di Paolo Gallese
(pubblicato su medium.com il 5 febbraio 2020)
Io vivo in pianura.
Non una pianura qualsiasi, ma la bassa Pianura Padana. E’ quella che gli esperti definiscono campagna urbanizzata, un’appendice dell’incredibile sprawl metropolitano Torino-Milano-Venezia. Un caso studio mondiale sulla vittoria antropica nei confronti della Natura.
Non solo l’urbanizzazione qui ha raggiunto livelli eguagliati soltanto da aree come quella di Los Angeles, Washington, Atlanta, Barcellona, ma anche la campagna è talmente modellata dall’uomo da essere irriconoscibile. Chilometri quadrati di ordinate coltivazioni intensive dove, a parte rari filari artificiali, non esiste più nemmeno un boschetto selvatico, una piccola macchia.
Tolte le aree dichiarate riserva, o sotto tutela, la Natura non esiste più. E anche le aree protette sono piccoli anfratti prigionieri, limitati e delimitati, dove la presenza umana è comunque capillare, avvolgente, limitante. Il grande Delta del Po e le sue paludi sono resti residui, le zone boscose strisce inconsistenti ai margini dei fiumi padani.
Ovunque c’è ordine, limite, barriera, strada.
La cosa interessante è ascoltare chi visita, o fa scampagnate nelle aree naturali di pianura, convinta di un ritrovato contatto con la Natura, di uno stacco dall’ingombrante presenza dell’uomo, o meglio ancora, di una ritrovata armonia. Il che può essere vero, dal loro punto di vista e non lo discuto. Prendo solo atto di un sentire comune, di una percezione falsata, benché ai loro occhi piacevole e di soddisfazione.
La stessa falsata soddisfazione di chi raggiunge le località prealpine e alpine, felice di una soluzione di continuità mediata, di un continuum tra la rassicurante presenza umana della pianura, con le sue comode contraddizioni, che va dal punto di partenza all’arrivo. Da pianura a montagna, quindi, la stessa strada, le stesse riconoscibili infrastrutture, le coltivazioni. Le grandi valli, molto sviluppate, non sembrano diverse dall’area padana.
Tutto poi, salendo, necessariamente si dirada, l’accidentalità del territorio, la roccia, i dislivelli, impongono arresti allo sviluppo, alla cementificazione, alla coltivazione, all’appropriazione che diventa meno privata e più statale, ma che resta tale.
Compaiono i boschi, si vedono ampie aree non occupate, illudendo di vivere un’immersione verde, primordiale, godibile in quella particolarissima dimensione che è rappresentata dal muoversi in auto, in pullman, in funivia, in seggiovia. Una dimensione che il filosofo e urbanista Paul Virilio definì dromoscopia.
E’ un neologismo che significa “visione in corsa”. La metropoli, la dimensione antropizzata, dice Virilio (io opero un parallelo anche con la Natura), non è più uno spazio a misura d’uomo: è impensabile percorrerla a piedi. E’ conveniente muoversi solo con mezzi di trasporto in modo da restituire l’illusione di uno spazio a misura d’uomo (uomo urbano). Ma questo condiziona notevolmente le modalità visive e percettive. L’abitante contemporaneo, dal finestrino di un mezzo di trasporto, ha una visione televisiva dello spazio urbano: la sua percezione è filtrata dal finestrino, è montata in una sorta di collage veloce, distratto, superficiale. Quasi una metafora della vita cui si è costretti in una grande città…
Mi interessa questa particolare visione possibile delle cose, perché rappresenta una chiave di riflessione sui frequentatori cittadini dei luoghi naturali, delle montagne, sulla loro capacità di percezione: del limite interiorizzato tra realtà naturale e immagine riflessa di ciò che potremmo percepire come tale. Questo determina comportamenti, atteggiamenti, sensazioni, desideri, nel bene come nel male.
Dalla mia ho avuto una fortuna.
Quella di crescere in una campagna meno urbanizzata, anzi, quasi selvaggia, sulle pendici dei Monti Sibillini nella Marche (e anche sulla costa, a San Benedetto del Tronto). In questi luoghi ho potuto avvicinare la Natura.
Non quella antropizzata, mediata, bensì quella selvatica e difficile, potente e indifferente, che caratterizza il grande mare come le alte vette, costruendo un mio patrimonio esperienziale sul campo, in modo diretto, unito al racconto e all’insegnamento delle genti che vi traevano sostentamento.
Quando parlo con chi è senza esperienza e vive in pianura, sicura delle proprie certezze e delle proprie sensazioni riguardo la Natura, del suo modo di avvicinarla e viverla, goderla, magari in vacanza o in settimana bianca, percepisco un genuino entusiasmo. Ascolto tutta una serie di piccole certezze e consapevolezze, una sincera preoccupazione di viverle al meglio. Ascolto con pazienza racconti, esperienze, addirittura piccole lezioni su cosa si presume conoscere e su cosa si debba fare per vivere emozioni di grande intensità. Ricevo perfino inviti, con la pretesa convinzione che, a uno come me, forse i loro programmi potrebbero piacere, interessare, far scoprire cose nuove.
Sia chiaro, non irrido mai questi racconti e la loro spontaneità. Per me sono una preziosa raccolta delle sensazioni e dei modi di percepire la dimensione naturale, di aspettative e delusioni, di entusiasmi e desiderata che rappresentano la gran parte dei consumatori effettivi e potenziali delle località soprattutto montane.
E sempre mi torna in mente la visione ormai “dromoscopica” che abbiamo della realtà, anche quella selvaggia.
Una volta mi chiesero di raccontare qualcosa, per prendermi un po’ in giro sulla mia visione. Ci pensai un attimo ed, escludendo racconti intensi ma più scontati su alcuni 4000, dissi di aver appena fatto due passi a Campo Imperatore sul Gran Sasso. Tutti sorrisero, pensando al dolce Appennino e chi conosceva la località raccontò prontamente di averla visitata, giungendovi comodamente in auto, bellissimo luogo, molto “tibetano”.
Ma poi aggiunsi la parola magica: “… ci sono andato d’inverno, in tenda”.
Non è un caso che abbia scelto questo esempio: un luogo abbastanza conosciuto, raggiungibile in auto, immerso in una Natura selvaggia che offre l’illusoria impressione di essere gestibile, controllata, non minacciosa, anzi addirittura comoda per scampagnate, passeggiate, picnic. Il luogo ideale per una gita.
E proprio qui si inserisce quel confronto che, “l’uomo dromoscopico”, non si aspetta. Perché d’inverno, questo luogo (ma anche d’estate può trasformarsi minacciosamente), diventa improvvisamente selvaggio, inaccessibile, problematico, caotico, pericoloso. La Natura riprende il sopravvento con le sue dinamiche potenti, la sua imponderabilità, le sue regole e i suoi capricci, indifferente e mutevole, spesso terribile.
Il non luogo delle scampagnate torna se stesso, irriconoscibile eppure ovvio nella sua naturalità. E per affrontarlo, la dimensione di vita comoda, antropizzata, organizzata, gestibile, sicura cui siamo abituati, perde di senso, di significato, ma soprattutto di fattibilità. Nonostante questo l’uomo ha cercato di domarlo, con alberghi e impianti di risalita che, tuttavia, occupano solo una piccola parte del vasto e selvaggio altopiano. Poi c’è il nulla.
Un nulla in realtà ricchissimo, che l’uomo dromoscopico vive come un incubo, perché obbliga alla lentezza, al silenzio, o al rumore di un vento che disorienta, spaventa. Le regole crollano, le comodità svaniscono, la paura si fa spazio nei meandri dello stupore. Orari, date, appuntamenti, programmi… tutto s’infrange nel soffice e bianco gelo, dove carezza e schianto, abbandono e sforzo, obbligano a una danza che ha per posta sì, un grande piacere dei sensi e della mente, ma anche la vita.
L’uomo scopre altre regole, altre necessità, altri linguaggi e altri pensieri, che possono farlo andare avanti, difenderlo, salvarlo, ma anche spronarlo, renderlo attento, paziente, pronto a capire quando giungono i momenti giusti per fare e per non fare, per muoversi o rimanere immobile.
La Natura selvaggia, oggi rappresentata soprattutto sulle grandi montagne in questo nostro piccolo paese, si presenta in tutta la sua inaspettata estraneità. Basta trovarsi soli, in condizioni diverse da quelle che avevamo creduto ottimali, basta sbagliare strada.
Quando si è scorta questa Natura, quando la si è vissuta per un momento, chiunque torna a guardare il luogo da cui proviene con occhi diversi. Si impara che ciò che credevamo Natura semplicemente non lo è.
Ed io credo sia solo a quel punto che, alla persona divenuta consapevole di questo, diventi sensato cominciare a parlare di tutela, di salvaguardia, di sostenibilità in difesa dei grandi ambienti.
Lo so, sono estremo. Ma temo che fare quello che si fa oggi, in termini di comunicazione e sensibilizzazione ambientale, non sia diverso dal guardare il mondo scorrere rapido da un finestrino di un’auto lanciata.
Magari di un SUV…