Arrampicare… con filosofia

Arrampicare… con filosofia
di Giorgio Bonomo

Non sono bravo ad arrampicare. In palestra va già bene se riesco a fare un tiro di 6a da primo; se la congiuntura è particolarmente favorevole, magari mi riesce di arrancare fino alla catena su un 6b (di quelli meno duri).

Eppure trovo irrinunciabile andare il più spesso possibile in palestra e, quando capita, in montagna (su qualche vietta facile con qualcuno che mi faccia da primo).

Mi sono chiesto spesso, dunque, come si possa sviluppare una vera e propria passione per ciò che non si sa fare bene. E cioè: che cos’è che rende il gesto dell’arrampicare così attraente e affascinante, al di là dei risultati “sportivi” che si possono ottenere?

Quando arrampico, per prima cosa sento il mio peso. Lasciando perdere che il pensiero possa correre alle mie tante “trasgressioni” alimentari e quindi al fatto che quel peso è “troppo”, ciò che avverto è soprattutto che ho un corpo e che il mio corpo non può sottrarsi a una legge universale (la gravità) completamente fuori portata rispetto alle mie possibilità di controllo.

A pensarci bene, questo avvertire l’appartenenza del proprio corpo a un tutto che né la forza fisica né il pensiero possono dominare è già un risultato rilevante, soprattutto se si pensa a quel “delirio di onnipotenza” a cui noi umani siamo giunti attraverso la nostra storia culturale e che è facile misurare, purtroppo, in tante manifestazioni della nostra “civiltà”.

Non è che, quando prendi un appiglio, spingi con le gambe e tiri con le braccia, il pensiero corra subito all’illusione di dominio sulla natura che ci siamo costruiti nel tempo. Ma basta poco per arrivarci, magari conquistando un ridimensionamento delle proprie pretese e una visione delle cose più mite e “aperta” alle possibilità, meno aggressiva e meno supponente…

Mentre si arrampica, si è anche spinti a sentire, inevitabilmente, che la propria forza muscolare non può esercitarsi oltre certi limiti, quelli oggettivi della propria potenza e della propria resistenza. Dunque si sperimenta un “confine”, ben tangibile in questo caso, posto fra la propria aspirazione, il proprio desiderio, da una parte, e dall’altra una realtà che ne inquadra con spietatezza le possibilità di realizzazione.

Anche questa sensazione, pur se avvertita talvolta con sconforto, contribuisce a farci sentire più concretamente aderenti alla nostra realtà, togliendo di mezzo ogni presunzione di forza, e alla fine ciò risulta rasserenante nel farci ridisegnare e accettare, “pacificati”, il nostro mondo.

Ci sono poi le sensazioni legate agli aspetti dinamici dell’arrampicare. La ricerca continua di posizioni favorevoli degli arti e del bacino, che consentano migliori condizioni di equilibrio o un risparmio di energia, impegna ogni segmento del corpo (che deve essere coordinato con gli altri per raggiungere gli obiettivi) e contemporaneamente impegna la mente, chiamata a reagire istantaneamente agli stimoli e a regolare gli impulsi nervosi necessari.

E’ un bel banco di prova, un terreno fertile su cui impiantare semi sempre nuovi di conoscenza di sé e di rapporto con la propria identità. Qui, infatti, oltre ai movimenti finalizzati del corpo e a quella parte della mente che li governa, sono in gioco e si misurano la volontà, la determinazione nel compiere un gesto, l’autostima, la capacità di assumere rischi superando la propria specifica soglia della paura. Se ne esce molto stanchi (va da sé), ma anche tanto, tanto arricchiti e gratificati.

Va considerata anche la questione della tecnica. Come ogni altro sport, l’arrampicata si basa su un patrimonio di tecniche più o meno codificato e in costante evoluzione.

Alcune di queste tecniche sono basilari, semplici, altre sofisticate e complesse; tutte però sono inevitabilmente trasformate dall’interpretazione soggettiva di chi arrampica: insomma, non si arrampica mai in maniera anonima, standard.

Se guardi due amici (magari di quelli bravi) che arrampicano sullo stesso tiro difficile, sicuramente osservi differenze, non solo nell’interpretazione delle sequenze di movimento e nella qualità della determinazione a raggiungere l’obiettivo, ma anche, forse soprattutto, nella fluidità, nella velocità, nell’uso della forza, nell’apparente leggerezza con cui lo sforzo si compie, infine nel complessivo effetto “estetico”.

A volte vien da dire: “che bello vedere Tizio arrampicare!”. A poche cose si può associare il concetto di bellezza così a pieno titolo come a un corpo che muovendosi esprime potenza, equilibrio, coordinazione, armonia, leggerezza.

L’amico che guardi arrampicare, mentre offre alla tua lettura le pagine aperte della sua identità (scritte con il linguaggio del suo corpo), ti offre spesso anche un ingresso privilegiato nel mondo della bellezza!

Per finire, c’è almeno da accennare all’aspetto della condivisione, che in questa attività appare molto importante.

Innanzi tutto c’è il rapporto con chi ti assicura (o con chi tu assicuri): se non ti fidi del tutto del tuo compagno, non arrampichi al meglio; aumenta l’insicurezza, talvolta la paura. Anche nella relazione tra i due, dunque, c’è sempre una dinamica in corso, che conduce il più delle volte a un affinamento dell’intesa e a una crescita della fiducia reciproca.

Quando finiamo la seduta in palestra o arriviamo alla fine di una via, ci scopriamo sempre riconoscenti nei confronti dei compagni.

Non solo sentiamo di condividere una gioia spesso non esprimibile a parole, ma sperimentiamo anche, distintamente e profondamente, l’effetto di uno dei fondamenti del costituirsi e dell’evolversi della nostra identità.

Questa non consiste in un oggetto che descriviamo, staticamente, una volta per tutte, guardando all’interno dei confini che poniamo fra noi e il mondo, ma consiste piuttosto in ciò che riconosciamo come nostra appartenenza all’interno delle relazioni sempre dinamiche tra noi e gli altri, che di volta in volta ci rimandano immagini di noi stessi sempre diverse.

Così, al rifugio o al bar della palestra, la birra bevuta insieme ha sempre un sapore straordinario.

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