di Enrico Camanni
Nei saldi di fine anno il ministero del Turismo ha assegnato 152 milioni di euro alla montagna, così suddivisi: 148 milioni al turismo della neve (impianti di risalita e innevamento artificiale) e 4 milioni all’ecoturismo per «minimizzare gli impatti sociali, economici e ambientali» del settore. Una mancetta. Impiantisti a parte si sono indignati tutti, perché come al solito piove sul bagnato (neve ce n’è più poca) e la politica continua a considerare la montagna una specie di distretto speculativo in cui esiste solo il turismo pesante, l’unico ambito che meriti di essere sostenuto e promosso. Come non ci fosse altro – altre persone, altri sguardi – salvo una spolverata di nostalgia sul bel tempo andato: che per i turisti con i piedi al caldo è sempre un passato romantico, tanto sono solo vecchi oggetti appesi alle pareti dei locali alla moda.
Nel 2002, mentre scrivevo “La nuova vita delle Alpi”, vedevo due montagne, due approcci e due visioni. Le vedo anche oggi, ancora più distanti di allora, e vedo che quella ricca ha bisogno degli aiuti di stato per sopravvivere e l’altra si arrangia come sempre. L’accresciuta sensibilità ambientale e le crescenti angosce per la crisi climatica hanno scavato il solco tra il modello consumista del turismo di massa e un nuovo modo di pensare, frequentare, vivere e abitare, che al momento è rinchiuso nelle coscienze individuali, nei bisogni collettivi e nelle laboriose ma invisibili officine di comunità. Dietro una faccia della medaglia si celano le aree interne, per loro natura nascoste, sull’altra luccicano le testate di valle che si nutrono di visibilità e sulle quali incombono le maggiori minacce ambientali. Sono le località patinate a destare gli appetiti degli investitori, mentre delle cenerentole non si cura nessuno.
La nostra Montagna Sacra, il Monveso di Forzo, si colloca nel secondo ambito perché non avrebbe senso schiaffarla in mezzo a una girandola di attrazioni turistiche. Ma dal mio punto di vista non si tratta di una scelta moralistica, tipo la montagna buona contrapposta a quella cattiva; preferisco pensarlo come l’inizio di un percorso culturale: abbiamo dei territori che per miseria e per fortuna sono rimasti ai margini del modello consumistico urbano (di cui tutti siamo responsabili, tutti) e proviamo a ripensare la nostra presenza in quei territori, il nostro rapporto con la natura, il nostro essere natura, che naturalmente coinvolge le persone che in quei posti vivono e non possono essere sacrificate alle sublimi visioni della gente di città. La sacralità riguarda anche loro, come riguarda noi, le rocce del Monveso e ogni presenza in quei luoghi. Non sarà facile, perché non si tratta “solo” di salvare un luogo dalla prevaricazione umana. La provocazione va oltre, scende in profondità. Si tratta di ripensare la montagna e ogni pezzo di mondo come un luogo “sacro” di per sé, un patrimonio universale, una cosa degna di rispetto a prescindere dal valore monetario e dall’uso materiale, proprio come facciamo con la proprietà privata, sacra e inviolabile.
Pienamente d’accordo con Enrico.
E sarebbe bello che ogni persona che va in montagna abbia e rispetti una propria montagna sacra, che in ogni corso di alpinismo non si salga “quella montagna” per lasciare un messaggio “sacro”, per dare senso al limite e darsi un limite.
Sarebbe bello che si lasciassero spazi bianchi in modo tale che possano essere colorati dalle prossime generazioni. Sarebbe bello…
Grazie Beppe per il suo commento e le considerazioni che contiene!
La nuova vita sulle Alpi, le Alpi laboratorio di sostenibilità, qua e là germogli che stentano a dare frutti per la diffusa siccità culturale.
Io penso che si onori la sacralità di una montagna (delle montagne, della natura) non tanto vietandone la salita ma salendovi in modo sacro.
È il significato di “sacro” che va compreso in questa epoca di narcisismo.
Buongiorno Agnese. Grazie per il suo commento, che tuttavia abbisogna di una precisazione necessaria e ferma: il progetto “Monveso di Forzo. Una Montagna Sacra per il Gran Paradiso” non prevede e non ingiunge NESSUN divieto di ascesa alla vetta del monte, ma quella di non salirvi è una scelta libera, simbolica e parimenti emblematica di chi, aderendo al progetto, vuole in questo modo significare la necessità ineludibile di porre un limite alla presenza dell’uomo nei territori naturali, in primis quelli montani così speciali tanto quanto delicati e fragili. E’ un piccolo gesto, un segno che viene proposto in questo senso, non certo pensando a chissà quali divieti o ingiunzioni simili: siamo e restiamo liberi di andare ovunque, ma allo stesso tempo dobbiamo capire se non sapremo stabilire e rispettare certi limiti nel nostro abitare, vivere e occupare il mondo, l’impatto che vi cagioneremo sarà sempre più pesante e irrecuperabile. A scapito del Monveso come di ogni altra montagna e, inevitabilmente, di tutti noi.