La singolare storia del giovane spagnolo Fernando Garrido Velasco, 27 anni, che tra il 1985 e il 1986 (dal 30 dicembre al 1° marzo) ha vissuto 62 giorni sulla vetta dell’Aconcagua + 4 nel primo tentativo iniziato l’8 dicembre 1985. Garrido ha perso 17 chili e ha subito congelamenti ai piedi: a tutt’oggi detiene questo record di permanenza in quota. Nel 1988 è stato il primo uomo a salire un Ottomila d’inverno da solo (Cho Oyu). Questa “grande storia” mi è stata segnalata da Paolo Ascenzi, che ringrazio di cuore.
Sopravvivere due mesi sulla cima dell’Aconcagua
di César Pérez de Tudela, Juan Mora e Fernando Garrido
Fonti fotografiche: Centro Cultural Argentino de Montaña, Natalia Fernández Juárez
La curiosa notizia che uno spagnolo aveva stabilito il tempo record di due mesi sulla vetta dell’Aconcagua 6956 m, mi ha ricordato le mie avventure su quella montagna. Il desiderio di tornare a vivere l’esperienza della vetta mi è rinato immediatamente e, invece di preparare la salita al Mount Kenya, come avevo programmato, ho pensato di scalare, sedici anni dopo la mia prima salita, la famosa montagna per intervistare Fernando Garrido, che conoscevo per sentito dire.
L’Aconcagua è una montagna che, come ogni altra, è indissolubilmente legata alla mia vita e alla mia storia. Su di essa ho vissuto una delle esperienze più terribili e grandiose, quando mi sono perso sul suo versante occidentale per cinque giorni e quando avevano già preparato la mia lapide nel cimitero di Puente del Inca. Nonostante ciò, tornai un anno dopo sulla sua cima, quando le circostanze mi costrinsero a portare via il libro di vetta, suscitando un’aspra polemica. Sono, in qualche modo, uno dei maggiori divulgatori di una montagna così speciale, ed era ragionevole che la curiosa e ammirevole sopravvivenza di Fernando Garrido non mi fosse estranea, e volevo conoscerla da vicino. E, senza pensarci troppo, sono partito per l’Aconcagua, pronto a ricordare vecchie esperienze. La vita – pensavo – è una costante decadenza.
Solo questi momenti di pericolo, durezza ed esaltazione rallentano la discesa della vita.
Fernando Garrido è un giovane alpinista di Aragona (nato nel 1958), di cui sapevo già che era riuscito a scalare l’Annapurna III, una vetta di oltre 7500 metri in Himalaya. Quella volta Garrido scalò abilmente una vetta difficile, seguendo le orme di una spedizione catalana che, però. non raggiunse la cima. Ha scritto un semplice resoconto dei suoi sforzi e della solitudine di tanti giorni. Garrido, maestro di sci a La Molina, aveva il progetto di battere il “record” di permanenza in alta quota, detenuto dal francese Nicolas Jaeger, medico alpinista francese che, nel 1979 (dal 27 luglio al 27 settembre, NdR), aveva trascorso 60 giorni sul Huascarán, a più di 6300 metri (6700 m in realtà, NdR). Jaeger aveva basato la sua tesi di dottorato sul comportamento dell’uomo a tali altezze e in seguito ha scritto un libro sulla solitudine. Fernando Garrido scelse una montagna dal clima più rigido e dall’altitudine più elevata. Se avesse resistito ai giorni previsti, avrebbe superato – come fece – la strana ma interessantissima esperienza di Jaeger.
Sono partito per l’Aconcagua quando lo spagnolo era in quota da più di cinquanta giorni. Non avevo tempo da perdere se volevo portare a termine la missione giornalistica più alta del mondo: un’intervista a 7000 metri. Ricordavo l’estrema durezza della salita all’Aconcagua e non avrei potuto farcela in tempo se fossi stato imprudente o se Fernando avesse rinunciato alla sua avventura.
Per scalare l’Aconcagua, da molti anni, un decreto del governo della provincia di Mendoza impone di ottenere un permesso. Oggi è sufficiente dimostrare la propria capacità fisica con una visita medica. In passato, bisognava lasciare un deposito in contanti, compilare lunghi questionari alla polizia, sottoporsi a test fisici in quota e dimostrare di avere l’attrezzatura giusta. Il decreto che richiede il permesso è solo un avvertimento che l’Aconcagua, una montagna di grande altezza, ha caratteristiche molto particolari: è molto vicina alle zone abitate e ha un percorso che la mette alla portata di qualsiasi audace avventuriero, che sia o meno un tecnico dell’alpinismo. E questo è il suo principale pericolo, oltre ad altri che spiegheremo più avanti. Comunque sia, sui suoi versanti sono morte più persone che su qualsiasi altra montagna della Terra.
E l’anno scorso l’Aconcagua stava risvegliando le sue difese: tre giapponesi erano scomparsi a 6800 metri e i loro corpi non erano stati ancora stati ritrovati. Un mulattiere che mi ha accompagnato, trasportando il carico fino alla cosiddetta “Confluencia”, mi ha detto: “L’Aconcagua è furioso perché la mummia e il tesoro gli sono stati sottratti l’anno scorso. Immediatamente, un giorno dopo, ci fu un movimento sismico a Mendoza e a Santiago”.
Una spedizione del Club Andinista de Mendoza, risalendo il versante sud-ovest, aveva scoperto in uno dei contrafforti un bambino mummificato con il cranio trapanato; accanto a lui, figure d’oro finemente intagliate raffiguranti guanachi. La mummia e il tesoro furono depositati nel Museo dell’Università di Cuyo. Gli Inca, che dominavano la maggior parte delle Ande, devono aver compiuto i loro sacrifici in questo luogo, e molto probabilmente sulla stessa vetta meridionale.
Questi dati e molti altri, che gli archeologi stanno raccogliendo, dimostrano che, senza dubbio, quelle popolazioni – alcune di esse – erano capaci di imprese sportive e di sopravvivenza tali da sopraffare i moderni alpinisti dotati dell’equipaggiamento più impegnativo.
Sopra i 4.300 metri, a “Plaza de Mulas”, la base dell’Aconcagua, nel piccolo rifugio, c’è un cartello:
“Sono in vetta dall’8 dicembre 1985. Se vi è rimasto del cibo o del gas, lasciatelo nel rifugio Berlin. Sono a cento metri verso il Ghiacciaio dei Polacchi (Fernando Garrido, Spedizione spagnolo-cilena di sopravvivenza a 7000 metri)”.
E un altro che diceva: “Su compagno, su ancora un po’. Coraggio, forza e anima per farcela”.
In ogni caso sapevo che tutto questo sarebbe stato necessario per me e per Fernando per sopravvivere al freddo pungente, al vento implacabile e alle nebbie dell’altitudine.
Sotto una pietra, un giapponese dal volto affettuoso è immobile e pensieroso da tempo. È Tetsuo Abe, appena sceso dalla vetta. In cima aveva lasciato il suo compagno Toshiaki Yamada morto. Durante la salita della parete sud, i due avevano esaurito le bombole di gas e non erano riusciti a sciogliere abbastanza ghiaccio e neve per assumere liquidi a sufficienza. Yamada era morto per disidratazione. Gli spagnoli e gli argentini che si erano riuniti cercarono di dare un po’ di calore al sopravvissuto, che a poco a poco si rincuorò con boccate di zuppa calda o con il durissimo stufato di patate che lo spagnolo Ramón Portilla aveva cucinato con spirito ammirevole. Portilla racconta la sua salita e il vomitare dei suoi compagni colpiti dalla “puna”. Tito Claudio, il custode del rifugio Naranjo de Bulnes, originario della Patagonia, racconta la sua salita al famoso Cerro Torre. Questo è l’anno degli spagnoli sull’Aconcagua. Ho contato una ventina di alpinisti che si sono aggirati sui versanti di questa montagna: parete sud, via dei Polacchi, versante nord.
È notte. Si sente una certa secchezza in gola e un leggero fastidio alla testa. Come farà Fernando Garrido a continuare? Sicuramente deve avere un acclimatamento straordinario dopo tanti giorni sottoposti alla decompressione dei 7000 metri.
Normalmente tutti i candidati alla vetta si acclimatano bene. Dormono due o tre giorni a 4300 metri. Salgono a 5000 e scendono di nuovo. Uno o due giorni dopo tornano a quote più alte e così, salendo e scendendo, addensano il sangue per acclimatarsi. Io sono un caso particolare. Ho l’abitudine di andare sempre veloce. Credo anche che sia meglio salire spesso e senza scendere. D’altra parte, non vedo l’ora di salire questa volta sulla cresta sud-ovest, che termina con una bella cresta di ghiaccio. Mi metto in cammino molto lentamente, pensando di raggiungere la vetta in due o tre giorni al massimo e di intervistare Garrido: come starà? Ho chiesto ad alcune persone che sono scese dalla vetta e non l’hanno visto. Si arriva in cima talmente stanchi che bisogna avere molta voglia di scendere un centinaio di metri che poi si dovranno risalire. La giornata, in quota, è molto breve. Al tramonto ho superato i 5400 metri. Mi sento in forma e mi dirigo verso i contrafforti dove inizia la cresta. Ben presto si alza un forte vento e sono costretto ad allestire un bivacco improvvisato. Sciolgo il ghiaccio con il fornello per ottenere più liquidi possibile. Appena il freddo e il vento lo permettono, riparto, scartando l’idea di risalire la cresta. Il mio impegno è quello di arrivare in cima per vedere Garrido, ma presto mi rendo conto che devo scendere. Mi gira la testa e faccio passi esitanti. Sono sintomi inequivocabili di una mancanza di acclimatazione, quindi decido di scendere.
Il giorno successivo recupero il tempo perduto. Salgo in una sola volta fino a 5800 metri. Lì ci sono tre piccoli rifugi in legno, che sono in pessime condizioni. Nel Berlin, smontato e senza tetto, c’è il deposito di cibo di Fernando, costituito da ciò che gli alpinisti hanno lasciato. È un luogo in cui le persone sono riluttanti a proseguire. Il vento costante, la bassa temperatura e quello strano e misterioso malessere che la “puna” produce (mal di montagna) sono sufficienti a farmi perdere le speranze. Mi rifugio in una delle due capanne rimaste, dove bisogna accovacciarsi e rimanere seduti. Cucino lentamente una zuppa e controllo che la temperatura all’interno della capanna sia di -25°. Voglio solo riposare per poter proseguire verso la vetta all’alba. Penso che avrei rinunciato al mio progetto se non avessi avuto una missione concreta da compiere. Si tratta di sopravvivere di fronte a tanta inclemenza e a tanta durezza. Stanotte il vento è impetuoso nelle zone più alte della montagna. Garrido dovrà aggrapparsi alla sua tenda per evitare che l’aria la sollevi. Che volontà e che entusiasmo ha questo aragonese!, penso tra me e me mentre la turbolenza sferraglia tra i canali dell’Aconcagua.
La notte è andata bene, anche se con quella sensazione di soffocamento che è così difficile da sopportare. Se ci si innervosisce e si vuole aspirare più aria, è allora che si possono avere problemi. Bisogna essere calmi per non fare sforzi respiratori. Prima dei 6300 metri ho incontrato un americano dall’aspetto molto forte che stava scendendo – incredibile – in scarpe da ginnastica con sacchetti di plastica ai piedi. Parlava nervosamente e ho pensato che fosse sotto l’effetto dell’altitudine. Era accompagnato da un francese con lo sguardo fisso, il moccio pendente, gelido, e un sorriso perennemente congelato sulle labbra. Non avevano visto Fernando Garrido in vetta; senza dubbio erano arrivati molto esausti e non avevano guardato verso il Ghiacciaio dei Polacchi, dove pare abbia la tenda. Avevo paura di continuare a salire e sono sceso di nuovo a 5500 metri, fino agli stessi piccoli rifugi dove avevo passato la notte precedente. Sono arrivato esausto e mi sono infilato nel saccopiuma con molta fatica.
La mattina dopo mi sono svegliato deciso a iniziare il calvario dell’ultima salita. Mi sono trovato a rimpiangere completamente di aver intrapreso questa avventura. Ne avevo abbastanza dell’Aconcagua. Volevo solo arrivare in cima e intervistare Garrido, per realizzare il mio obiettivo giornalistico. Non potevo fallire. Raggiunsi il rifugio Independencia, un tempo chiamato “Eva Perón”, che è stato classificato come il rifugio più alto della Terra. È una specie di grande cuccia, senza tetto e piena di roba di Fernando, a circa 6500 metri. La temperatura si è addolcita molto e ci sono solo 15 gradi sotto zero. Ho ripreso la salita, facendo un lungo giro verso ovest e lasciando la via delle Canaletas alla mia sinistra. Salendo, arrampicando su una successione di rocce facili e vedendo la cresta sopra di me, mi sono reso conto del calvario che stavo vivendo e che più o meno tutti quelli che riescono a raggiungere la stessa cima soffrono. A volte avevo la sensazione di non riuscire a salire un altro metro. La mia mente era vuota, incapace di prendere qualsiasi decisione. In questi momenti, e questo l’ho già sperimentato in più di un’occasione, è l’inconscio a farla da padrone; si è nel mondo dei sogni. Cercavo di esigere un’estrema concentrazione mentale e così mi arrampicavo per quindici o venti metri.
A volte pensavo con la tranquillità di chi sogna placidamente o, non so se gridando, di essere perso, di avere allucinazioni e di essere assolutamente privo di forze. Non sono altro che materia esausta. Sull’Aconcagua ci si trova negli ultimi metri, al confine con l’aldilà, e questo, sono sicuro, è stato provato dalla maggior parte degli avventurieri, dei curiosi e degli alpinisti che hanno tentato di raggiungere la vetta, che lo ricordino o meno.
Quali sono state le esperienze di Garrido, che è in vetta da quasi due mesi?
Ricordavo, tra le nebbie della memoria e le allucinazioni del passato, i miei giorni persi e incoscienti sulle pendici di questa montagna nel 1970, e i miei terrori rinascevano solo quando rivedevo i burroni e i ghiacciai attraverso i quali ero passato.
Finalmente raggiunsi la cresta e potei vedere da vicino la cima meridionale dell’Aconcagua e, poco sotto, l’enorme precipizio ghiacciato del versante sud, dove in quel momento stava cadendo una valanga di ghiaccio. Ho impiegato quasi due ore per attraversare la cresta e salire gli ultimi metri fino alla cima nord, la più alta. Ora mi ero ripreso. Mi sono fotografato senza illusioni accanto alla croce e ho visto la cima in modo diverso da come la ricordavo nelle mie due visite precedenti. Non persi tempo e iniziai a scendere verso est attraverso la neve. Lì, un centinaio di metri più in basso, c’era una piccola tenda blu, all’interno della quale Fernando Garrido, un vicino di casa dell’Aconcagua, che viveva vicino alla vetta, mettendo alla prova il suo spirito, sperava di battere lo strano “record” di sopravvivenza.
La vita all’interno della tenda, tutto il giorno nel sacco a pelo a causa del congelamento dei piedi, è stata una vera sfida.
Il mattino seguente mi alzai deciso a iniziare il calvario dell’ultima salita. Ero totalmente pentito di aver intrapreso questa avventura. Per me l’Aconcagua era già abbastanza. Volevo solo arrivare in cima e intervistare Garrido, per realizzare il mio obiettivo giornalistico. Non potevo fallire. Raggiunsi il rifugio “Independencia”, un tempo chiamato “Eva Perón”, che è stato classificato come il rifugio più alto della Terra. È una specie di grande cuccia, senza tetto e piena di roba di Fernando, a circa 6.500 metri sul livello del mare. La temperatura si è addolcita molto e ci sono solo 15 gradi sotto zero. Ho ripreso la salita, facendo un lungo fianco verso ovest e lasciando la via delle “canaletas” alla mia sinistra. Salendo, arrampicandomi su una successione di rocce facili, vedendo la cresta sopra di me, mi sono reso conto del calvario che stavo vivendo e che più o meno tutti quelli che riescono a raggiungere la stessa cima soffrono. A volte avevo la sensazione di non riuscire a salire un altro metro. La mia mente era vuota, incapace di prendere qualsiasi decisione. In questi momenti, e questo l’ho già sperimentato in più di un’occasione, è il subconscio a farla da padrone; si è nel mondo dei sogni. Cercavo di esigere un’estrema concentrazione mentale e così mi arrampicavo per quindici o venti metri.
A volte pensavo con la tranquillità di chi sogna placidamente o, non so se gridando, di essere perso, di avere allucinazioni e di essere assolutamente privo di forze. Non sono altro che materia esausta. Sull’Aconcagua ci si trova negli ultimi metri, al confine con l’aldilà, e questo, sono sicuro, è stato provato dalla maggior parte degli avventurieri, dei curiosi e degli alpinisti che hanno tentato di raggiungere la vetta, che lo ricordino o meno.
Quali sono state le esperienze di Garrido, che è stato in vetta per quasi due mesi?
Io ricordavo, tra le nebbie della memoria e le allucinazioni del passato, i miei giorni persi e incoscienti sui versanti di questa montagna, nel 1970, e i miei terrori rinascevano solo quando rivedevo le pareti sulle quali stavo salendo.
Finalmente ho raggiunto la cresta e ho potuto vedere da vicino la Cima Sud dell’Aconcagua 6930 m e, appena sotto, l’enorme precipizio ghiacciato del versante sud, da cui in quel momento stava cadendo una valanga di ghiaccio. Ho impiegato quasi due ore per attraversare la cresta e salire gli ultimi metri fino alla Cima Nord, la più alta. Ora mi ero ripreso. Mi sono fotografato senza illusioni accanto alla croce e ho visto la cima in modo diverso da come la ricordavo nelle mie due visite precedenti. Non persi tempo e iniziai a scendere verso est attraverso la neve. Lì, un centinaio di metri più in basso, c’era una piccola tenda blu, all’interno della quale Fernando Garrido, ormai “abitante” dell’Aconcagua perché viveva vicino alla vetta, mettendo alla prova il suo spirito sperava di battere il folle “record” di sopravvivenza.
In una piccolissima tenda blu piantata sul bordo del Ghiacciaio dei Polacchi, un centinaio di metri sotto la vetta dell’Aconcagua, si trova Fernando Garrido. Spunta con un sorriso dal buco rotondo dell’ingresso.
Quando esce, ci abbracciamo e scattiamo qualche foto. Ha ventisette anni, è alto e ha un aspetto molto sportivo. Lo trovo molto bene nonostante l’enorme fatica di quasi due mesi in questa prigione cosmica, assorbendo così tante radiazioni, quelle che sembrano essere una delle cause che rendono l’Aconcagua una montagna così pericolosa.
Fernando è molto felice di vedermi e di ospitarmi questa notte. In questi giorni, molti alpinisti di diversi paesi, e molti anche dalla Spagna – è stato l’anno dell’Aconcagua – sono passati dalla vetta, come se si fossero messi d’accordo prima. Tuttavia, sono stati pochissimi quelli che sono scesi fino a dove si trova ora Garrido. Si arriva in vetta, normalmente, in condizioni fisiche molto precarie e non si è in vena di visite.
Qui, così in alto, e in questa atmosfera speciale, io e Fernando iniziamo a conversare, mentre lui, con un pezzetto di ghiaccio, prepara un caffè con latte in un pentolino sporco da settimane di zuppe.
Fernando è alto, ha gli occhi chiari e si capisce che è una persona forte e coraggiosa. Indossa un passamontagna e di solito è nel suo saccopiuma. All’interno della tenda c’è una forte puzza che però, in un attimo, diventa normale. Sul soffitto c’è una piccola fototessera della sua ragazza.
Non vedo l’ora che arrivino”, dice. Invece Maribel rimarrà a Plaza de Mulas, anche se i suoi amici cileni saliranno in cima per aiutarlo.
Fernando si trova qui sull’Aconcagua dall’8 dicembre, anche se inizierà a contare il tempo trascorso in quota solo il 30 dicembre. In un primo momento ha piantato la tenda sulla vetta stessa, ma il forte vento lo metteva a disagio e non era un luogo adatto. Quindi si è spostato dove si trova ora.
E i tuoi congelamenti?
Fernando mi mostra le sue dita piene di vesciche.
– Non è niente. È successo all’inizio del mio soggiorno qui. Le unghie dei piedi si sono staccate qualche giorno dopo. Sempre a causa di un processo di congelamento che è stato presto messo sotto controllo.
Come ti senti qui, Fernando? Come stai?
Molto assonnato e svogliato per la maggior parte del giorno. Al mattino mi misuro la pressione – mi mostra l’apparecchio – e prendo anche qualche nota sul diario. Ascolto spesso la radio e dormo molto.
Garrido mi chiede di cosa succede sulle montagne e io esagero nelle risposte. Parlo – io – molto più di lui mentre registro una “cassetta” che Fernando mi ha gentilmente regalato: e questo non è da buon intervistatore, ma il contrario. Ero io che dovevo sapere come fargli le domande perché potesse raccontare molto. Parlare tanto e con tanta passione è faticoso a questa altitudine, e mi sento molto stanco nel mio cuore, che non è più quello di una volta.
– Prendi queste pillole, César. Sono per il mal di testa e queste altre per il sonno.
E io, che non prendo mai nessun tipo di medicina, in questa occasione non sto a pensarci. Non so dire di no e le prendo senza pensare alle conseguenze. Dopo il caffè con latte, Fernando mi propone di fare una specie di latte in polverecanadese con alcune vitamine. A questo punto non si mangia altro. Quello e le mandorle che ho portato su, che lui trova deliziose. Me le hanno date le mie giovani figlie, perciò per me hanno una componente speciale a questa quota dove gli uomini si aggrappano ai loro affetti con enorme intensità.
“Mi piacerebbe scrivere un libro su questi giorni” dice Fernando. Lo stesso ha fatto il francese Nicolas Jaeger, che ha scritto Solitudine, in cui ha incluso i suoi studi su se stesso. Jaeger, morto in Himalaya, ha trascorso 59 giorni (in realtà 60, NdR) sul Huascarán, sul passo tra le due cime, a un’altitudine di 6300 metri (in realtà il campo di Jaeger era situato ben al di sopra del passo, a 6700 m, come del resto riportato anche più sotto, NdR). Si dice che il francese abbia scritto la sua tesi di dottorato in medicina sulla sua esperienza.
Certamente si sa molto poco del comportamento dell’organismo a queste altitudini. Per non parlare del cervello. Ho cercato di ricostruire, in questi racconti, frammenti di impressioni recuperate attraverso il mio diario – poi non ricordate – della mia frettolosa ascesa all’Aconcagua, ma non è la stessa cosa che stare così a lungo in alta quota. Se Fernando ha davvero preso appunti e si è osservato, cercando di penetrare in se stesso, la sua esperienza può essere estremamente interessante – anche dal punto di vista scientifico.
“Fernando, dovresti scrivere di più sul tuo diario, fotografarti” gli dico quando mi confessa la sua logica apatia e il suo costante desiderio di dormire. Lo incoraggio il più possibile, dicendogli che la sua esperienza è fantastica e che tutti lo stanno seguendo con apprensione.
Quali sono stati i momenti peggiori?
Alcuni giorni di tempesta e vento. Ho dovuto aggrapparmi alla tenda con tutte le mie forze perché reggesse. Senza la tenda, César, sarei perduto. Non sono niente, non sono niente. E il lampo è qualcosa che non si può spiegare. Una chiarezza costante, come se il sole fosse sorto nel cuore della notte. È spaventoso.
Ma, dopo la tempesta, arriva la calma.
Lo spero. E che, nei giorni che mi restano, non ci siano né vento né folgori.
A poco a poco, le pillole contro l’insonnia – un disturbo comune in alta quota – cominciano a fare effetto e la conversazione rallenta. Fernando è pieno di progetti e io gli propongo di portarlo in Antartide se la mia spedizione andrà avanti.
Sei già un sopravvissuto a tutti gli effetti...
Antartide? Sarei entusiasta!
Siamo uno di fronte all’altro – l’uno contro l’altro – nella piccola tenda, dove non fa troppo freddo in confronto ai giorni scorsi.
Ha detto che si sono toccati i -35° gradi. Io, in ogni caso, ho trascurato di coprirmi la schiena ed è fredda come il ghiaccio. Sono vestito di tutto punto, compresi gli scarponi doppi, che non ho tolto, e sono dentro a uno spesso saccopiuma che Fernando mi ha dato.
Improvvisamente si ricorda che è il giorno del collegamento con José María García.
La notte a 7000 metri è passata senza che ce ne accorgessimo (in realtà la tenda era sistemata a poco meno di 6900 m, NdR). Fernando si misura la pressione e io gli scatto qualche foto. Non si è nemmeno tolto la giacca. Gli auguro tutta la fortuna che merita.
Pochi giorni dopo, Fernando Garrido avrebbe battuto il record del francese Jaeger, rimanendo 62 giorni a un’altitudine di circa 6900 metri.
Ha dovuto comunque sopportare un enorme temporale con fulmini e ha perso il collegamento radio. Questo strano “record” avrà uno scopo: Fernando scriverà le sue esperienze e dai suoi appunti l’umanità saprà qualcosa di più su come l’uomo può sopravvivere sulle alte quote della Terra.
Al suo ritorno in Spagna, il quotidiano El País pubblicò il seguente articolo, di Juan Mora:
“Madrid, marzo 1986. Fernando Garrido, 27 anni, è arrivato in Spagna ieri mattina. Ha volato direttamente a Madrid da Santiago del Cile in prima classe per gentile concessione di Iberia. Il viaggio di andata è stato un vero e proprio pellegrinaggio: Saragozza-Marsiglia, in autobus; Marsiglia-Rio de Janeiro, con la compagnia aerea più economica che ha trovato, e Rio-Santiago, sempre in autobus. Gli è bastato trascorrere 61 giorni sulla cima dell’Aconcagua, a 6959 metri di altitudine, perché questo cambiamento avvenisse (una misurazione più recente ha fissato a 6962 m la quota della vetta, NdR). Mai un essere umano ha trascorso così tanto tempo in condizioni così estreme. Non sarà lui a riprovarci: “È stato peggio di quanto immaginassi e, anche se ne è valsa la pena, non ripeterò mai l’esperienza”.
L’avventura di Garrido gli ha permesso di stabilire il record mondiale per la più lunga permanenza in alta montagna. Il precedente record era detenuto dal francese Nicolas Jaeger, che nel 1979 ha trascorso 60 giorni sulla cima dell’Huscarán, in Perù, a un’altitudine di 6700 metri. Garrido afferma che Jaeger, morto nel 1980 in Himalaya, lo ha tratto in inganno: “Ho letto il suo libro e mi è sembrato facile trascorrere due mesi in alta montagna. Ora posso assicurarvi che è stata un’esperienza terribile”. Garrido portò con sé sull’Aconcagua la Bibbia, libri di yoga e gli scacchi. “Non riuscivo a leggerne nessuno perché ero incapace di fare il minimo sforzo mentale. Sono sempre stato pigro, al punto che avevo problemi a dovermi preparare il cibo ogni giorno. Questa era una delle conseguenze del vivere a un’altitudine dove manca l’ossigeno, c’è un disagio continuo e, finché il corpo non si acclimata, l’organismo rifiuta qualsiasi tipo di cibo.
Le salsicce e i formaggi che Garrido ha portato con sé in vetta sono stati lasciati là per un’occasione migliore. Voleva solo prodotti liquidi. In questi due mesi ha perso 11 kg di peso e le sue mani e i suoi piedi erano sul punto di congelare a temperature di 20 gradi sotto zero. “Ho indossato tre paia di guanti e scarponi a tre strati, ma ho avuto congelamenti lo stesso. La cosa peggiore è stata quando sono riuscito a farli reagire, perché il dolore che si prova è inimmaginabile”.
Ha dovuto sopportare situazioni ancora più critiche, anche se per fortuna senza conseguenze. Era quasi alla fine della sua avventura. Aveva superato il confine della paura, che si era trasformata in dolore “perché vedevo che la mia vita stava per finire quando mi sono trovato in un temporale come mai avrei potuto immaginare. Le pietre esplodevano accanto a me e i capelli mi si rizzavano per l’elettricità”.
È stato uno dei momenti in cui Fernando Garrido ha potuto riacquistare lucidità nella sua letargia, mentre ricorda quasi tutto il resto come in un sogno: “È come se la mia vita avesse una parentesi. Ho ricordi sfocati, che non so se fossero reali. La lotta contro la natura è stata molto più dura di quanto potessi immaginare. Ho persino perso la cognizione del tempo. Sapevo quanti giorni ero stato lì perché i miei compagni me lo dicevano via radio. Sono stati quei contatti che mi hanno permesso di sopportare quella che, alla fine, era una situazione insostenibile”.
Questo maestro di sci è tornato come un eroe. Quando è andato all’Aconcagua, ha coperto a malapena il budget, circa due milioni di pesetas. Ora invece sta già pensando alla traversata dell’Himalaya, dal Pakistan alla Thailandia”.
César Pérez de Tudela racconta quell’esperienza in cima all’Aconcagua (racconto radiofonico)
Un alpinista spagnolo precedentemente poco conosciuto aveva trascorso 50 giorni in cima all’Aconcagua conducendo ricerche sulla resistenza all’altitudine e superando un record di permanenza, da lui già raggiunto.
Questo cronista che vi parla, in quell’anno 1986, era responsabile del programma di sicurezza e salvataggio nelle montagne spagnole della Direzione Generale della Protezione Civile dello Stato spagnolo e dei corsi di insegnamento del salvataggio per i vigili del fuoco. L’agenzia EFE ha ritenuto che la sopravvivenza di Garrido fosse una notizia e mi ha incaricato di intervistarlo ai vertici. Fare giornalismo di quella portata mi sembrava un’idea importante. È stata l’intervista giornalistica più alta mai realizzata.
Sono andato in Argentina, sono arrivato a Mendoza e sulla strada per Puente del Inca ho ricordato le mie straordinarie esperienze passate su questa montagna che avrebbe potuto essere la mia tomba e dal cui cimitero ho preso la piccola lapide che il consolato spagnolo mi aveva commissionato in memoria. Ero stato in cima in due occasioni precedenti, una accompagnato dall’italiano Walter Bonatti e un’altra completamente da solo, senza nessuno in quei luoghi che potesse mitigare la sensazione di solitudine.
In quella spedizione con obiettivi giornalistici, dovevo scalare la montagna per raggiungere la cima e fare un reportage su Fernando Garrido. Niente di più né di meno.
Come molti ascoltatori sanno, l’altitudine richiede acclimatazione, permanenza in quota, discesa e risalita. Ma nel mio caso devo dirti che sia nella mia prima che nella seconda salita e in tutte le montagne che avevo scalato fino ad allora ho sempre salito diretto, a volte lentamente, ma sempre costantemente verso la cima. La mia prima salita è stata un evento popolare in Spagna e Argentina. Era l’anno 1970, nel mese di febbraio, e invece di scendere per la via su cui ero salito, con la mente oscurata dall’altitudine, forse dalla salita frettolosa, scesi lungo il versante sud-ovest, lungo la cosiddetta via di Polacchi, dove nessuno metteva più piede dal 1934, e ho trascorso diversi giorni e notti senza fermarmi, senza dormire né mangiare, senza saccopiuma, vivendo un’avventura estrema dalla quale già mi consideravano morto e disperso e della qualevi racconterò, ma un altro giorno.
Vi raccontavo che ero arrivato all’Aconcagua con l’idea e l’incarico di realizzare un servizio su Fernando Garrido, che in quei giorni faceva notizia a livello internazionale, resistendo più di 50 giorni sulla cima dell’Aconcagua.
Tutto era diverso in Aconcagua da come lo avevo conosciuto vent’anni prima. Attraversare il fiume Horcones (oggi ha un ponte) è stata una delle maggiori difficoltà che avevo sperimentato a causa del pericolo di essere travolto dalla corrente, a volte saltandone il canale, a seconda delle stagioni e delle ore, con acque molto tumultuose. Mi avvicinai lentamente alla quota fino a raggiungere Plaza de Mulas, dove già a 4000 metri oggi c’è un albergo che dà ulteriore protezione da quelle terre che in altri tempi erano completamente desolate e sperdute. Tutto è stato più semplice che in passato.
Nel piccolo rifugio trascorsi quella notte ascoltando un giapponese raccontare della morte del suo compagno morto in vetta, vittima dell’altitudine e del deterioramento fisico, dopo aver salito la difficile e lunga parete sud.
Ho proseguito il giorno successivo verso il vecchio rifugio dell’Antartide argentina, che ho trovato completamente distrutto. Ho trascorso una dura notte fredda tra le sue rovine e ho deciso di tornare di nuovo a Plaza de Mulas per riprendermi.
Due giorni dopo ho ripreso la salita completamente da solo. Mi rifugiai a quota 5800 nel rifugio Berlin, in una piccola baita, dove avevo dormito con Bonatti nel 1971, e nel 1972 nella mia salita solitaria.
Passato sotto le Canaletas, ho svoltato a destra, evitando le cadute di sassi, salendo alcune piccole creste più verticali.
È stato lì che ho vissuto un’esperienza che ho raccontato in uno dei miei libri: all’improvviso mi sono sentito impotente, esausto e vicino alla morte. Mi ero rassegnato a morire lì e mi addormentai esausto su un minuscolo cornicione. Prima chiedevo ai miei amici morti di intercedere per il mio aiuto.
E ricordo perfettamente di aver ricordato Fernando Martínez che morì sul Monte Sarmiento, Pedro Ramos, mio compagno di scalata negli ultimi anni degli anni ’60, e altre persone a me care e stimate.
In quell’occasione devo confessare che ero immerso nell’inconscio, avvolto in quel tunnel nero di cui a volte si parla e che vidi per la prima volta, nonostante altre volte fossi stato molto vicino alla fine della mia singolare esistenza. Il tunnel e la sensazione del buio a poco a poco hanno avuto un’uscita, e così mi sono svegliato dal mio letargo mortale e mi sono alzato. Le mie forze sono rinate.
Terminata la salita sono rimasto ancora incantato dal grande precipizio della parete sud, davvero travolgente.
Sono arrivato in cima e ho iniziato a chiamare Fernando Garrido, che a sua volta mi ha risposto dicendomi dove si trovava.
Era accanto alla sua piccola tenda, sotto la vetta protetta dal vento. Sono andato da lui e ci siamo abbracciati. Ricordo che mi disse che nella sua infanzia ero una specie di Mask Warrior. Quello che mi è piaciuto. Gli ho spiegato quale fosse la mia missione, gli ho scattato diverse fotografie e lui mi ha invitato ad entrare nella sua tenda, che puzzava. Mi preparò un caffè in una tazza molto sporca, e cominciammo a registrare un’intervista su una “cassetta” che aveva, una di quelle di allora, che è un documento unico.
Le mie domande erano lunghe e le mie parole avevano un suono di voce speciale, proprio come le risposte di Garrido. È stato un lungo pomeriggio che è continuato fino a notte fonda.
Sto rileggendo il mio libro Crónica Alpina de España e sono a pagina 355 e leggo:
“Mi permetto di trascrivere alcuni paragrafi del libro di Garrido, 7000 metros, diario de supervivencia. C’è scritto:
“5 febbraio, giorno 54 in vetta all’Aconcagua. Oggi, come altre volte, mi sono svegliato con la sensazione che ci fosse qualcuno fuori, vicino alla tenda… È stato lì tutta la notte? E perché non avrebbe dovuto chiamarmi per farlo entrare? E perché non mi chiama adesso? Forse ha dormito rannicchiato accanto alla mia tenda cercando di riscaldarsi. Devo uscire per dirgli che ho una tazza di tè caldo per lui… Esco dalla tenda e mi sento leggero e potente… il sonno mi ha dato nuove forze… Ma ecco uno zaino, lo zaino di qualcuno!… E c’è una persona rannicchiata accanto alla mia tenda!… È mio fratello, mio fratello Javier!…”.
Appoggiai la schiena alla sua tenda, il cui tessuto era coperto da uno strato di ghiaccio, e mi infilai in un sacco che Garrido mi offrì. Stavamo mangiando le mandorle che mia figlia Paula mi aveva comprato e che servivano da collegamento con il mondo che era così lontano… mentre parlavamo.
Quella conversazione registrata era un documento unico che psicopatologi, psichiatri e altri studiosi avrebbero dovuto analizzare. Ho messo alcuni frammenti su RNE e ricordo che le persone chiamavano, impressionate nel sentire il tono delle voci, che suonavano misteriose con un tono diverso da quelle normali.
Parlavamo come se non avessimo più alcun rapporto con la Terra, come i mistici, senza difesa, senza quell’autocontrollo che ci inibisce e che abbiamo sempre senza rendercene conto. Eravamo nello spazio e il nostro rapporto con la Terra era molto distante. Era assoluta libertà di espressione, totalmente impossibile sulla Terra, psicologicamente libera e con piena autonomia nelle nostre espressioni.
Le mie domande erano lunghe e talvolta era come mi rispondessi da solo tramite Garrido, che raccontava le sue sofferenze in tanti giorni trascorsi in vetta a quasi 7000 metri di altezza.
Ha detto di aver fatto un sogno terribile. Un sogno che lo ossessionava ancora nonostante lo avesse fatto giorni prima: aveva visto il corpo di suo fratello minore morto. E non era riuscito a togliersi quella visione dalla testa.
Avevo studiato qualcosa sulle situazioni ipnagogiche in quota, nelle quali a causa dell’ipossia la mente immagina e vede ciò che non esiste, oppure vede ciò che può esistere e noi non vediamo, sogni che si confondono con la realtà e le allucinazioni con i sogni.
Così, vittima di quella situazione ipnagogica, ero disceso per cinque giorni, tra allucinazioni, i precipizi del versante sud-ovest dell’Aconcagua, e così ricordo anche un sogno tragico che feci durante il mio solitario tentativo all’Annapurna nel 1973.
Il sogno di Garrido curiosamente è stato, o avrebbe potuto essere, e qui sta il mistero che l’altitudine può comportare, un annuncio, una premonizione o un avvertimento del terribile evento di cui furono vittime mortali i suoi genitori, pochi mesi dopo il loro ritorno in Spagna. Potrebbe anche essere una coincidenza, ma ho già vissuto tante esperienze soprannaturali e sono propenso a pensare a quell’ipotesi.
Suo padre, il generale Garrido, governatore di San Sebastián, sua madre e il suo fratellino morirono nell’esplosione di una bomba nell’auto ufficiale. E Garrido ebbe in parte quella terribile e orrenda visione in sogno sulla vetta dell’Aconcagua diversi mesi prima.
Scesi dall’Aconcagua impressionato da quella notte in quota, nella quale avevamo parlato di tanti desideri e illusioni comuni, totalmente fuori dal positivismo dell’esistenza.
Ritornai subito a Madrid, per adempiere ai miei obblighi, allora alla Direzione Generale della Protezione Civile (su questioni di soccorso che mi appassionavano, o sulla preparazione dei vigili del fuoco spagnoli per il soccorso alpino) ma per una settimana mi sembrò che fossi ancora in quelle regioni elevate, in cui la mente è dissociata dal corpo, proprio come avevo letto nei poemi mistici.
Ho consegnato il rapporto al mio amico Llados Sort, allora capo dei Servizi Speciali, e la rivista HOLA lo ha successivamente pubblicato in esclusiva.
Epilogo
di Fernando Garrido
Le persone che quella notte si trovavano al campo base erano spagnoli di Santander e delle Asturie, jugoslavi, argentini, alpinisti che aspettavano il bel tempo perché nelle ultime due settimane il Vento Bianco aveva impedito loro di salire sull’Aconcagua. Mentre mi tempestavano di domande, non potevo smettere di guardare quelli che preparavano il cibo. Tagliavano i pomodori, molto rossi, molto belli… Poi li servivano conditi con olio, aceto e sale. Non credo che potrò mai dimenticare la sensazione di prendere una forchetta pulita e mettermi in bocca una fetta di pomodoro…
I ricordi di quella prima notte di ritorno alla civiltà sono confusi nella mia mente. Ad esempio, ricordo che tutti volevano organizzare una festa per festeggiare il mio ritorno, ma ero così stanco che ci prestarono una tenda in modo che io e Bel potessimo passare la notte. Ricordo anche che le mie gambe sembravano non esistere dal ginocchio in giù, e questo mi preoccupava. Ad un certo punto Bel, con il suo sorriso smagliante, si è voltata verso di me e mi ha detto che ero invecchiato molto e che stavo diventando calvo. Non ho dimenticato neanche questo.
La mattina dopo i miei piedi avevo perso l’uso dei piedi e Maribel doveva aiutarmi quando volevo spostarmi da un posto all’altro. Ho fatto l’errore di esporli al sole e loro hanno reagito all’improvviso. Il dolore divenne così terribile che dovetti prendere due pillole di un antidolorifico molto forte per sopportarlo. Mi sentivo come se le piante dei piedi venissero bruciate con una torcia. Bel è rimasta al mio fianco per aiutarmi mentre mi guardava mordere un fazzoletto con i denti, per rabbia e disperazione, e le lacrime scorrevano dai miei occhi senza che potessi trattenerle. Solo dopo tre ore di dura prova le pillole cominciarono a fare effetto. Intanto Bel doveva prendere in carico la situazione e coordinare tutta l’operazione di discesa, mentre i muli venivano preparati.
Non posso specificare adesso come sia stato il viaggio a Puente del Inca. Mi sono sentito “spaventato” dagli antidolorifici mentre il mulo mi trasportava, e ricordo solo l’acqua dei ruscelli che scintillava al sole. Quando sono arrivato ho dovuto fare uno sforzo per superare lo stordimento, perché c’erano giornalisti da tutto il mondo che mi aspettavano fin dal mattino. Molti di loro erano arrivati con un enorme autobus noleggiato da Santiago attraverso Uriarte e Garmendia. C’erano persone delle televisioni cilene e argentine, ma anche degli Stati Uniti e della Spagna. Giornali, riviste, riviste… tutti mi assalivano con le loro domande. Erano desiderosi e gentili, e cercavano il fatto emozionante, il “gancio” per sostenere la cronaca. Mi sentivo spaventato e confuso in mezzo a quei flash che mi illuminavano costantemente…
A Santiago ho ritrovato Marcelo e Flavio. Mi ha dato una grande gioia rivederli. Più tardi, in albergo, il telefono cominciò a squillare quasi costantemente. Allo scoccare della mezzanotte mio fratello Javi mi chiamò dalla Spagna e mi avvertì che avevano così tanto parlato di me che avrei fatto meglio a prepararmi. Di quella prima notte euforica e confusa ricordo un’enorme bistecca che mi fu messa nel piatto per cena, che non riuscii a finire, e infine una bella doccia. L’acqua è letteralmente venuta fuori nera. Non sembravo più me stesso, pulito, ben nutrito e disteso in un letto morbido, con Maribel al mio fianco.
Abbiamo soggiornato per una settimana a Santiago del Cile, in una suite del miglior albergo della città, con tutte le spese pagate da Uriarte e Garmendia. Durante la mia prima notte a Santiago, Jose Maria García stabilì nuovamente la comunicazione con me a un microfono aperto e, venendo a conoscenza delle mie difficoltà finanziarie, lanciò un appello dal vivo a tutto il Paese. Dieci secondi dopo, chiamata da El Corte Ingles: un milione di pesetas!… Non potevo crederci… Venti secondi dopo, chiamata da Sanitas: ottocentomila pesetas! Jose Maria García mi ha chiesto se ne avevo abbastanza e da quando ho detto di sì non hanno più ricevuto altre aziende che continuavano a chiamare…
Sappiamo tutti che la vita può cambiare in un attimo. Ciò che non immaginiamo è che questo cambiamento possa contenere conseguenze inaspettate. Nel mio caso, all’improvviso, sono diventato una persona importante che veniva trattata con lode e che veniva riconosciuta per strada. In quei primi giorni dovevo recarmi alla Società Spagnola di Mutuo Soccorso per fare la prima visita medica; era importante che ciò avvenisse rapidamente, prima che l’organismo iniziasse il suo processo di “normalizzazione”, di adattamento all’ambiente che gli era familiare. Mi sentivo estremamente debole e i miei piedi continuavano a portarmi lungo la strada dell’amarezza, al punto che dovevo essere preso e riportato indietro in macchina o in taxi costantemente.
Di quella specie di cerimonia di confusione dei primi giorni a Santiago, ho il ricordo che ero come una specie di bambola obbediente che faceva quello che le dicevano. Tutto mi sembrava bello ed ero disposto a fare qualsiasi cosa… Tutto era così nuovo!… Marcelo era incaricato di preparare per me un fitto programma di interviste, ricevimenti e omaggi, e Maribel era sempre con me… La vita era facile! Ci hanno dato dei vestiti, ci hanno invitato a pranzo, tutti sono stati cordiali con noi…
Iberia ci ha fornito biglietti di prima classe per tornare in Spagna. C’erano molti giornalisti a Barajas che mi aspettavano, e anche la mia famiglia e i miei amici di Saragozza. Penso che lì, per la prima volta, ho avuto la consapevolezza che tutto era finito, che il Vento Bianco non mi avrebbe più minacciato, che il presente stava diventando passato e che cominciavo a lasciarmi alle spalle l’Aconcagua. Solo ora ritorna con passione alla mia memoria, mentre scrivo questo libro.
Bibliografia (Biblioteca e Archivio CCAM)
– Rivista Aventura, 1986
– Rivista Hola, 1986
– Autobiografia, di César Pérez de Tudela
– Diario El País, 1986, di Juan Mora
– 7000 metros, diario de supervivencia (Martinez Roca, 1989), di Fernando Garrido.
Area Restauro Fotografico CCAM: Natalia Fernández Juárez
Apprezzo la determinazione del giovane Fernando.
Però il racconto mi conferma ancora una volta che nella vita ognuno si fa del male come meglio crede.