Anche da lontano…
di Alessandra Panvini Rosati
Leggeva Balzac, una sera piovosa che inequivocabilmente puzzava di autunno imminente.
Il buon vecchio Honoré aveva avuto di suo una vita da romanzo, con una madre poco affettuosa e isolata. Infatti, scrisse di donne sfortunate e di matrimoni infelici, di drammi della vita privata e della disgregazione delle coppie. In quel preciso momento, non avrebbe potuto trovare scrittore più azzeccato. Si ricordò anche della sua frase: “E’ sempre chi ama di più a essere tiranneggiato e, quel che è peggio, prima o poi abbandonato”. L’allegria non volava alta in quella stanza e la terza sinfonia di Mahler metteva sul tavolo il Sette Bello.
“Vai avanti, sempre avanti”, le disse un suo amico lontano; telefonava dal suo maso in quella sperduta valle, dove ancora parlano uno strano dialetto. “Vai avanti, come fai quando hai percepito la via in roccia, quando ascolti le pietre che ti sussurrano la strada. Vai avanti che in cima ci arrivi, prima o poi. Pazienza per tutto il “resto”, ch’el vada in mona”

In effetti, quel “resto” era proprio come ciò che ti rendono alla cassa del supermercato: solo un residuo. In quella parte di vita che già ricordava al passato remoto, era stato un valore aggiunto. Nonostante la disillusione, ora non riusciva a riporlo nel portamonete, come argent de poche.
L’importante era che il tempo passasse, in un modo o nell’altro, la vita è un transito accidentale. Lei aveva le montagne a farle compagnia, a regalarle quella sensazione di appartenenza a qualche cosa.
Per ironia, quando era immersa nel suo mare di roccia, camminando alle basi delle pareti, si sentiva meno affranta ma circondata dagli eterni motivi per cui vale sempre la pena di andare avanti. Nonostante il “resto” (ch’el vada in mona).
Arrivò un sms.
Si aspettava un invito per qualche ascensione o scalata, anche due passi per mangiare la polenta. Andava bene tutto in quel periodo di fine stagione, quando partono i saldi alpinistici al ribasso.
Il meteo era previsto come il suo stato d’animo: infelice.
Fu così: invito a recarsi in Friuli e tentare la normale dei “Cacciatori Ertani” al Monte Duranno, dal Rifugio Maniago. Unico problema: il mittente. Il residuo che avrebbe dovuto evitare, come le zanzare tigre d’estate. L’infelicità, però, si costruisce con le proprie mani: accettò l’invito.
In tempi non sospetti, quando ancora quel “resto” non c’era e la vita si gestiva piatta ma rassicurante come la minestrina scotta del Policlinico, era stata a visitare quei luoghi aspri e lontani. Se n’era innamorata a prima vista, com’era solita fare per tutto ciò che la riguardava e, grazie alla magistrale competenza, sbagliando sempre.
Sì… ma non per i luoghi di montagna! In quelli, il suo fiuto era eccellente. Scovava brandelli d’isolamento, vallate apparentemente inospitali e (grazie a Dio) poco frequentate, cime timide che non ostentavano.
Il parco delle Dolomiti Friulane è la patria di chi desidera toccare con mano ciò che resta di una montagna originale e ancora credibile. Era salita al Rifugio Maniago, dal parcheggio di Casera Mela, poco sopra Erto, un giorno di gran caldo di fine luglio. Una visita di perlustrazione, in fretta e da sola.

In quelle zone è davvero raro incontrare qualche escursionista; è parte del loro mistero. Il Duranno per esempio, relazioni varie forniscono altimetrie differenti: 2652 m, 2668 m, 2688 m…
Quel massiccio era là, dietro al rifugio, imponente e bello. Forse un po’ rude ma l’aveva capito che era tutto un teatro. Chiese al rifugista le indicazioni sulla via normale di salita. Lunga, in ambiente, tecnicamente semplice: forse un passaggio di IV meno? A volerlo cercare! Capito. Doveva tornarci con qualcuno; da sola non era proprio il caso, lei non era Nives Meroi! Seduta, fuori dalla baita, con una radler in mano, scambiava due parole col gestore.
Le piacque tutto di quell’anfiteatro: il rifugio “che-è-proprio-un-rifugio-e-non-un-albergo-in-quota”, la vallata con vista sulla frana del tristemente famoso Monte Toc, il Duranno con i suoi silenzi e le sue rocce grezze. Come per altre montagne (ma non tutte) si stavano annusando le code, lei e il Duranno: scodinzolare o alzare il pelo? Lei scodinzolava e si metteva in segno di resa, lui alzava una mezza cresta.
Complici altri progetti alpinistici sommati alla non irrisoria lontananza dal suo luogo di residenza, il Duranno divenne un desiderio non soddisfatto, per parecchio tempo. Non avrebbe mai pensato, allora, che ci sarebbe tornata nel momento peggiore dei suoi ultimi anni, quando quel “vai sempre avanti, come tu sai fare” era diventato un mantra. Mai immaginato che lo avrebbe scalato proprio con lo scampolo di fine stagione.
Lei era lei, il Duranno era il Duranno, il “resto” era un enigma. Nulla di positivo, tranne il Duranno.
Venne il momento.

Gli improbabili personaggi salirono di pomeriggio al Rifugio Maniago. Zaini troppo pesanti, resi tali dalla circostanza ambigua. Discorsi troppo futili, non per pochezza di spirito bensì per la situazione surreale. In quella zona, non a caso, si dirama il trekking dei silenzi; forse bastava pensarci.
Il tempo era tendente al peggio, si rischiava di essere arrivati fin là per un bel niente, visto con gli occhi di chi deve “timbrare il cartellino della cima” ad ogni costo. Lei non aveva pensato a un piano B considerando che, in montagna, viveva ogni momento per quello che vale, senza pagelle in base al risultato. Se proprio si doveva parlare di piani alternativi, era la sua esistenza a doverne cercare uno.
Bello il sentiero che porta al Maniago: greto di fiume e poi su, in un bosco umido e odoroso di funghi. Se lo ricordò nonostante fossero passati alcuni anni. Ottima memoria, purtroppo. Il rifugio si nasconde fino all’ultimo, dietro ad una salitina, dopo un traverso a mezza costa, te lo trovi davanti.
A un primo momento, Tony, il gestore, ti spiazza. Diffidenza e sguardo torvo. Il luogo è isolato, non battuto da orde di selvaggi in processione dolomitica, come nel vicino Cadore. Si ha l’impressione di entrare in casa d’altri, cosa che da un certo punto di vista è vera.
Tony, con la moglie, vive lassù parecchi mesi l’anno, spesso con la sola compagnia della TV, di un gatto, dei cervi che vengono a fargli visita di notte e di un buon bicchiere di rosso (meglio due).
Come poter affermare che quella non sia casa sua?
La coppia improbabile arrivò. Erano unici ospiti per quella sera, eccezion fatta per un paio di amici del rifugista. Si fiutarono tra loro, empatia in divenire. Lei, furbetta, piazzò un assist sull’Inter (si ricordava che Tony ne è tifoso). Dopo 5 minuti, erano in sintonia perfetta. Iniziava a piovere. La Val Zemola si chiudeva a riccio attorno a loro. Il Duranno ancora non scodinzolava. Cena. Scambi di opinioni calcistiche, paio di bicchieri. Stop.
Il giorno dopo non avrebbero potuto tentare la salita. Pioggia, branda.
Atmosfera controllata, tutto normale, quasi non fosse mai successo niente tra loro due. Il trekking dei silenzi stazionava in quella stanza.
Notte. Ottima, nonostante l’enigma, coperte pesanti e calde. Silenzio rotto da qualche refolo di vento tenuto sotto controllo da perfette intercapedini (buon lavoro Tony!).
Mattina. Sveglia. La pioggia lavava i tronchi tagliati e già scortecciati di fronte al rifugio. Scesero a fare colazione e lei ebbe finalmente il cuore pizzicato da una cosa tenera: trovò un bigliettino, di fianco al tovagliolo. Tony le aveva scritto la bella notizia: avevano vinto il DERBY!
Un secondo dopo apparve dalla cucina portandole una tazza di caffè caldo, con un sorriso che parlava da solo.
“Vai sempre avanti. E ch’el vada in mona” . Gesti così offrivano un piccolo aiuto.
Nel passato remoto avrebbe pagato per avere un giorno di pioggia in regalo, in un luogo simile e con quella presenza. Al momento, invece, si sentiva dissociata: desideri alpinistici, fantasie umane e romantiche, constatazioni razionali e lancinanti.
Lei era lei. Il Duranno non le stava dando una mano, accidenti.
Tony sistemava in cucina ma non perdeva occasione per raccontare qualche interessante aneddoto di vita, nel mezzo della Val Zemola. Si percepiva in lui una sofferenza nel vedersi mal giudicato da alcuni avventori frettolosi e supponenti, superficiali nelle loro pretese.

Difficoltà nel gestire un rifugio del genere, dove nessuno passa per caso, dove un mancato annullamento di una prenotazione può determinare perdite economiche e cibo da buttare, dove le atmosfere possono apparire crude ma mai insignificanti. Lei intuiva in Tony un cuore vero. Anche “il resto” pareva a suo agio, in sintonia con l’atmosfera. Gestione della giornata uggiosa. Ciò che si desidera non sarà mai più a disposizione; il tirare sera diventa mortificante. Pessimi attori in una perfida commedia. Idea brillante quanto poco originale: partitella a briscola. Lei vinse entrambe le competizioni: ulteriore prova della sua sfortuna in amore. In ben altra circostanza sarebbe scaturita la battutona… in questo caso evitò il sarcasmo.
Nel pomeriggio decisero di muovere verso Casèra Bedin, sull’altro versante della vallata con sentiero a mezza costa. Pessima idea. Ci arrivarono bagnati come costumi da bagno usati. Grandine, vento e nessuno. La vallata rumoreggiava con forti tuoni.
Quella sera Tony cucinò mentre nell’oscurità si vedevano i cervi nella radura, a pochi metri dallo spiazzo di fronte all’entrata. Era quasi tempo di castagne, di riporre le corde e i moschettoni a riposo per qualche mese. Caricarono la sveglia per il mattino seguente, per fare almeno un tentativo. Avrebbero provato a salire fino a Forcella Duranno, a circa un’oretta dal rifugio.
Partirono tra la nebbia, Tony uscì a salutarli. Lei voleva fortemente immergersi nel Duranno ma non aveva un animo sereno. Era quasi dispiaciuta: salirlo così era offensivo. Abituata alla determinazione, serietà, chiarezza di obiettivi… ora stava arrancando salendo alla forcella. La metafora della sua vita: un continuo salire e quando ti pare di essere in cima, arriva la scarica di sassi. Tutto il “resto”, è noia… direbbe la canzone; nella fattispecie era indifferenza.

Forcella Duranno. Il sole era un’entità astratta, si vedevano stambecchi, nessun bipede tranne i due soggetti. Lei dietro a debita distanza. Dopo alcuni traversi su canaloni franosi ma camminabili, arrivarono all’attacco della parte alpinistica. Si sapeva che la via sarebbe stata lunga, poche le relazioni dettagliate.
“Non si è mica alle Cinque Torri”, pensò lei, “Qui la via te la guadagni”.
Non si vedeva granché.
Lo stato d’animo giocò un ruolo importante. L’ambiente le parve davvero ostile e spaventoso: canaloni franosissimi con pietre che miravano ai loro caschi, raffiche di vento che “non la mandava a dire”.
Ogni tanto, uno sprazzo di visibilità faceva loro capire di essere immersi nelle dolomiti d’Oltre Piave. E, nonostante lo scampolo di passato remoto, era mozzafiato!
Erano abbastanza bravi. Titubanti ai primi tiri di non facile orientamento (nebbia, nebbia, nebbia).
Lei, da seconda, saliva il più speditamente possibile, tra un sasso che le cadeva vicino e una roccia umida che non aiutava la progressione.
Entrambi riconobbero che l’arrampicata era grossolana. Il pericolo stava nel finire come birilli. Mentre era in sosta, pensava. Quella era la prima vera arrampicata che affrontavano insieme. Faceva quasi ridere il pensarli così, in mezzo ad una parete, legati insieme solo per il tempo di qualche tiro.
Pratica di arrampicata, percepiva comunque un certo grado di affinità e la cosa aggiungeva un non so che di rammarico e desolazione emotiva. Avrebbe potuto essere diverso.
Il Duranno non voleva proprio aiutarla! Con un po’ di sole si sarebbe forse sentita meno triste. Era costretta a elaborare un lutto ai danni o a favore (dipende) di un essere vivente. “Vai avanti”… Era tutto così scuro, là in mezzo, che pareva stessero arrampicando in bianco & nero!
Superarono i passaggi chiave, costatando che Tony aveva avuto precisione nella spiegazione. Dopo un ultimo tiro, facendo sicurezza alla “spera in Dio”, peraltro con errore di direzione causato da un ometto in una posizione totalmente fuorviante, giunsero in cima.
Ci sarebbe stato da proseguire in piano verso destra per pochi metri sulla crestina che porta al libro di vetta. Cinque metri di terra molto friabile, con un baratro a nord di circa 500 metri… ecco la ciliegina! Il primo di cordata voleva arrivarci, dirigendosi baldanzoso. Fare sicurezza era impossibile.
Di certo è un passaggio che molti prima di loro avranno fatto, ma lei non aveva la predisposizione giusta e si ritenne soddisfatta anche senza firmare il libro. Si firma per un ricordo, forse meglio evitare di rendersi ridicoli.
Lo richiamò all’ordine.
Data la reale consistenza del terreno, si decise per evitare di correre davvero inutili rischi. Foto di rito; una farsa seduti stretti. Non erano stati veloci, era tempo di togliere il disturbo e lasciare il Duranno e le sue suggestioni. Era chiaro che sarebbe stata lunghetta anche la discesa.
Via, che si va…! Qualche difficoltà a trovare i primi anelli di calata.
Iniziarono le doppie con le corde che solleticavano ogni sasso. Nei lanci avrebbero dovuto fare un po’ di pratica. Un buon lancio rende più svelte le calate.
Diventava sempre più tardi.
Giunti alla penultima doppia, lei sentì Tony che dal rifugio li cercava: “Yuhuuuuu!!! Yuhhuuuuu!!!”.
Era preoccupato di non vederli tornare. Li stava seguendo col binocolo. Operazione ardua, date le nuvole basse.
Il residuo non ci fece nemmeno caso, ma lei sì. Rispose al richiamo: “Arriviamooooo!”
Tony poteva stare più tranquillo.
Diciamola tutta, era più serena anche lei sapendo che il rifugista, là sotto, sarebbe stato pronto a chiamare il 7° cavalleggeri.
Rientrarono a baita che stava rabbuiando. Non era compiaciuta per la riuscita dell’impresa. Non poteva esserlo.
Entrarono in rifugio. Lei salutò: “Ciao Tony, siamo qui! E’ stata un po’ lunga…”.
Con il bicchiere di vino in mano, seduto, il gestore si voltò e li guardò severo: “Zio can! Lunga sì. Se non mi rispondevi e non ti vedevo, tra poco chiamavo il soccorso… ZIO CAN”.
Affastellarono gli zaini, pronti a scendere a Casera Mela, per loro non era ancora finita! Lei chiese una bottiglietta di acqua e Tony non volle denaro: “Metti via quei soldi, Zio can, vai che l’è tardi…!”. Grazie Tony, altro pizzicotto al cuore. Grazie davvero.
Scesero di buona lena il sentiero che dal Rifugio Maniago tornava all’auto, con l’aiuto delle lampade frontali.
Si salutarono in fretta. Non era quello che lei avrebbe desiderato. Il Duranno non fece alcun miracolo.
Aveva terminato la via di arrampicata più triste della sua vita alpinistica.
Dodici ore in ambiente, con contrasti emozionali da sesto grado. Non era colpa del Duranno, non era colpa di nessuno. Non ci sono colpe nelle emozioni. “Vai avanti, vai avanti…sempre”.
Accese l’automobile. Inserì un cd.
“Anche da lontano si vede, anche da lontano si vede, anche da lontano si vede… che non mi vuoi più bene… (Si Vede – Enzo Jannacci)”. Lasciò decantare la sua esperienza al Duranno. Il Duranno, che montagna meravigliosa!
Ci tornò.
Da sola, nonostante tutto… nonostante tutto il “resto” (ch’el vada in mona).