interviste, articoli sulla Gazzetta, il suo pensiero franco, duro e diretto: secondo lui, per quanto abbiamo compreso dalle parole pubblicate, Tom Ballard, fuoriclasse ma senza esperienza sulle grandi montagne oltre gli 8000 metri, è stato trascinato nell’ossessione senza senso di Daniele Nardi, “buon” alpinista ma secondo Messner artefice del quasi suicidio dei due, affrontando una via con troppi pericoli oggettivi e “che non portava da nessuna parte”.

Poi è stata la volta di Simone Moro, “Winter Maestro”, indubbiamente uno dei più grandi alpinisti sugli 8000, unico al mondo con ben quattro prime invernali. Da una prima dichiarazione di speranza e fiducia, presto confessa il timore per i due, dicendo che la sua sensazione e la logica dicevano che fossero morti sepolti da “tonnellate di ghiaccio e neve”, colti da una valanga. Questo attorno alla fine di febbraio e i primi di marzo. 

Poi le polemiche sotto il suo profilo facebook, con accuse risalenti agli screzi del 2016, vista anche la ricorrenza della prima Invernale proprio sul Nanga, con diffamazioni vere e proprie, violente e categoriche affermazioni di disumanità e indelicatezza; è comprensibile che l’alpinista ne rimanga molto amareggiato e innervosito. Simone Moro però decide di chiarire, in modo ancora più netto e duro, se possibile, la sua posizione rilasciando una intervista al notissimo Desnivel, magazine spagnolo di alpinismo molto autorevole e serio, e sostanzialmente dice che Nardi è stato ossessionato da una via “quasi suicida”, “se in 125 anni nessuno l’ha affrontato e scalato c’è una ragione, è troppo rischioso”, “Messner ha scritto che [Nardi, NdR] si è suicidato. Ho scritto la stessa cosa di Messner, molte persone mi hanno chiamato e confessano che anche loro pensano la stessa cosa, ma la differenza è che io lo dico e gli altri lo pensano solamente”.

E anche il monito rivolto ai “giovani alpinisti”, dicendo in sostanza che la sua posizione scomoda era per lui necessaria come educazione a prendersi rischi si, ma non sfidando apertamente una via per lui nemmeno importante tecnicamente ma che è illogica e rappresenta praticamente una roulette russa.

Superarla “non porterebbe nulla alla storia dell’alpinismo”.

Simone Moro, in qualche modo, suggerisce che Tom Ballard si sia lasciato convincere a seguire un sogno non suo, senza consapevolezza diretta – a dire di Moro – che lo stesso bergamasco, “in quasi un anno al Nanga”, aveva sviluppato vedendo cadere valanghe colossali, continue, inesorabili, inevitabili lungo l’imbuto del Mummery.

Sempre su Desnivel, Simone Moro sottolinea che la speranza e l’invio di soccorsi a piedi è folle e che non dovrebbe succedere di mettere a rischio altre vite. “E’ ormai evidente che i due sono sepolti sotto tonnellate di ghiaccio”.

Simone Moro diventa il centro del dibattito “laterale”, mentre Alex Txikon è ancora impegnato duramente nelle operazioni “SAR” (Search and Rescue), escono interviste, rilanciate, modificate, mal titolate, e anche interventi televisivi, ulteriori precisazioni sui social: quasi come l’avesse previsto, arriva una tempesta su di lui, uno schieramento contrapposto di esperti e meno esperti d’accordo con la sua dura e razionale posizione e quelli che lo accusano di insensibilità, di supponenza, di inopportunità nel parlare di un’alpinista con cui ha sempre discusso e che apertamente non ha ritenuto degno di fiducia, fatto scritto nero su bianco dallo stesso Moro col libro sulla scalata invernale al Nanga Parbat.

E’ da notare che le violentissime accuse verso Moro sconfinano nella vera e propria diffamazione, nell’ingiusta valutazione di chissà quali invidie, in insinuazioni velenose su passato e presente, che scatenano – a nostro modo di vedere, e ne abbiamo anche brevemente discusso con lo stesso Moro, privatamente – una reazione comprensibile ma un po’ nervosa del bergamasco, fino al ritrovamento dei corpi dei due – che smentiscono tutte le ipotesi “altamente probabili” (che, a dir il vero, un po’ tutti gli esperti e meno esperti, compreso il dilettante che è il sottoscritto, avevano temuto) di valanga che li avesse spazzati via subito, la notte o al massimo il mattino dopo la scomparsa. Appare quasi certo che siano morti a breve distanza temporale dell’ultimo loro contatto del 24 febbraio, ma non a causa di una valanga. Una caduta mentre allestivano o discendevano corde fisse, in zona C4, o il maltempo che li ha bloccati in discesa, portandoli alla morte per ipotermia, sono le ipotesi che trapelano anche da Alex Txikon. 

Simone Moro, una volta individuati i corpi dei due, rilascia un’intervista al Corriere del Trentino che genera ancor più rumore, cortocircuito di interpretazioni e polemica, oltre ad essere rilanciata travisata o mal riassunta: apparentemente dichiara che “sta lavorando al recupero” delle salme, mettendosi a disposizione, “dopo un contatto” con lo staff (o la famiglia?) di Nardi. Si scatenano nuove velenose accuse al bergamasco, poi la smentita di Moro: non ha preso alcuna iniziativa ma è in contatto con le famiglie di Nardi e Ballard e a domanda ha risposto che un recupero potrebbe essere possibile, e che lui si sarebbe messo a disposizione in caso fosse richiesto formalmente.

La polemica si chiude quando il padre di Tom Ballard esprime la chiara volontà di lasciare il figlio sulla montagna. Anche la famiglia di Daniele Nardi conferma la decisione: i corpi non verranno recuperati e rimarranno per sempre sul Nanga Parbat.

Della possibilità di una via lungo lo Sperone Mummery
Edit importante: Eross Zsolt, scalatore ungherese, è riuscito a scalare molto vicino, e in parte lungo lo Sperone Mummery, fino alla vetta e ridiscendere senza conseguenze (vedi Editor Note. Grazie a Rodolphe Popier, 8000ers.com e Philippe Poulet ). Di questa scalata in solitaria, incomprensibilmente dimenticata e poco conosciuta, stiamo cercando di raccogliere maggiori dettagli. Ma la notizia è interessante. E confermata nelle statistiche di 8000ers.com!

Ipotetico percorso di una via sullo Sperone Mummery al Nanga Parbat

Dichiaro subito che sono rimasto perplesso dal tono e dalla tempistica delle dichiarazioni – che ovviamente hanno guadagnato i titoli e l’attenzione dei media e dei social – sia di Reinhold Messner che di Simone Moro. 

L’autorevolezza dei due, la loro conoscenza diretta del Nanga Parbat, la loro infinita esperienza, non possono però costituire argomenti utilizzati per stroncare una discussione sul merito delle loro posizioni.

In particolare, di Reinhold Messner non condivido minimamente l’affermazione, ripetuta, che Tom Ballard sia stato “trascinato” in un’avventura al limite del suicidio perché “senza esperienza di 8000”. Se questo ultimo punto è vero, Messner non cita i due mesi passati dal duo in Pakistan sul Link Sar. In più, sta parlando di quello che lui stesso aveva visto come “futuro luminoso dell’alpinismo”, un uomo di 30 anni con un curriculum impressionante, non di un ingenuo sognatore, incapace di valutare i rischi. Ricordiamo che Tom Ballard aveva perso sua madre sul K2.

Ritengo che il tempismo di queste dichiarazioni, sia stato, tra le altre perplessità, il punto più critico e discutibile.

Per quanto riguarda la posizione di Simone Moro, un punto che non ho capito né condiviso è il dichiarato intento “educativo” verso “i giovani alpinisti”, il suo volerli mettere in guardia dal trattare Nardi e Ballard come “esempio”; il suo timore che il clamore e il trattarli da “eroi” potesse spingere altri.

Mi chiedo: quanti e quali giovani alpinisti, senza esperienza, verrebbero spinti a provare il Mummery sulla base della narrazione dei media o dello stesso Nardi, avvenuta nel passato? Leggendone sui social, poi? Siamo sicuri che fosse necessario dirlo durante le ricerche?

Infine il dubbio che esprime il sottoscritto (in compagnia di altri, ben più esperti e titolati – vedi più avanti) è innanzitutto che quella via non sia “quasi suicida”, e che il giudizio – pur competente ed esperto, motivato, razionale, condivisibile per certi versi – sia in contrasto con alcune delle stesse esperienze passate dai due e in generale con molte imprese allora definite suicide o impossibili.

Il rischio – e la scala soggettiva adottata da alpinisti molto differenti tra loro – può certamente essere in qualche modo misurato, ma affermare che se il Mummery non è stato mai scalato in 125 anni c’è una ragione ed è che è solo azzardo e spinta a un quasi sicuro suicidio, e che se nessuno a parte Nardi l’ha voluto affrontare è perché NON va tentato perché è una sfida folle e sostanzialmente inutile, è un’opinione, non una certezza supportata da dati oggettivi, numerici, osservazioni, eccetera. 

Non riesco ad essere d’accordo anche quando Moro definisce una possibile via sul Mummery “nulla che porterebbe valore aggiunto alla storia dell’alpinismo”.

Tra parentesi – e attenzione, non c’entra nulla Simone – è parecchio circolata, in molti degli articoli letti sui media, la frase “d’altra parte il Mummery ha ucciso tutti quelli che ci hanno provato” – e di questo, ahimè, proprio Le Iene e Nardi, nelle presentazioni video sensazionalistiche hanno avuto un ruolo.

Ma questa è un’affermazione assurda, perché nessuno (e vedremo più avanti i dettagli) lo ha mai veramente affrontato in scalata – a parte Nardi, Revol, Ballard (ma non dimentichiamo il primo tentativo, quello dello stesso Mummery nel lontano 1895 con i suoi due compagni indiani, NdR) – e l’unico morto nelle statistiche conosciute, prima della tragedia di questi giorni, era stato Günther Messner in discesa sulla via. Alla base del Mummery, non sul Mummery. E in condizioni spaventose, con i due ai limiti delle allucinazioni, provatissimi, senza acqua, cibo e da giorni sulla montagna.

La stessa testimonianza di Alex Txikon, la più autorevole e diretta, dopo i lunghissimi giorni di osservazione e studio via drone nei giorni di soccorso, via terra, via telescopi è che la via scelta dai due fosse “molto intelligente“, “più sicura di quanto si potesse credere”, e che la zona veramente critica per le valanghe era quella tra C1 e C3. Come sempre sostenuto da Nardi, che dopo anni di studio e assalto a quello Sperone, fatti di osservazioni continue, di ritiri, di tentativi e consultazioni col suo esperto meteorologo e fidato amico Filippo Thiery, aveva sempre detto che sopra i 6400 metri, i pericoli oggettivi per i seracchi potevano essere evitati, in grande parte. E aveva già dimostrato di sapersi ritirare, o di non tentare quando le condizioni apparenti erano di bel tempo. Su questo consiglio la lettura della toccante lettera che Filippo Thiery ha voluto scrivere, idealmente, all’amico scomparso.

Del rischio e dell’azzardo: un dibattito aperto per tutti gli Alpinismi 
Il dibattito su rischio e azzardo, esulando da questa vicenda e dal suo tragico epilogo, potrebbe essere molto interessante ma va affrontato senza timore reverenziale e affrontando una centrale questione nell’Alpinismo, da sempre: come definire il confine tra rischio, e sua gestione più o meno oculata, razionale e basata il più possibile su dati oggettivi, e l’azzardo? Come vanno considerati fattori quali l’intuito e la predisposizione personale di ogni alpinista?

Come poter stabilire criteri il più possibile oggettivi, anche a fronte di personalità alpinistiche così diverse – grazie al cielo! – tra loro?

Qualcuno rimproverava, alla luce del Sole e prendendo posizioni così nette, uno come Ueli Steck, che affrontava in velocità, in solitaria, quasi sempre senza protezioni, pareti spaventose e oggettivamente rischiosissime (come la Sud dell’Annapurna, ad esempio)? 

Lo stesso Simone Moro, quando affrontò con Boukreev l’Annapurna salvandosi per miracolo, o più recentemente il Gasherbrum II con Denis Urubko e Cory Richards utilizzando una finestra brevissima di bel tempo, sottoponendosi a un rischio elevato nella discesa velocissima e nel whiteout, con problemi a ritrovare la traccia, e con tanto di valanga che rischiò di ammazzarli tutti, esattamente in una zona conosciuta per la pericolosità dello scarico di valanghe, avrebbe dovuto essere criticato per l’azzardo? 

Riguardo al valore di una scalata per la quale si assume un certo rischio, ad esempio: cosa porterebbe di più, alla Storia dell’Alpinismo, il ripetere la via normale sul K2, con corde fisse, in invernale, visti i succitati rischi oggettivi e visto che l’unico fattore “aggiunto” sarebbe il… periodo invernale, per completare la “sfida”?

Al sottoscritto è evidente che sarebbe comunque un fatto storico. Ogni nuova via su un Ottomila, di per sé, brutta o bella, rischiosa o meno, rappresenta un evidente e tautologico nuovo fatto storico. Senza giudizio sulla qualità della stessa, sia chiaro.

Non credo si possa, secondo me, fissare alcun criterio dogmatico nel definire la “storicità” di un evento ancora non verificato.

E nell’alpinismo, i primi che scalano un Ottomila per una via nuova, che fosse considerata pericolosissima o meno, sono entrati nella Storia. Anche quelli che sono morti nel tentativo: attenzione, non è entrare in un Pantheon, non è un elogiare postumo, è un fatto che rilevo, anche solo riaprendo i tanti libri di alpinismo storico degli anni passati.

A Reinhold Messner, con il massimo rispetto e stima infinita, farei qualche domanda sulle sue posizioni così nette.
Quando, sotto la enorme e “terribile” parete sud del Dhaulagiri, decise di “girare i tacchi”, perché il suo istinto glielo suggeriva, perché dichiarò che sarebbe stato un suicidio visto il continuo bombardamento di valanghe lungo tutti i suoi canali? Come mai si presentò personalmente in Slovenia, in aeroporto, ad accogliere e celebrare Tomaz Humar che per primo, in solitaria, l’aveva scalata quasi nella sua interezza? Perché allora celebrare un potenziale suicida? Perché era sopravvissuto e ce l’aveva fatta? 

Quando ti accusavano di essere un pazzo suicida, perché arrampicavi senza protezione su pareti con roccia non certo stabilissima (Dolomiti), oppure quando l’intera comunità scientifica e alpinistica ti irrideva per voler tentare l’Everest senza ossigeno? 

Sono domande e riflessioni ovviamente retoriche, provocatorie, NON accuse!

Vogliono solo suggerire, con esempi (e ce ne sarebbero tantissimi, nella Storia dell’Alpinismo) una serie di dubbi, rilevare qualche contraddizione al giudizio severo, senza appello, al sogno e alla visione che Daniele Nardi e Tom Ballard hanno perseguito al centro della parete Diamir. 

Piccola rassegna stampa
Una interessante riflessione è stata fatta, in questo senso, da Enrico Martinet, storico giornalista di alpinismo della Stampa.
Alessandro Gogna ha pubblicato sul suo blog questi altri due articoli, sulla vicenda.
Una intervista a Romano Benet e Nives Meroi sulla vicenda.
Una toccante riflessione di Élisabeth Revol, compagna di Daniele sullo Sperone nel 2013.

Daniele Nardi e Tom Ballard
Daniele Nardi era nato 42 anni fa a Sezze, provincia romana. Aveva scalato l’Everest con l’ossigeno da Nord, il Nanga Parbat, il Broad Peak, la Cima centrale dello Shisha Pangma e il K2 senza ossigeno (leader della spedizione del 2007). L’Aconcagua. Aveva aperto una via (Telegraph Road) sul Farol West 6340 m con Lorenzo Angelozzi, e una cima inviolata di circa 6000 m in Pakistan. Sul Baghirathi III, assieme a Roberto Delle Monache, apre una nuova via, incompiuta, di oltre 1200 metri. Sul Nanga Parbat tenta lo Sperone Mummery in solitaria, poi con Élisabeth Revol nel 2013; come già detto in precedenza, si aggrega a Txikon e Sadpara e arriva a 7800 metri sulla Kinshofer d’inverno  nel 2015. Nel 2016, con lo stesso team, ha prima un incidente con Adam Bielecki, che si era momentaneamente aggregato e che viene salvato dopo 60 metri di scivolata sul ripido pendio ghiacciato tra C1 e C2 dallo stesso Nardi; poi cade sul muro Kinshofer per 10 metri, senza conseguenze fisiche: una volta che Moro e Tamara Lunger si aggregano, su invito di Txikon, avviene una rottura dei rapporti di fiducia del romano con tutti, che portano al suo ritiro dalla spedizione. Nel 2017 effettua da leader una spedizione in Pakistan, “Trans Limes”, con Tom Ballard e altri alpinisti, tentando il Link Sar (un Settemila) per la inviolata parete nord-est (vedi sotto).

Tom Ballard, figlio di Alison Hargreaves, la grande scalatrice inglese, prima sull’Everest senza supporto e ossigeno, poi morta in discesa dal K2, dopo averlo scalato senza ossigeno, aveva 30 anni. Cresciuto negli ambienti di arrampicata scozzesi e britannici, era poi esploso come fuoriclasse sulle Alpi e sulle Dolomiti, completando l’incredibile sestetto di Pareti Nord in solitaria, in una sola stagione: quella invernale. Aveva ripetuto centinaia di vie difficili, e in più era ai massimi livelli mondiali di dry tooling, disciplina relativamente recente, che utilizza ramponi e piccozza su vie di roccia di difficoltà estrema. Ne aveva disegnate alcune tra le più difficili e celebrate al mondo.
Con Daniele Nardi – e questa spedizione, incredibilmente, è stata pochissimo citata e considerata nel dibattito durante la loro scomparsa – aveva tentato una nuova via a un Settemila remoto e inviolato, il Link Sar (sulla parete opposta, c’era contemporaneamente il team del grande Steve Swanson, leggendario alpinista americano; Nardi, una volta saputo della presenza degli americani, e dopo averli cordialmente incontrati con Tom, aveva volto il suo sguardo alla parete est). I due, dopo aver aperto una via di allenamento, eppur lunga centinaia di metri su una stupefacente cima innominata, avevano lottato giorni per aprire oltre 1400 metri di sviluppo verticale di una via tra il difficile ghiacciaio che portava al muro finale, dai 5900 metri fino in cima, di verticalità, granito e ghiacci. Le valanghe e il maltempo avevano interrotto il tentativo dei due a poco più di 6100 metri.
Una esperienza che aveva comunque cementato una grande intesa tra i due, così differenti sia caratterialmente che tecnicamente. La prova generale, qualcuno ha scritto, del team per provare lo Sperone.
Ed è Tom Ballard, anche in una intervista rilasciata al TG3 e rilanciata in questi giorni, che parlava della sua libera e convinta scelta di provare il Mummery: “Daniele, se parti e fai la spedizione, io ci sono: proviamo!”

Fonti e ringraziamenti
Anna Piunova, capo redattore mountain.ru su profilo Facebook 
Elena Laletina, editor russianclimb.com, profilo Facebook
Alessandro Filippini, profilo Facebook, Gazzetta Dello Sport e blog
Reinhold Messner, Gazzetta Dello Sport 
Mohammad Ali Saltoro, Atta Ullah, Karim Hayat (dal Pakistan)
Daniele Nardi, Simone Moro, Alex Txikon, profili Facebook 
Filippo Thiery, profilo Facebook 
8000ers.com grazie al genio di Eberhard Jurgalski per le statistiche e tutto, Rodolphe Popier, Himalayan DB 

Si ringraziano Karim Hayat, Ali Saltoro, Emilio Previtali, Simone Moro, Alessandro Filippini, Filippo Thiery,Rodolphe Popier, Philippe Poulet, Manu Rivaud, Anna Piunova, Elena Laletina, Luca Calvi, Filippo Goria, per i suggerimenti, le discussioni, lo scambio di informazioni.
Un particolare ringraziamento va ad Alessandro Gogna per i preziosi consigli e il supporto morale.
Questo articolo è anche su https://www.sherpa-gate.com 
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Tomek Mackiewicz: il Sognatore Ribelle
(un racconto “differente” su Tomek)
(pubblicato il 13 maggio 2019)

Davide Bubani, alpinista e appassionato gestore di Cronache Alpinistiche, magazine cartaceo e gruppo Facebook di scambio opinioni sull’Alpinismo e suoi protagonisti, ha deciso di impegnarsi nello scrivere un libro tributo a Tomek Mackiewicz, alpinista atipico, protagonista sul Nanga Parbat di una incredibile salita in stile alpino, in invernale, sulla via parzialmente iniziata da Messner ed Eisendle e completata da Tomek assieme ad Élisabeth Revol, prima del tragico epilogo: un malore in vetta, probabilmente un edema cerebrale in alta quota, la disperata discesa trascinato da Élisabeth fino a 7200 metri e la morte.

Il libro Tomek Mackiewicz: il Sognatore Ribelle è uscito per Alpine Studio edizioni, ed è disponibile su tutte le piattaforme online.

Presentazione del libro
Tomek Mackiewicz era un visionario che cercava la realizzazione della sua esistenza nella montagna. Il suo personale modo di frequentarla e di scalarla era lo strumento per raggiungere un sogno a lungo concepito in Polonia, suo paese di origine, che lo aiutò a uscire dalla piega sbagliata che aveva preso la sua vita. Refrattario alle regole, indifferente alle abitudini, seguiva il suo istinto, e fu proprio quello, unito a una inesauribile tenacia, a permettergli di realizzare il sogno dell’ascensione del Nanga Parbat. Aveva tentato quell’impresa sei volte, tutte in inverno. La settima, con l’alpinista francese Élisabeth Revol, che era già stata sua compagna in due tentativi precedenti, raggiunse la vetta lungo una via sulla parte orientale del versante Diamir ritenuta impossibile, che nel 2000 aveva respinto persino Messner. Sulla via di ritorno, però, sorsero i problemi fisici che portarono alla tragedia che gli costò la vita. Questo libro è un omaggio a un personaggio schivo che forse non si sarebbe nemmeno intravisto al di fuori dello stretto mondo dell’alpinismo di punta, ma che merita di essere conosciuto.

Abbiamo fatto tre domande all’autore Davide Bubani, incuriositi da un libro che non è una biografia, non raccoglie né aveva l’obiettivo di descrivere in termini alpinistici un uomo e la sua impresa – piuttosto il racconto intimo di un viaggio interiore, alla scoperta del lato umano di Tomek, delle motivazioni più alte che guidano sulle grandi montagne donne e uomini.

Ciao Davide, ti conosciamo per essere il creatore e gestore di Cronache Alpinistiche, un magazine mensile, breve ma ben curato, a cui hai affiancato l’ideazione di una “community” su Facebook dal nome omonimo. Ci racconti brevemente il percorso di vita che ti ha portato a scrivere di Alpinismo e di donne e uomini sulle Montagne? 
Ciao Federico, grazie infinite di questa domanda. Cronache Alpinistiche nasce come una risposta, o meglio un urlo dal cielo da una vetta di una montagna. Sono iscritto al CAI da 21 anni, sono stato in consiglio direttivo della mia sezione CAI, e ho riscontrato che non c’è sufficiente cultura alpinistica e che l’andamento del CAI non è più quello che il 1865 voleva come spirito vocazionale e che oggi dovrebbe essere ancora così, ovvero L’ALPINISMO la sua storia e l’ardore della CULTURA ALPINISTICA. Ecco che una delle tante risposte a questa aridità ha trovato fonte in questa mia idea le CRONACHE ALPINISTICHE. Diffondere informazione e appassionare le persone alla Cultura Alpinistica e perché no, far sognare le persone.

Hai scelto di scrivere il tuo primo libro parlando di Tomek Mackiewitz, alpinista veramente atipico. Come è maturata questa tua scelta, quali sono le motivazioni che ti hanno spinto?
Tomek è entrato nella mia vita come bere una pozione ed è entrato nei corridoi linfatici del mio corpo e testa. In tempi non sospetti ho visto in lui il sogno, la vocazione a un alpinismo vocato alle stelle e a grandi valori umani. Ho visto in lui qualcosa di non dimensionalmente inquadrabile negli standard alpinistici, ho visto in lui il Nanga Parbat. Le stesse dimensioni volumetriche del Nanga sono esattamente coincidenti con le dimensioni del Cuore e della storia di Tomek. Ho visto in lui l’ascesa filosofica dell’anima e del corpo. Ha fatto un’impresa eccezionale e il suo ardore è stato enorme e degno di un alpinista con la A maiuscola. Alpinisti si è prima nella vita poi nell’azione in montagna.

Non hai voluto scrivere una biografia di Tomek né trattare specificatamente di alpinismo; mi pare tu abbia scelto di raccontare, a tuo modo, un percorso di vita; se dovessi spiegare, in poche parole, a un profano di alpinismo perché leggere il tuo libro, cosa gli diresti?
Caro lettore in questo libro non troverai un biografia e non troverai dati super tecnici alpinistici, trovi un percorso alpinistico di vita che parte dall’inferno fino al paradiso degli 8126 metri del Nanga Parbat, un volo che parte dalla morte, alla vita sulla vetta del Nanga Parbat, il racconto visionario di un uomo visionario e sognatore, Tomek un uomo un alpinista che ha saputo guardare negli occhi e nell’anima della montagna più grande della terra. Nel libro potrai trovare la Vita e le sensazioni primordiali che conducono i sentimenti e l’ardore dell’uomo esploratore vocato alle stelle.

Élisabeth Revol e Tomek Mackiewicz 
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