Copenaghen, città più ciclabile del mondo

«La chiave per diventare ciclista urbano è l’egoismo: avere vantaggi concreti per la propria mobilità», dice Niels Hoé, uno dei più autorevoli progettisti di piani urbani. Storia della città dove ogni giorno 6 abitanti su 10 si muovono in bici. Strategie da copiare.

Copenaghen, città più ciclabile del mondo
(perché sono tutti egoisti)
di Marco Bonarrigo
(pubblicato su corriere.it il 23 dicembre 2023)

Per guadagnarsi il titolo di ciclista urbano doc nella città più ciclabile del mondo (e non venire subito identificati come intrusi e mandati a quel paese) memorizziamo le regole base.

Prima regola, usare correttamente gli arti superiori: avambraccio ben teso a destra e/o a sinistra dieci metri prima di svoltare a un incrocio, avambraccio destro alzato a 90 gradi con palmo delle mani aperte se ci si vuole fermare.

Copenaghen, 1953: traffico all’ora di pranzo. Foto: Henri Cartier Bresson.

Seconda regola, mantenere una velocità costante: durante le ore di punta, nel flusso infinito da o verso il centro dei pendolari e soprattutto lungo le “vie verdi” come la celebre Nørrebrogade Street si è ben accetti (e si beccano tutti e i dodici semafori verdi) se si pedala tra i 18 e i 20 km/ora. Altrimenti si diventa fastidioso intralcio per chi va sempre di fretta.

Altre regole: concentrazione, sguardo fisso in avanti, frenate (se servono) sempre di contropedale, mai di sole bacchette al manubrio, e guai a voi se parcheggiare in modo da bloccare la circolazione come si usa (con bici e monopattini) dalle nostre parti.

Benvenuti a Copenaghen, la città dove ogni giorno sei abitanti su dieci (uomini, donne e bambini) divorano complessivamente 1,4 milioni di chilometri (avete letto bene) pedalando e dimenticando completamente l’automobile.

La città più ciclabile del mondo che – incrociando le dita – anche quest’anno riuscirà a raggiungere un obiettivo lunare per le metropoli italiane dove in bici ci vanno in pochi e negli ultimi tempo facendosi purtroppo sempre più male: zero decessi tra pedoni e ciclisti.

Il confronto
Chi storce il naso di fronte ai numeri del capoluogo danese («vorrei vederli sulle strade sfasciate di Milano o Roma, questi danesi, contro automobilisti e camionisti inferociti che ti ringhiano contro») non sa di cosa parla: nella capitale danese la battaglia contro i motori va avanti da trent’anni e il tasso di incidenti si è ridotto di dieci volte su strade che – come le nostre – sono spesso rugose, ciottolate e rattoppate oltre che battute da vento e pioggia.

Dietro il boom ciclistico di Copenaghen, ci spiega Niels Hoé, tra i più autorevoli progettisti di piani urbani in Europa, nessuna velleità ideologica o ecologica: in una terra dove vivere costa un occhio della testa, tutti inforcano la bici semplicemente perché è il mezzo più comodo, veloce ed economico per svolgere qualunque attività nell’arco di dieci chilometri da casa.

Chi pedala ha incentivi sull’acquisto, sconti fiscali, polizze assicurative e spesso una doccia calda che lo aspetta in ufficio perché le aziende sanno che il dipendente pedalante è anche quello che va al lavoro più volentieri.

Sul fronte sicurezza, si ragiona da decenni per obiettivi: il più letale nemico dei ciclisti nelle grandi città italiane è l’“angolo morto”, quella parte del campo visivo di chi guida auto e sopratutto camion che non viene coperta dagli specchietti retrovisori.

A Milano, dove gli angoli morti hanno ucciso tre ciclisti negli ultimi dodici mesi, il sindaco Sala pensa di eliminare i camion e magari ha ragione.

A Copenaghen gli angoli morti vengono eliminati al ritmo di sessanta l’anno: ad ogni incrocio la linea bianca di stop per i veicoli a motore è arretrata di cinque metri rispetto a quella delle bici che sfilano su una corsia separata, a destra, e sono disciplinate da un semaforo diverso.

Quando scatta il “verde ciclabile”, chi pedala parte in vantaggio di qualche secondo e chi guida deve girare così largo da avere campo visivo ampio completo alla propria destra.

La filosofia
«La chiave per diventare ciclista urbano» spiega Niels Hoé «è puramente egoistica: avere vantaggi concreti per la propria mobilità con rischi ridotti dal momento in cui prendo la bici a quando la lascio al lavoro o per fare la spesa. Questi vantaggi devono essere progressivi e misurabili strada per strada per poter dare agli amministratori risultati concreti che giustifichino con la popolazione le restrizioni. Esempio? Prendete una via centrale e trafficata di Milano, contate con precisione quanti ciclisti (pochi, adesso) la percorrono in ogni ora del giorno in mezzo alle auto e poi cominciate a proteggerli con una ciclabile misurando mese per mese il guadagno in termini di circolazione pulita. All’inizio ci saranno proteste di tutti i tipi (automobilisti, commercianti, pedoni) ma quando il numero di ciclisti raggiungerà una sufficiente massa critica il vantaggio di andare in bici lungo l’itinerario sarà consolidato e l’automobile ne uscirà perdente. È un processo inevitabile».

La pratica
Copenaghen non è Milano, certo, ma se ai 600mila abitanti si aggiungono quelli dell’area urbana estesa si arriva a 1,8 milioni, di cui l’80% usa regolarmente la bicicletta.

Gli incidenti seri (dalla frattura in su) sono uno ogni 4.9 milioni di chilometri percorsi e grazie al progressivo allargamento (da 2,2 a 2,8 metri delle piste) ciclabili quelli tra bici e bici sono precipitati al minimo storico. La rapidità di spostamenti è misurabile: in dieci anni la velocità media su due ruote è passata da 13 a 16 km l’ora e i tempi di percorrenza si sono ridotti grazie a sei ponti ciclabili che attraversano i canali cittadini, riducendo le distanze, e a decine di parcheggi di interscambio gratuiti e comodissimi.

Il carattere
Certo, il ciclista urbano qui è uno tosto: pedala veloce con qualunque tempo o qualunque età, si trascina la bici (spesso un “cancello” robusto e pesante) lungo le scale della metro e non ha paura di stancarsi.

Con la bici si può fare tutto: a Copenaghen una famiglia su quattro ha in casa una cargo-bike (spesso a pedalata assistita) che costa fino a seimila euro e ti permette di caricare bambini (fino a quattro) e la spesa settimanale.

Cara? Un investimento, ti spiegano tutti, che si ripaga in un paio d’anni e che lo Stato protegge con incentivi e una polizza senza franchigie in caso di furto perché qui le bici vanno letteralmente a ruba.

Davanti a qualunque scuola ci sono l’area “carico e scarico” per le cargo-bike e quelle di parcheggio per i bambini in genere dai sei anni in su che vanno a scuola in bici e a 12 anni, a turno, prima di entrare in classe indossano un gilet giallo e regolano il traffico agli incroci per imparare ad essere bravi cittadini.

In cargo-bike ci vanno genitori, postini, corrieri, artigiani, infermieri e tipi (buffi) come Morten Kryger, chef stellato che ha abbandonato le cucine dei grandi hotel parigini per costruirsene una tutta sua e a due ruote con cui porta a spasso e sfama i turisti fermandosi a cucinare nei punti più belli della città: una food experience in quattro portate più dessert da 160 euro a testa da prenotare mesi prima perché c’è la coda.

Sulle cargo-bike passeggeri è basato anche il formidabile progetto Cycling without Age di Ole Kassow che si è rapidamente diffuso in dieci nazioni. Ole ci dà appuntamento in una casa di riposo di Nyboder, l’ex quartiere militare della capitale, dove ci carica a bordo della sua cargo a pedalata assistita assieme a Carl Nyholm, 95 anni, ex addetto culturale dell’ambasciata danese in Italia.

Quello di Cycling without Age è un network di un centinaio di volontari che si occupa di aiutare negli spostamenti (visita amici, spesa, pratiche mediche…) gli anziani non autosufficienti della città aiutandoli anche a socializzare e rimanere attivi.

Il tragitto comprende spesso una visita ai parenti al meraviglioso cimitero di Assistens Kirkegård dove riposano, tra gli altri, Hans Christian Andersen e Søren Kierkegaard.

Da qualche anno, a furor di popolo, il più celebre camposanto danese è completamente percorribile in bicicletta: in Danimarca non ci sono luoghi proibiti a chi pedala.

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1 Comments

  1. says: bruno telleschi

    Non conosco Copenhagen e non sono in grado di valutare l’efficacia del sistema né la sua moralità. Ma sono disposto a considerare l’uso della bicicletta a due condizioni fondamentali: l’esclusione del ciclismo sportivo e la centralità del trasporto pubblico che solo può risolvere la mobilità urbana. A parte qualche sparuta minoranza, non vedo in Italia ciclisti in movimento per lavoro, ma solo sportivi in gara per qualche prestazione tecnica. A costoro bisogna vietare l’uso della bicicletta fuori dalle strade e consentirne l’uso sulle strade a patto che rispettino gli automobilisti e soprattutto i pedoni.

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