(presentazione dell’omonimo libro di Paolo Francesco Zatta
di Alessandro Gogna
In Italia, la madre di tutte le associazioni alpinistiche è il Club Alpino Italiano. Le prime righe del suo statuto recitano che “ha per iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne,
specialmente di quelle italiane (solo dopo circa 130 anni è stata aggiunta agli scopi e in riferimento alle montagne “la difesa del loro ambiente naturale”). Alla fondazione, del 1863, il CAI aveva le spiccate caratteristiche della cultura di quel tempo: cittadini nobili o borghesi, orgogliosi della unità nazionale e pronti alla rivoluzione industriale che era proprio alle porte, vedevano nelle montagne un luogo di ulteriori grandi conquiste sia sportive (alpinismo) che scientifiche (studio e conoscenza).
In contrapposizione a questo spirito iniziale, all’inizio del secolo XX, specialmente subito prima del conflitto mondiale, nacquero parecchie associazioni che, a vario titolo, si distaccavano radicalmente dal Club Alpino Italiano, prendendone le distanze e rivendicando altri scopi e altri modi di andare in montagna: che diventava quindi anche “operaia” e non soltanto appannaggio di nobiltà e borghesia.
Ma, facendo un passo indietro fino alle origini dello stesso alpinismo, ciò che aveva determinato l’interesse per la montagna (davvero nuovo, specie a confronto con quell’inattiva e solo estetica contemplazione del Sublime che aveva caratterizzato il secolo XVIII) era la nuova visione del mondo (Weltanschauung) del secolo XIX. La filosofia del Romanticismo si è repentinamente tradotta nelle realtà della scienza, dell’arte e della letteratura. La conquista del Monte Bianco (un misto di scienza e avventura) aveva preceduto di poco la nuova visione romantica: perciò ogni possibile sviluppo di quella prima conquista esplorativa non poteva essere indenne dallo sconvolgimento culturale romantico. Con il Romanticismo si ebbe una separazione tra il nostro Io individuale e la Natura: una separazione netta in un mondo che prima, anche attraverso la contemplazione del Sublime, vedeva il Creato (Natura) una cosa sola con l’Uomo. Ma ogni divisione, madre di ogni nuovo fermento creativo, porta con sé l’anelito inconscio alla riunione. Una nuova vita che vede la luce, dopo il taglio divisorio del cordone ombelicale, tende alla riunione con la madre. Allo stesso modo, l’alpinismo offriva la bellissima illusione di riunione con la Natura, tramite la “conquista”. Se “vinco” la montagna sono di nuovo tutt’uno con lei. E’ un ciclo che ha avuto grande fortuna: anche oggi vi siamo tutti inseriti, sia pur con molte sfumature. Questo ciclo si può anche chiamare “ricerca della felicità”, anche se non mi sento di affermare che su una cima si possa essere felici. Non confondiamo la soddisfazione con la felicità. La soddisfazione c’è perché abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, abbiamo finito di soffrire e faticare. Ma che non ci sia la felicità risulta già evidente dai primi pensieri durante la discesa, quando ci sorprendiamo a fantasticare sulla prossima impresa. Tanti di noi hanno vissuto una vita in questa condizione, e per nulla al mondo cederebbero quest’esperienza: ma non si può affermare che la conquista sia fonte di felicità, cioè sia vera ed effettiva riunione tra noi e la Natura.

Perché questa disquisizione sulle origini dell’alpinismo? Per tentare di ambientare ciò che poteva essere, a quel tempo, la reazione dei montanari alle follie e alle stranezze dei cittadini che improvvisamente si erano messi in testa (ed erano provenienti da tutta Europa) di “conquistare” le loro montagne.
Il cittadino aveva bisogno dei conoscitori delle montagne, quindi delle “guide”. Queste avevano la famiglia da sfamare, in condizioni di vita materiale oggi anche difficilmente immaginabili. E’ ovvio che accolsero questa nuova possibilità di lavoro con grande entusiasmo.
Ma che differenza c’è, a parte la condizione sociale e il sapersi muovere meglio in un certo ambiente, tra le guide e gli alpinisti (clienti)? Che per essere guida occorra essere più “bravi” di un cliente è cosa ovvia, ma esiste una differenza ben più profonda. Infatti, che quasi d’improvviso nel 1869 un giovane Hermann von Barth (bavarese, 1845), prima avvocato poi laureato in Scienze Naturali, decidesse di fare a meno delle guide fu davvero degno di nota. Un uomo come von Barth, destinato a centinaia di prime ascensioni, da buon scienziato aveva fatto tesoro dell’esperienza di Horace-Bénédicte de Saussure e quindi aveva potuto pensare per primo di poter andare in montagna solo grazie alle conoscenze scientifiche acquisite e grazie alla tecnica. Al contrario del “cliente” che, sia pur bravino, si affidava soprattutto all’istintualità della guida e alla sua bravura, alla sua forza. Non alla scienza e alla tecnica.
I senza Guide hanno proseguito romanticamente la dimensione “scientifica” dell’alpinismo, enfatizzando la separazione dall’istinto. Mentre le guide rimanevano depositarie di una maggiore naturalezza. Il cammino dei “senza guide” proseguì a tal punto che nel 1904 in Italia fu fondato il Club Alpino Accademico Italiano, proprio per riunire in un unico club tutti coloro che praticavano alpinismo di ricerca senza l’ausilio delle guide.
Molto tempo dopo, il 1° luglio 1939, dieci giovani ampezzani (“boces”), arrampicatori professionisti e non (quindi non necessariamente guide alpine) fondarono il gruppo degli Scoiattoli di Cortina. Albino Boni Alverà, Silvio Boricio Alverà, Luigi Bibi Ghedina, Romano Nano Apollonio, Angelo Alo Bernardi, Ettore Vecio Costantini, Siro Casuto Dandrea, Giuseppe Tomasc’ Ghedina, Bortolo Bortolin Pompanin e Mario Zesta Zardini avevano in comune la passione per
il proprio paese, la montagna e le avventure che essa offre. Al motto “Tutti per uno, uno per tutti”, la Società degli Scoiattoli nasce in un periodo in cui, mentre le guide alpine continuano a evolvere, da accompagnatori di clienti sulle cime a grandi scalatori, il desiderio di andare in montagna non solo per mestiere comincia a cogliere sempre più alpinisti, spingendoli come un’onda verso nuovi orizzonti e difficoltà.
Mentre questo succedeva in montagna, quasi contemporaneamente (tralasciando la parentesi bellica) in una città come Lecco nel 1946 altri giovani emulavano gli Scoiattoli. Giulio e Nino Bartesaghi, Franco Spreafico, Emilio Ratti e Gigino Amati, ai quali si aggiunse poco dopo Gigi Vitali, fondarono i Ragni di Lecco. Ad animare il gruppo era la volontà di raggiungere e superare i traguardi conseguiti dai cosiddetti “vecchi”, cioè le figure più importanti dell’alpinismo lecchese dell’epoca, fra cui Riccardo Cassin e Mario Boga Dell’Oro: “vecchi” che subito dopo entrarono a far parte del gruppo. E’ da notare che anche per i Ragni l’essere guida alpina o meno non era motivo di distinzione.
Ho lasciato per ultimo quello che a questo punto, dopo la breve analisi storica che ho appena delineato, appare essere il vero padre di tutti i gruppi, l’unione orgogliosa di guide alpine fiere del loro mestiere: le Aquile di San Martino.
Il gruppo delle Guide Alpine “Aquile” di San Martino e Primiero nacque nel 1881, fondato da quattro tra le migliori guide del loro tempo, primierotti che hanno scritto memorabili pagine dell’alpinismo dolomitico: Michele Bettega, Bortolo Zagonel, Antonio Tavernaro e Giuseppe Zecchini.
Questo libro, del quale indegnamente sto facendo la presentazione, racconta la storia dei quasi centocinquanta anni del prestigioso gruppo cui diedero vita quei “quattro moschettieri” iniziali.
Il gruppo delle Aquile di San Martino non è stato solo una specie di “sindacato” delle guide: già alla nascita rappresentava l’ambiente alpinistico del Primiero e non aveva certo cura solo della tutela dei loro diritti. Nel corso del tempo i suoi membri, accomunati dalla passione per l’arrampicata e l’alpinismo, si sono impegnati nella esplorazione ed apertura di nuove vie sulle pareti dolomitiche, nell’attività alpinistica extraeuropea, nel soccorso alpino e nella divulgazione delle attività per cui il gruppo si è caratterizzato e tuttora si caratterizza. Negli anni tale divulgazione si è concretizzata in modo particolare attraverso la redazione di monografie specifiche. La rivista Aquile dal 2013 è un bellissimo esempio di come le guide alpine possano fare informazione sulle montagne di casa loro e sulla gente che vi abita. Ed è notevole che proprio questa pubblicazione sia la prima a cura di un gruppo di guide alpine.
Paolo Francesco Zatta, con questo suo Dove osarono le prime Aquile del Primiero – Storie, curiosità, imprese e personaggi , racconta in modo mirabile la vita e le motivazioni dei fondatori Bettega, Zagonel, Tavernaro e Zecchini. A leggere cose stuzzicanti, documentate e piene di passione viene voglia di continuare a leggere, perché la nostra curiosità può non avere limiti. A quando il seguito della storia?