All’inizio del terzo decennio del terzo millennio può far sorridere rileggere un testo sull’evoluzione storica dell’alpinismo su ghiaccio, in particolare se tale testo risale al gennaio del 2000. In vent’anni di acqua sotto i ponti (ponti di cristallo, se qualcuno coglie il nesso…) ne è passata davvero tanta. Oggi si parte all’attacco di stalattiti staccate o di passi in dry-tooling con la stessa facilità con la quale, allora, ci si incamminava nei conoidi innevati verso le cascate.
Eppure (ri)leggere questo testo procura un particolare piacere a chi ha vissuto i decenni passati e parimenti serve a chi oggi imbraccia una piccozza arcuata per comprendere fino in fondo come mai dagli alpenstock si è arrivati alle piccozze arcuate. Anche questa è didattica ed anzi personalmente ritengo che conoscere il passato per sapere dove indirizzarvi in futuro sia, in montagna come nella vita di tutti i giorni, il principio fondamentale di ogni orientamento ideologico.
Ci sono due altre veloci considerazioni che mi ha ispirato la rilettura di testo bellissimo articolo. Innanzi tutto questo testo sottolinea, almeno fra le righe, l’importanza del cramponage, cioè del saper “mettere i ramponi” su terreni ghiacciati/innevati: spesso vediamo che i cascatisti, bardati di tutto punto con i più moderni attrezzi, “buttano” i piedi a casaccio, incuranti degli elementi di base della progressione con i ramponi (anche su terreni facili, anzi). Bene fanno, quindi, quelle Scuole di alpinismo (ma anche di escursionismo e di scialpinismo nei loro corsi di specializzazione) a insegnare le nozioni basilari, come la famosa tecnica della croce nel procedere con i ramponi. Io sostengo che, per arrivare a scrivere un romanzo, occorre imparare a scrivere in prima elementare, cioè occorre imparare come si scrive la “a” e poi la “b” e poi la “c” e così via. Voler bruciare le tappe, magari proprio perché si è dotati di un talento naturale, spinge a situazioni che, in alcuni casi, possono rivelarsi critiche se non fatali.
Una valutazione finale prettamente editoriale: nel 2000 la carta stampata della montagna riservava ancora spazio per articoli “lunghi” come questo. Oggi, fra le rare riviste sopravvissute, non è più così, sia per valutazioni economiche che per scelte editoriali: si privilegiano testi brevi, sintetici, che vanno rapidamente al punto, per non disaffezionare il lettore, che anzi, pagina dopo pagina, deve essere costantemente incuriosito da fotografie “spettacolari”, inverosimili (per un alpinista normale), fotografie sempre al limite.
Per fortuna il web non ha problemi di spazio, o almeno non li ha così esacerbati come l’attuale carta stampata. Godiamoci quindi la (ri)lettura di questo articolo sia per il contenuto da ghiacciatori sia per l’impostazione e lo stile di chi ama gli articoli “ben articolati” (Carlo Crovella).
Evoluzione storica dell’alpinismo su ghiaccio
di Augusto Angriman e Giuliano Bressan
(Una panoramica attraverso le tecniche di progressione e i materiali per scoprire come si è giunti all’attuale situazione)
(pubblicato sulla Rivista della Montagna n. 232, gennaio 2000)
(gli autori ringraziano per la collaborazione Irene Tasson, Lorenzo Contri e Guido Casarotto)
L’esigenza di affrontare in modo adeguato la progressione su neve e ghiaccio, fu sentita fin dagli albori dell’alpinismo. Anche in quei periodi storici nei quali le montagne venivano “attraversate” per necessità commerciali, guerresche, ecc., neve e ghiaccio hanno sempre costituito per i “viaggiatori” una delle situazioni più temute, tant’è che ghiacciai e montagne venivano raffigurati con forme simili a mostri e draghi. La prima fase dell’alpinismo nel senso stretto del termine, storicamente iniziata con la salita del Monte Bianco effettuata dal dottor Michel Paccard e dal valligiano Jacques Balmat nel 1786, comportò, per i primi esploratori dell’alpe, il sapersi muovere adeguatamente su elementi particolarmente insidiosi quali neve e ghiaccio. E in effetti, tutta la prima grande esplorazione delle Alpi si sviluppò lungo ghiacciai, canaloni di neve dura, tratti di misto e ghiaccio.
In queste salite gli alpinisti impiegarono materiali quali corde di canapa (che vennero comunque usate fino alla fine degli anni ‘50), scale per il superamento di crepacci, bastoni di legno: il tutto preso a prestito, inizialmente, dai valligiani. Anche l’abbigliamento, con scarponi, pantaloni e giacche pesanti, coperte e guanti di lana, cappelli di feltro, bisacce, ecc., ricordava quello utilizzato dagli abitanti delle valli alpine nella fredda stagione. Nell’utilizzo di attrezzature già sperimentate dai valligiani nel loro duro vivere quotidiano, non era secondario l’apporto e l’esperienza della figura del portatore-guida locale, che agli inizi dell’Ottocento andava sempre più affermandosi, e che nel volgere di pochi decenni sarebbe sfociata nella classica figura della guida alpina. La naturale tendenza in alpinismo ad affrontare difficoltà crescenti comportò, su neve e ghiaccio, la necessità di creare attrezzi in grado di rendere più spedita e affidabile l’attività su questi elementi. Di qui l’utilizzo di scarponi chiodati e degli alpenstock, bastoni di legno di frassino o altri legni simili, possibilmente senza nodi, sufficientemente flessibili e relativamente leggeri. All’estremità superiore era applicata una parte curva, costituita da un corno di camoscio o meglio e più frequentemente, da un uncino di ferro. Anche il puntale era di ferro, con forma conica appuntita, lungo circa 10 centimetri e infisso a vite. La lunghezza dell’alpenstock, inizialmente di circa 2 metri, venne ridotta in seguito a circa 1,50 metri. Questa asta di legno veniva utilizzata per superare passaggi di misto e roccia ritenuti allora impegnativi e per favorire la progressione sui ghiacciai, potendo essere utilizzata come appoggio, per la ricerca di crepacci nascosti e il superamento di terminali. Inoltre, non esistendo ancora i ramponi (come oggi noi li intendiamo), agli intrepidi esploratori del tempo, altro non rimaneva che intagliare dei gradini per i piedi (e le mani) nel ghiaccio, mediante un’apposita ascia. E fu proprio unendo l’alpenstock con l’ascia da ghiaccio fino a ottenere una specie di paletta verticale unita a un becco ricurvo e appuntito (tipo uncino) e con il puntale del manico in metallo, che si ottenne il primo rudimentale abbozzo di piccozza, somigliante per certi versi a un’alabarda in formato ridotto. Presso il museo di Chamonix è conservato uno di questi esemplari, appartenuto alla guida Pierre Cachat. Naturalmente ogni alpinista si impegnò per modificare e migliorare questi primi rozzi esemplari di piccozza, che persero l’iniziale forma tozza, ma mantennero per lunghi anni ancora una paletta verticale simile all’ascia, ma con una becca diritta al posto dell’uncino.
Verso il 1865 comparvero i primi modelli di piccozza con paletta orizzontale. Sembra che questa sia stata un’invenzione di uno dei grandi alpinisti del tempo, Whymper, e sembra che proprio lo stesso ne abbia fatto uso durante la prima salita del Cervino. La piccozza assunse una funzione insostituibile per l’alpinista, in quanto consentiva di intagliare velocemente gradini in neve dura e ghiaccio, di assicurare in modo rudimentale su pendii, di sondare il terreno e, in appoggio, di procedere più speditamente sui tratti ghiacciati e ripidi. Si potrebbe anche dire che la piccozza aveva così una duplice funzione, potendo essere impiegata sia come bastone ferrato (il manico era ancora molto lungo) che come ascia da ghiaccio. La possibilità di avere a disposizione metalli sempre più leggeri e resistenti, favorì in seguito un migliore e più redditizio impiego della piccozza, che venne anche accorciata nel manico (doveva arrivare all’incirca all’altezza dei fianchi), ma di una lunghezza tale da poter essere ancora impiegata sia per gradinare, sia come bastone ferrato. Ma il vero problema per gli alpinisti dell’Ottocento consistette sempre nella mancanza di un efficace attrezzo da adattare ai piedi per non scivolare. L’utilizzo di scarpe munite di grosse punte ferrate al fine di rendere più sicura le marcia su neve dura, ghiaccio e pendii erbosi ripidi, era una pratica già in atto presso i valligiani e antecedente la pratica alpinistica. Addirittura, da alcune effigi romane presenti sull’arco di Costantino a Roma, sembrerebbe che tale usanza, appresa dalle popolazioni locali, venisse già praticata dai legionari romani in missioni esplorative su terreni ghiacciati e ripidi. Abbiamo già detto che in campo alpinistico vennero impiegati per molti anni degli scarponi chiodati, con relativo intaglio di gradini con l’ascia da ghiaccio e, successivamente, con la paletta della piccozza. Nella seconda metà dell’Ottocento venne introdotta la grappetta, costituita da quattro punte che andavano fissate sotto la suola, al centro dello scarpone. A tale metodica vennero poi apportate delle modifiche fino a ottenere punte forgiate (da 6 a 8-10) di forma piramidale applicate a un sostegno dotato di un parziale snodo centrale, al fine di consentire una modestissima flessione del piede.
Comunque, nonostante un’attrezzatura cosi spartana, gli alpinisti dell’Ottocento riuscirono a salire numerosissime cime, sovente lungo itinerari di ghiaccio e misto a tutt’oggi particolarmente impegnativi. Si pensi alle grandi salite di Whymper (Barre des Ecrins, Grandes Jorasses, Aiguille Verte, Cervino), alla salita dello Sperone della Brenva da parte della cordata Moore, F. e H. Walker e Mattews, a quella della Meije, alle incredibili imprese di Mummery (Cresta di Zmutt, Aiguille des Grands Charmoz, Aiguille Verte, Dent du Requin, Aiguilles du Plan). Né può andare sottaciuto il prezioso lavoro di guide quali Croz, Anderegg, Almer, Burgener, Carrel, Rey di La Saxe (per citarne solo alcuni), che da soli o con i grandi alpinisti del tempo hanno dato un impulso notevole all’evoluzione dell’alpinismo. E furono soprattutto gli alpinisti inglesi (da soli o con le guide) a portare avanti questa prima grande esplorazione delle Alpi, ben supportati, soprattutto nelle Alpi Centrali e Orientali, da alpinisti austriaci e tedeschi. Anche alcuni alpinisti italiani e francesi diedero il loro contributo, senza tuttavia raggiungere i livelli dei “maestri inglesi”.
La prima grande rivoluzione
È agli inizi del Novecento che compare il primo vero modello di rampone a 10 punte. L’idea, manco a dirlo, è dell’ingegnere inglese Oskar Eckenstein che, recatosi a Courmayeur, si fa costruire da Henry Grivel, capostipite di una famosa famiglia di guide e costruttori di materiali alpinistici, un modello con 10 punte. Tale modello, costituito da un telaio di ferro composto di 2-3 elementi uniti fra loro, a snodo, era provvisto di punte acuminate ricavate dalla stessa piattina di sostegno e quindi non riportate e saldate come nei modelli precedenti. Ciascun rampone era provvisto di sei anelli disposti a coppie simmetriche, entro cui passava una lunga cinghia di canapa, avente la funzione di fissare il rampone allo scarpone. Questo modello era in grado di eliminare la sensazione di instabilità che caratterizzava gli attrezzi impiegati in precedenza, favorendo nel contempo una più idonea progressione su ghiaccio. Ma la vera rivoluzione stava nella possibilità offerta dal rampone, abbinato all’uso della piccozza, di sviluppare una vera e propria tecnica nella progressione su neve e ghiaccio. Tale tecnica, chiamata cramponnage laterale, a tutt’oggi fondamentale nell’alpinismo su ghiaccio, pur non eliminando il problema del gradinamento, consentiva di superare con maggiore sicurezza pendii ghiacciati con inclinazioni fino a 50-55°. La nuova arte, messa in atto e perfezionata dagli alpinisti del tempo, ebbe un tale successo che Eckenstein, ai primi del ‘900, organizzò addirittura una gara a Courmayeur, sulla seraccata del ghiacciaio della Brenva, introducendo anche uno speciale punteggio per lo stile dei concorrenti nelle varie prove. La regola del cramponnage laterale era ed è tuttora apparentemente molto semplice: piedi paralleli al pendio e massima posizione d’equilibrio. Tuttavia apparve subito evidente che questo era possibile solamente fino a una determinata inclinazione, oltre la quale per le caviglie (specie quella interna al pendio) non era più possibile raggiungere e sostenere la posizione per l’appoggio parallelo, rendendo necessario il ricorso al gradinamento.
Nel frattempo, gli attrezzi, costruiti inizialmente a livello artigianale dagli alpinisti, cominciarono a essere prodotti a livello industriale, per cui migliorarono i materiali impiegati e se ne uniformarono le forme. Le piccozze vennero ulteriormente accorciate nel manico (erano lunghe da un metro a 1,20 metri circa) e dotate all’estremità inferiore di un nuovo e solido puntale di metallo e a quella superiore di un ferro a “piccone”. Questo ferro, di acciaio cementato, simile per molti aspetti ai precedenti, era formato da una becca diritta lunga e appuntita, piatta in senso verticale e da una paletta corta a foggia di zappetta tagliente e leggermente incurvata. Sul manico, ancora di legno, c’era un anello mobile di metallo cui era legato un reggi piccozza di canapa.
I nuovi materiali favorirono l’apertura di impegnativi itinerari di ghiaccio e misto e, ovviamente, un approccio migliore e più adeguato a questi elementi. In particolare si misero in luce, per citarne solo alcune, la cordata formata dall’irlandese Ryan e dalla guida Lochmatter con la salita allo sperone nord ovest dell’Aiguille du Pian e alla parete sud del Taeschhorn e la cordata dell’inglese Young con la guida Knubel. In particolare, Young e Knubel formarono una cordata leggendaria che compì fra il 1900 e il 1914 salite memorabili, fra le quali ricordiamo la Nord-ovest della Dent d’Hérens, la Est e Ovest del Weisshom, la Est del Rothorn, la Sud-ovest del Dôm e del Taeschhom, la cresta Kleine Triftij sul Breithorn, la cresta di Brouillard, la cresta ovest delle Jorasses, la Est del Grépon e la cresta des Hirondelles in discesa. La figura di Geoffry Winthrop Young rappresentò anche l’ultimo dei grandi alpinisti-pionieri inglesi che hanno agito, prima del primo conflitto mondiale, sulle Alpi. Il sorgere di rivalità nazionalistiche e le tragedie della Grande Guerra, allontaneranno per lunghi anni dalle Alpi l’alpinismo inglese, un alpinismo che ha sempre dimostrato, nel corso del tempo, tutta la sua capacità creativa, propositiva e innovativa.
La seconda grande rivoluzione
Le vicissitudini della prima guerra mondiale non risparmiarono certo il mondo alpinistico, tant’è che alpinisti noti e meno noti persero la vita in battaglia e sovente proprio in azioni di guerra sulle amate cime: da fratelli prima sulle vette, a nemici poi per una divisa e una bandiera di un altro colore. Ma purtroppo la ragione di stato era più forte (e tuttora spesso lo è) della ragione dell’alpe.
Placatisi gli odi e le incomprensioni, per il mondo alpinistico iniziò il “ritorno ai monti”. Un ritorno legato anche ad aspetti nazionalistici, carico di rinnovati entusiasmi, di voglia di riscatto, ma a volte anche voglia di dimenticare, di evadere da tutti i problemi lasciati in eredità dalla guerra. Naturalmente la tendenza fu subito quella di affrontare difficoltà sempre più elevate. I ghiacciatori degli anni ’20 riuscirono così a superare con i modesti mezzi tecnici del tempo inclinazioni sostenute, ma un grande problema era costituito dalla mancanza di assicurazioni perlomeno accettabili. Se negli anni ’20 era stata introdotta in alpinismo l’assicurazione a spalla in abbinamento ai chiodi da roccia già utilizzati alla fine dell’Ottocento, tuttavia si comprenderà bene come su ghiaccio, fino ad allora, le uniche assicurazioni fossero costituite dal manico della piccozza, da qualche chiodo da roccia nei tratti di misto e da ancoraggi naturali quali spuntoni, massi affioranti e… buone mani e insensibilità al dolore per le eventuali “frenate”. Pertanto i rischi cui andavano incontro i ghiacciatori erano molto elevati e certe imprese compiute allora hanno ancor oggi dell’incredibile.
Fu nel 1924 che Willo Welzenbach, valente alpinista tedesco della “Scuola di Monaco”, introdusse il chiodo da ghiaccio, disegnato da Fritz Riegele, durante la prima ascensione della Nord del Wiessbachhorn e, nell’anno successivo, della Nord della Dent d’Hérens. Welzenbach ebbe anche il merito di divulgarne la conoscenza e la pratica presso il mondo alpinistico del tempo, nonché di studiarne forme e materiali. I primi chiodi da ghiaccio, infissi con il martello, erano delle barrette piatte di ferro lunghe da 18 a 25 centimetri, con un foro all’estremità superiore (testa) in cui passava un anello forgiato. La barretta presentava spigoli “squamati” e ciò per ancorare meglio il chiodo nel ghiaccio. Poiché i primi chiodi erano costruiti artigianalmente, era ovvio che ogni alpinista cercasse di apportarvi delle innovazioni nella costruzione e nella forma. Da queste sperimentazioni vennero in seguito forgiati dei chiodi molto lunghi, 30 centimetri circa, con gambo di sezione a forma di “T” e in cui ogni spigolo risultava squamato.
Successivamente venne creato un modello semitubolare, molto lungo e anch’esso con anello alla testa e più tardi ancora il modello “Roseg”. Quest’ultimo, che fra l’altro ha il merito di aver introdotto il concetto di tubolare, era costituito da un tubo di ferro del diametro di 1,5 centimetri, lungo 25-30 centimetri e munito all’estremità superiore di un anello. Nella parete del tubo erano praticate alcune “finestre” disposte asimmetricamente le quali consentivano di sfruttare il principio del rigelo: infiggendo il chiodo, il ghiaccio si scioglieva e penetrava sotto forma di acqua, passando dalle aperture all’interno dello stesso, ove gelandosi si saldava nuovamente con il ghiaccio esterno. Comunque, ritornando agli anni ’20-30 diremo che il chiodo da ghiaccio rappresentò per il mondo alpinistico una significativa innovazione, in quanto consentiva l’assicurazione sui pendii di ghiaccio vivo, aumentando nel contempo la sicurezza della cordata. Inoltre gli alpinisti tedeschi introdussero anche sul ghiaccio tutta la loro abilità nelle manovre di corda, chiodi e moschettoni (apparsi, questi ultimi, agli inizi del ‘900), tant’è che il chiodo da ghiaccio, in seguito, venne anche impiegato come appiglio per superare tratti di ghiaccio verticale e strapiombante, ricorrendo altresì, laddove necessario, a manovre di corda, al pari della tecnica artificiale di roccia. In effetti, in campo alpinistico, la scuola tedesca e austriaca, formatasi nel Kaisergebirge e conosciuta anche come “Scuola di Monaco”, sarà la vera forza trainante e innovatrice degli anni ’20 e le grandi realizzazioni compiute sia in roccia che in ghiaccio ne sono una testimonianza. Essa fungerà anche da stimolo per tutto l’ambiente alpinistico del tempo, tant’è che negli anni ’30 sarà la scuola italiana a centrare grandi obiettivi, superando spesso il livello dei “maestri tedeschi”. Tuttavia, perlomeno in ghiaccio, saranno ancora gli alpinisti tedeschi e austriaci a risolvere i grandi problemi del tempo. Si pensi alla prima salita della Nord del Cervino da parte dei fratelli Schmid, della Nord dell’Ortles da parte della cordata Ertl e Schmid e della Nord del Zebrù da parte di Ertl e Brehm. Anche la temutissima e oramai mitica parete nord dell’Eiger, venne superata (1938) da un gruppo austro-tedesco formato da Kasparek, Harrer, Heckmair e Vörg e indubbiamente legato alla Scuola di Monaco. Non va infine sottaciuta l’importanza assunta, in particolare negli anni ’30, dall’alpinismo francese nelle salite su ghiaccio e misto (effettuate essenzialmente sulle Occidentali) e nella divulgazione della didattica e delle tecniche. Si trattò essenzialmente di un alpinismo di gruppo, e in effetti fu proprio il GHM (Gruppo alta montagna) a raccogliere attorno a sé tutti i migliori alpinisti francesi, fra cui ricordiamo Jacques Lagarde, Pierre Allain, Lucien Devies e la guida Armand Charlet, detto il Preuss delle Occidentali, vero maestro su ghiaccio e misto.
Ritornando agli aspetti tecnici, diremo che se il chiodo da ghiaccio rappresentò una grande innovazione anche ai fini della sicurezza, una seconda grande rivoluzione nelle tecniche di progressione su ghiaccio si ebbe con l’introduzione del rampone a 12 punte. Fu infatti nel 1929 che i figli di Henry Grivel, Laurent ed Aimè Grivel, introdussero i ramponi a 12 punte, impiegandoli con successo sulla Nord dell’Aiguille d’Argentière. Durante questa salita lasciarono incredula una cordata francese, superandola a tutta velocità su inclinazioni notevoli, che a quel tempo richiedevano ancora un lavoro di gradinamento. I nuovi ramponi, leggeri ma molto resistenti, erano dotati di 10 punte sotto la suola e di due punte frontali sporgenti, in avanti che rendevano possibile la progressione frontale o cramponnage frontale. L’idea della progressione frontale non era nuova, tant’è che a suo tempo qualche alpinista aveva già tentato di utilizzarla modificando il modello Eckenstein al fine di ottenere un apposito snodo nella parte anteriore del piede. Tuttavia questi modelli oltre a non poter essere impiegati al di là dei 55-60°, avevano evidenziato gravi inconvenienti legati a un attacco a vite poco sicuro. Ma soprattutto avevano dimostrato che per le caviglie era impossibile piegarsi fino a poggiare sul ghiaccio ben quattro punte con la parte anteriore del piede e riuscire nel contempo a procedere in salita.
Invece il modello di Grivel, con le sue due punte anteriori, consentiva sia il cramponnage laterale che quello frontale, senza esigere che il ghiacciatore fosse dotato di piedi da “fachiro”. Infatti con questo modello era (ed è tuttora) sufficiente piantare le due punte anteriori nel ghiaccio, ottenendo contemporaneamente una buona presa anche per la coppia di punte verticali. Anche questi modelli venivano fissati allo scarpone mediante cinghie di canapa passanti negli appositi anelli disposti sui ramponi. Il cramponnage frontale consentì agli alpinisti il superamento di brevi tratti di ghiaccio con inclinazioni di circa 60-70°, che normalmente esigevano un duro lavoro di gradinamento, che comunque continuò a essere utilizzato e praticato. Tuttavia, la nuova tecnica comportava anche un notevole affaticamento per polpacci e caviglie, tale per cui era necessario, laddove possibile, alternarla con il cramponnage laterale e ricorrere, se necessario, al lavoro di gradinamento. Inoltre, questa tecnica stimolò un impiego più efficace della piccozza, che accorciata ancor più nel manico (era lungo circa un metro) su pendenze oltre i 45°, veniva impiegata non più in appoggio, ma tenendo il viso rivolto al pendio e piantando la becca sul pendio stesso. La piccozza diveniva così il sostegno per una mano, mentre si appoggiava l’altra mano sul ghiaccio intagliando se necessario una piccola nicchia (acquasantiera) per mantenere una posizione più sicura e corretta. Comunque, nonostante i nuovi materiali e le nuove tecniche, gli alpinisti continuarono a gradinare sul ghiaccio vivo fino agli anni ’60 anche su inclinazioni di 55-60° e solo cordate molto preparate riuscivano a superare pendii così ripidi senza gradinare affatto. Va comunque detto che ascensioni quali la Nord dell’Aiguille Verte e del Lyskamm, la cresta di Peutérey e la via della Brenva al Bianco, potevano essere effettuate senza gradinare o intagliando con la piccozza solo qualche gradino in punti particolarmente ostici, mentre un tempo si gradinava per ore anche dove il pendio era di neve dura. Comunque, per tratti oltre i 70° si era costretti a ricorrere a tutte le manovre di corda e chiodi, impiegate nella tecnica artificiale in roccia.
Negli anni ’50-60 i manici delle piccozze vennero ulteriormente accorciati a circa 100-80 cm e nelle salite su ghiaccio ripido venne introdotto il “pugnale da ghiaccio”, che impiegato in coppia con la classica piccozza, consentiva una progressione più spedita e sicura evitando nel contempo l’intaglio delle apposite “acquasantiere” per la mano. Comparvero anche le prime piccozze e ramponi leggeri di acciaio e i primi modelli delle viti da ghiaccio tipo “cavatappi”. Pur con tutti i loro limiti, queste ultime ebbero se non altro il merito di introdurre nell’alpinismo su ghiaccio il concetto di “avvitamento” e “svitamento”. Verso la fine degli anni ’60 comparvero anche i primi modelli di chiodi tubolari a vite, in grado di consentire una maggiore sicurezza e affidabilità.
Sul piano alpinistico, gli anni ’50 e ’60 furono caratterizzati essenzialmente da scarsi sviluppi nelle tecniche di progressione su ghiaccio, ma non vanno sottaciute alcune salite assai impegnative, realizzate da cordate particolarmente preparate. Ricordiamo ascensioni quali la Bonatti-Zappelli al Pilier d’Angle, la Cornuau-Davaille, in cinque giorni nel 1955, sulla parete nord delle Droites e, non ultima, la Desmaison-Flematty, nel 1968, sul Linceul delle Grandes Jorasses. Come detto in precedenza, quello che cambiò, fu il tempo di percorrenza degli itinerari, perlomeno da parte delle cordate più preparate o dei “solitari” più arditi. Non è un caso che fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, il giovane svizzero Erich Friedli riuscì a ripercorrere le grandi vie di Willo Welzenbach nell’Oberland Bernese, nonché numerose pareti nord delle Alpi, spesso in solitaria e con tempi ridotti. Una sua caratteristica consisteva nell’utilizzo del cramponnage frontale, abbinato a due pugnali da ghiaccio per le mani. Del 1969 è invece la salita in solitaria da parte di Reinhold Messner, in sole 7 ore, della Nord delle Droites, considerata allora la più impegnativa salita di ghiaccio e misto delle Alpi. Ma già in precedenza, Messner, aveva dato prova della propria abilità, con l’apertura di una impegnativa e pericolosa variante diretta sulla Ertl-Schmid, sulla Nord dell’Ortles.
In generale possiamo affermare che in un periodo storico caratterizzato dai nazionalismi anche negli sport della montagna, le varie scuole alpinistiche tendevano a privilegiare talune tecniche, a seconda della propria estrazione culturale. Non è un caso, per esempio, che gli alpinisti tedeschi e austriaci, furono a suo tempo solleciti nell’adottare i ramponi a 12 punte e la tecnica “frontale”, mentre i francesi, eccezionali nel cramponnage laterale, necessitarono di più tempo per cambiare e sovente continuarono a utilizzare i loro ramponi a 10 punte, che bene si angolavano quando i piedi erano paralleli al pendio. Un discorso a parte meritano invece gli alpinisti inglesi e, soprattutto, scozzesi. Questi intuirono proprio sui canaloni ghiacciati delle Higlands scozzesi che l’arte del rampone frontale consentiva di salire tratti di ghiaccio sempre più inclinati e impegnativi, evitando spesso l’intaglio di gradini. Su questa strada si indirizzeranno negli anni ’60 anche gli alpinisti del Nord America che, oltre alle grandi ascensioni nella Yosemite Valley, rivolsero la loro attenzione sulle grandi pareti, spesso ghiacciate, del Nord.
La terza grande rivoluzione
Nonostante tutte le innovazioni viste in precedenza, rimaneva aperto il problema del superamento di tratti verticali senza far ricorso alla tecnica artificiale. Ciò che ancora non si era intuito erano le enormi potenzialità che potevano derivare da una piccozza usata in trazione sul manico, abbinata alla tecnica del cramponnage frontale. È pur vero che storicamente, già Jacques Lagarde nel 1926 aveva usato la piccozza in trazione sul manico (impugnandola tuttavia con entrambe le mani) durante l’apertura, con Henry Segogne, dell’impegnativo Couloir des efforts perdus all’Aiguille du Plan. Tuttavia, non essendo ancora stati introdotti i ramponi a 12 punte, era stato costretto non solo a gradinare per mani e piedi, ma anche a creare cavità per evitare lo sbilanciamento causato dall’alzata delle ginocchia: il tutto con ramponi a 10 punte e senza chiodi. Lo stesso, inoltre, aveva compreso come, curvando leggermente la becca della piccozza, si potessero affrontare inclinazioni sostenute usando l’attrezzo in trazione. Le idee di Lagarde erano state poi riprese negli anni ’30-40 da Lucien Devies, ma non apprezzate e comprese dalla maggioranza del mondo alpinistico di allora, nella loro potenziale carica innovativa. Tuttavia, nel 1969, André Contamine, guida dell’ENSA, pubblicava su La Montagne un articolo premonitore dal titolo più che significativo Le piolet ancre (piccozza ancorata), nel quale sosteneva che quest’ultima, abbinata alla tecnica dei ramponi alla francese, fosse una modalità che consentiva di avanzare sui pendii ripidi di ghiaccio, senza fatica o difficoltà.
Nel 1971, Walter Cecchinel, francese ma di genitori veneti, riprendendo le intuizioni di Lucien Devies e quelle successive di André Contamine, ideò un attrezzo che, partendo dal pugnale da ghiaccio, poteva offrire altre possibilità d’impiego, come per esempio quella di un martello. Ne uscì un arnese, a detta di Cecchinel, un po’ bizzarro: un pugnale da ghiaccio con manico, che venne impiegato per aprire un’impegnativa via al Grand Pilier d’Angle. Ben presto Cecchinel, proveniente dalla grande scuola dei ghiacciatori francesi, intuì che la mano poteva impugnare il manico del prototipo per ancorarlo, a braccio teso, al di sopra della testa, per potersene servire come “presa di sostegno”. Al contrario del piolet ancre, i ramponi venivano utilizzati “punte avanti” e, accoppiata al martello, veniva impiegata una piccozza classica d’appoggio. Poco tempo dopo Cecchinel mise a punto due attrezzi ben specifici, piccozza e martello, con becca inclinata e provvista di dentini ben marcati e incisi, prodotti da Simond, con i quali riuscì a ripetere il Couloir Lagarde-Segogne all’Aiguille du Plan, procedendo su inclinazioni sostenutissime e, come lui stesso ricorda, trovando sempre più naturale piantare i propri attrezzi al di sopra della testa e di servirsene come dei pioli d’una scala spostabili. Con la successiva e più divulgata salita invernale nel 1973 del Couloir nord-est dei Drus, a opera dello stesso Cecchinel assieme a Claude Jager, la divulgazione della tecnica e successivamente la commercializzazione del relativo materiale, allargarono il campo d’interesse e vi fu attenzione per quella che prenderà il nome più che significativo di “piolet-traction” (trazione sugli attrezzi).
Come racconta Cecchinel, insegnante di alpinismo presso l’ENSA, la grande scuola nazionale francese di sci e d’alpinismo con sede a Chamonix, inizialmente non fu semplice superare la ritrosia e la diffidenza di quella venerabile scuola (troppo spesso, allora, ferma al motto «l’a dit Charlet») ad accettare la nuova tecnica. Ma ben presto ci si accorse che la tecnica classica e la nuova erano complementari e che l’ultima nata era il risultato finale “dell’arte suprema del ghiacciatore”. L’insegnamento della nuova tecnica, i risultati che ad essa seguirono e i nuovi materiali, consentirono alla piolet-traction di entrare quale metodica indispensabile nel bagaglio della nobleart dell’alpinista. Come suggerisce Cecchinel, è comunque opportuno ribadire che storicamente la messa a punto della tecnica di piolet-traction è stata resa possibile dal lavoro individuale di piccoli gruppi di alpinisti in collaborazione con alcuni costruttori di materiali per alpinismo. Ognuno di questi gruppi di studio e progettazione era all’oscuro delle ricerche degli altri, ma tutti hanno proceduto similmente con le stesse modalità verso la soluzione del problema. È una riprova di quanto affermato il fatto che già alla fine degli anni ’60, John Cunningham e Bill March, due istruttori di alpinismo scozzesi che erano in contatto con l’alpinista americano Yvon Chouinard, avevano messo a punto sui “gully”, i canaloni scozzesi, autentiche fucine per l’arrampicata su ghiaccio fin dalla fine dell’Ottocento e sul terrificante “rime-ice”, ghiaccio di brina su roccia, la stessa tecnica applicata poco dopo da Cecchinel sui couloir delle Alpi. Inoltre, Cunningham ideò il primo attrezzo per gli arti superiori con becca fortemente inclinata, la cosiddetta “terrordactyl”, che fu prodotta e ulteriormente elaborata dal ghiacciatore scozzese Hamish Mclnnes, compagno di due mostri sacri nell’evoluzione dell’arrampicata su ghiaccio, quali sono stati gli scozzesi Jimmy Marshall e Tom Patey. La forma della becca consentiva al ghiacciatore di piantare l’attrezzo sul ghiaccio con un leggero colpo, anche se lo strato di ghiaccio era sottile, nonché di ottenere contemporaneamente un buon ancoraggio. Non è un caso, infatti, che Bill March, nel 1968, salì sul Cascade nei Cairngorms con una vera e propria tecnica di piolet-traction (anche se questo nome ancora non era in uso), superando risalti verticali. È proprio in questa occasione che tale tecnica viene utilizzata per la prima volta in Scozia. Nel 1970, poi, Cunningham e March, salgono il breve, ma verticale Chancer sull’Hell’s Lum nei Cairngorms. E fu questa, in assoluto, la prima salita scozzese su ghiaccio verticale, effettuata senza l’intaglio di alcun gradino. È altresì noto come già nel 1966 Yvon Chouinard avesse concepito, durante una campagna alpinistica sulle Alpi, una piccozza con becca fortemente curva, realizzata da Charlet-Moser, che corrispondeva al raggio naturale di curvatura del movimento del braccio. Nelle intenzioni di chi l’aveva concepito, questo modello di piccozza aveva la funzione di penetrare facilmente anche nel ghiaccio più duro. E fu grazie a questo modello, al chiodo tubolare a vite “Tube Screws” (Salewa) e a un rampone rigido e regolabile in acciaio al cromo-molibdeno, nonché all’intraprendenza di abili alpinisti quali lo stesso Chouinard, Tom Frost, Doug Robinson, Charlie Porter, Bugs McKeith, Greg e Jeff Lowe, che vennero saliti alla fine degli anni ’60 e negli anni ’70 i colatoi ghiacciati nella Sierra Nevada (California), nel Montana, nello Utah, nel New England e nel New York, le prime cascate ghiacciate in Colorado, nonché in Canada, in particolare nel Quebec. Pur con piccole sfumature, che distinguevano le varie scuole (gli anglosassoni, per esempio, non usavano collegare il martello da ghiaccio alla cintura), la piolet-traction e tutto l’armamentario che ne seguì, si posero come pietra miliare e base per una nuova epoca dell’alpinismo su ghiaccio. Non bisogna tuttavia pensare che l’utilizzo della piolet-traction sia stato immediato e generalizzato. Come per tutte le novità, occorse un certo tempo affinché la nuova tecnica venisse appresa, utilizzata e metabolizzata da parte del mondo alpinistico. Per esempio, nel superamento di tratti verticali e strapiombanti, per un certo periodo si adottò l’utilizzo di un terzo attrezzo, un martello-piccozza, il quale, fondamentalmente, riproponeva una progressione molto simile all’artificiale (tenendo conto del fatto che, comunque, la progressione su ghiaccio ha una componente “artificiale” non certo secondaria!). In seguito, con lo sviluppo e l’affinamento della piolet-traction, abbinata all’evoluzione delle capacità individuali, il terzo attrezzo è stato rimosso e utilizzato, per chi lo porta con sé, solo come sostitutivo dei due attrezzi principali, in caso di rottura o perdita di uno di questi.
Con la nuova tecnica, un po’ tutti i materiali da ghiaccio hanno subito modifiche e perfezionamenti a volte considerevoli, che si sono protratti fino ai nostri giorni. Per quanto riguarda le piccozze, è bene sottolineare che quando si parla di “becca inclinata o curva” ci si riferisce a una forma riscontrabile nelle attuali piccozze per alpinismo classico, che possono per questo essere usate anche in trazione su ghiaccio ripido (65-70° circa). Per esempio, la piccozza usata da Cecchinel sul Couloir nord-est dei Drus, presentava una curvatura nella becca simile a quella riscontrabile proprio nelle attuali piccozze per alpinismo classico. Dalla forma della Terrordactyl e da altri prototipi simili, sono invece derivate le successive forme delle piccozze con becca fortemente angolata a banana. Questi modelli specialistici, commercializzati nella seconda metà degli anni ‘70, hanno sempre avuto un campo d’azione limitato e specifico: il ghiaccio verticale (o quasi) e strapiombante (dai 70° circa a 90° e più).
Lancio e aggancio
Tutto questo ha portato a suddividere le piccozze in due gruppi ben specifici: le piccozze da lancio e quelle da aggancio. Fanno parte del primo gruppo le piccozze cosiddette classiche, con becca leggermente curvata, che possono essere impiegate sia in appoggio che in trazione. La lunghezza del loro manico varia dai 55 ai 70 centimetri circa; queste piccozze trovano un campo d’impiego particolarmente vasto. Nel secondo gruppo rientrano invece le piccozze specialistiche, con becca fortemente curva e in alcuni modelli anche tubolare per ghiaccio sottile. Queste piccozze vengono impiegate nel superamento di tratti con fortissima inclinazione e quindi, prevalentemente su cascate di ghiaccio, couloir, goulotte, seracchi. La loro lunghezza varia dai 45 ai 55 centimetri, favorendo così il movimento di battuta e le modalità di progressione. Dagli anni ‘70 in poi, anche nei materiali impiegati per la loro fabbricazione si è assistito a un completo rinnovamento. Il manico di legno è praticamente scomparso; oggi si impiegano acciai speciali, leghe leggere (in alcuni modelli materiali quali il titanio e, per il manico, fibre di carbonio) e rivestimenti di gomma antisdrucciolo. Anche la becca della piccozza ha visto l’introduzione di acciai speciali e, a volte, di titanio. Al fine di realizzare un attrezzo polivalente, negli anni ’80 sono state introdotte le piccozze modulari, le quali consentono di intercambiare i vari tipi di becca (e in alcuni modelli anche il manico) nonché la paletta con una massa battente, ottenendo così il martello-piccozza. Negli anni ’90 sono stati introdotti modelli con manico ricurvo, da usare prevalentemente nella piolet-traction. Anche i ramponi hanno subito modifiche e perfezionamenti. Benché i ramponi snodati a 12 punte potessero sovente essere impiegati con la nuova tecnica (e infatti così fu agli inizi), tuttavia basandosi la stessa sulla progressione sulle punte frontali e necessitando nel contempo di grande stabilità e compattezza, vennero realizzati dei modelli rigidi in grado di eliminare i problemi in battuta generati dai ramponi snodati. Le allacciature in canapa vennero sostituite da cinghie di materiale plastico più resistenti e affidabili e anche i materiali per la fabbricazione dei ramponi, divennero più sofisticati mediante l’impiego di acciai speciali (in alcuni modelli anche di titanio) che li rendevano più leggeri e resistenti. La piolet-traction aveva comunque introdotto nelle tecniche di ghiaccio la specializzazione, per cui ci si rese conto ben presto che su inclinazioni classiche (fino a 60° circa) e su misto, il classico rampone snodato a 12 punte, migliorato e rinforzato dai nuovi materiali, rimaneva e rimane il più indicato e polivalente sia nel cramponnage laterale che frontale. Un’interessante e valida innovazione alla fine degli anni ‘70 e nei primi anni ’80 è stata l’introduzione degli attacchi rapidi, che stanno sostituendo le classiche cinghie di fissaggio. Questo è stato reso possibile anche e soprattutto dall’impiego sempre più frequente di scarponi con scafo in plastica o quantomeno rigido. Ulteriori innovazioni hanno avuto i ramponi specialistici per piolet-traction impiegata su inclinazioni estreme (80-90° e strapiombanti). Inizialmente sono stati creati modelli a 14 punte (due punte frontali diritte e due punte oblique sottostanti) e successivamente è stato introdotto un modello a 20 punte, in cui la disposizione delle quattro frontali è molto pronunciata e obliqua. Questo sistema ha il compito di garantire la massima stabilità sui piedi anche nel caso di un colpo in diagonale, garantendo la penetrazione di almeno due punte. Un modello particolare per il ghiaccio estremo sono i ramponi con una sola punta frontale (monopunta). Recentemente, al fine di favorire. movimenti particolari anche nelle salite di ghiaccio, ai ramponi possono essere applicati degli speroni, in grado di favorire gli agganci di tallone e altri particolari equilibri nelle salite estreme. Ovviamente analoghe innovazioni hanno subito i chiodi da ghiaccio, per cui sono stati creati modelli in acciaio con denti a spirale (protuberanze o solchi disposti secondo una filettatura) che vengono piantati nel ghiaccio con il martello e tolti mediante svitamento.
Un’altra notevole innovazione sono state le viti tubolari d’acciaio a sezione sottile (Snarg), che vengono piantate con il martello e tolte anch’esse mediante svitamento. Negli ultimi anni, comunque, si sono sempre più affermate le viti da ghiaccio tubolari, in quanto sono di semplice impiego e garantiscono una maggiore sicurezza e affidabilità. Per piantarle è sufficiente praticare nel ghiaccio un foro d’invito con la becca della piccozza o del martello da ghiaccio e avvitarvi poi il chiodo: per toglierlo basterà svitarlo. In particolare, per questi chiodi è interessante rilevare come il notevole diametro che spesso presentano, favorisce un’infissione maggiormente sicura. Alcuni modelli hanno anche la caratteristica di avere il diametro variato in lunghezza (costruzione tipo “cono”), per cui è più semplice l’espulsione della carota di ghiaccio dopo lo svitamento. Anche nei materiali di costruzione si sono avute delle innovazioni, con l’impiego di acciai speciali che ne consentono la riduzione del peso, nonché delle leghe di titanio che necessitano comunque di particolari attenzioni con riferimento al trattamento e lavorazione del materiale.
Il vento del rinnovamento
Come già accennato, la nuova tecnica ha consentito sviluppi incredibili nelle salite su ghiaccio e per certi versi essa si è legata al vento del rinnovamento portato nel mondo alpinistico agli inizi degli anni ‘70 dal free climbing. Ma ciò che accomunava le due discipline era essenzialmente un nuovo modo di vivere l’alpinismo: la necessità e possibilità per l’alpinista di proporsi come soggetto non più passivo e ripetitivo, ma bensì come attivo, critico, costruttivo e innovativo. Di qui la visione del “regno di cristallo” come di una fonte per nuove possibilità di scoperta e di gioco, in cui poter sviluppare ancor più l’intelligenza motoria nella ricerca di una gestualità nuova e possibilmente creativa. In Italia, gran parte del merito va ascritto ad alpinisti quali Giorgio Bertone, Piero Marchisio, Fulvio Conta, Guido Ghigo, Gian Carlo Grassi, Gianni Comino e Renato Casarotto, veri antesignani della piolet-traction. Con questa tecnica essi hanno superato seraccate, goulotte, flussi ghiacciati, dalle inclinazioni incredibili e in tempi notevolmente ridotti, divulgando e incentivando sempre più le grandi potenzialità innovative, gestuali e di ricerca insite nella nuova tecnica.
Anche negli altri paesi alpini, si sono naturalmente avute iniziative analoghe: si pensi per esempio alle performance dei francesi Jean-Marc Boivin, Eric Escoffier, Patrick Gabarrou, François Damilano, Pierre Béghin o a quelle dei ghiacciatori scozzesi, che hanno portato a una messe di risultati di rilievo sia sulla catena alpina che sulle grandi catene montuose extraeuropee. Negli ultimi anni, poi, si è assistito al divulgarsi di un nuovo filone dell’alpinismo su ghiaccio già iniziato negli anni ‘70, la salita di flussi ghiacciati (cascatismo) sia in quota che nelle zone di fondovalle, caratterizzate nella fredda stagione da temperature particolarmente rigide. Anche se è pur vero che la prima cascata salita e poi frequentata per gioco e allenamento già agli inizi del ‘900, fu quella sulla Gaisloch alla Rax Alpe non lontana da Vienna, è altrettanto vero che mai come in questi tempi si è assistito a un rinnovato interesse nel mondo alpinistico per i flussi ghiacciati di fondovalle e non. Questo tuttavia pone quantomeno la necessità di una buona conoscenza da parte degli alpinisti delle tecniche di salita e buone capacità di valutazione del grado di difficoltà e dei pericoli obiettivi in relazione alle proprie capacità tecniche e psicofisiche. Si è anche evidenziata la necessità di un buon allenamento finalizzato non solo all’attività alpinistica in generale, ma anche (per chi la pratica) alla piolet-traction. Di qui la costruzione di pareti artificiali con legno particolarmente tenero, ove ci si può allenare con piccozze e ramponi, simulando una salita su ghiaccio.
In alcuni centri turistici di montagna particolarmente sensibili a questa disciplina, sono state create delle strutture verticali di ghiaccio artificiale, finalizzate all’allenamento degli alpinisti e utilizzate anche per gare di arrampicata su ghiaccio, già molto in voga fin dagli anni ‘70-‘80 nei paesi dell’Est, in particolare nell’Unione Sovietica.
Inoltre, proprio negli anni ’90, la frequentazione sempre più massiccia dei flussi ghiacciati e la ricerca sempre più spinta dell’effimero, ha portato alla nascita di un nuovo filone di arrampicata su terreno misto. Tale disciplina prevede la salita in piolet-traction di flussi o terreni ghiacciati in genere, verticali o strapiombanti, nei quali impegnative sequenze di ghiaccio si alternano ad altre sequenze altrettanto impegnative su roccia.
Quest’ultima viene superata con l’utilizzo di ramponi e piccozze: è la tecnica del dry tooling, su sezioni (in genere con difficoltà estreme) miste di roccia asciutta e ghiaccio. Di solito vi sono notevoli difficoltà di assicurazione e protezione, per cui a volte si utilizzano chiodi a espansione. Se è vero che la frequentazione del terreno misto è stata presente fin dagli albori dell’alpinismo, si comprenderà tuttavia come questo tipo moderno di progressione si ponga, nel panorama alpinistico, come una sua estrema evoluzione. Tale tecnica richiede sicuramente non solo l’ovvio interesse personale, ma anche una competenza e delle capacità che solo un esercizio e una preparazione fisica e psicologica adeguati possono sviluppare nell’atleta alpinista.
Al di là di tutto questo, tuttavia, è bene sottolineare che la tendenza dell’alpinismo moderno a ricercare sempre più le salite di “sensazione” ed “estreme” e la conseguente divulgazione di queste imprese sulla stampa specializzata, ha portato spesso a identificare nella tecnica della piolet-traction
l’unica o la più idonea impiegabile su ghiaccio. Questa errata valutazione ha indotto e induce spesso i neofiti a procedere solo con questa tecnica, bardati di tutto l’armamentario che ne consegue, anche su inclinazioni modeste. Quanto sia dannoso tutto questo per la formazione di base dell’alpinista risulta ovvio e non necessario di particolari sottolineature. È invece importante ribadire che il cramponnage laterale e successivamente frontale, con tutti i vari tipi di passo e
impiego della piccozza, rimangono la base per l’alpinismo su ghiaccio, sia esso classico o moderno. Queste due tecniche, frutto dell’evoluzione dell’alpinismo, favoriscono l’apprendimento della stabilità e dell’equilibrio sul ghiaccio, che nessun “super rampone” o “super piccozza” moderni potranno mai, da soli, dare e sono il presupposto per un approccio proficuo e creativo, alla piolet-traction.
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