La bicicletta per Marc Augé

di Giacomo Glossi
(pubblicato su Almanacco Doppiozero il 2 luglio 2015)

La bicicletta uno strumento contro l’astrazione
Sono passati vent’anni dalla pubblicazione in Francia di Nonluoghi di Marc Augé, libro che ha segnato gli studi antropologici e vero e proprio manifesto dell’antropologia del quotidiano. In occasione di questo anniver­sario Elèuthera, suo storico editore italiano, manda alle stampe una nuova edizione del volume con una lunga e inedita prefazione in cui Marc Augé delinea e distingue i nuovi nonluoghi che si sono imposti nella società contemporanea. Marc Augé, già giovanis­simo tifoso di Fausto Coppi e di Jean Robic, è anche un grande appassionato di ciclismo, tanto da dedicargli il pamphlet Il bello della bicicletta (Bollati Boringhieri). Con il suo aiuto proviamo quindi a decifrare l’impor­tanza dell’uso della bicicletta nella scoperta, non solo dell’ambiente che ci circonda, ma anche di noi stessi.

Come muta la percezione di un luogo se attraversato in bicicletta?
Credo che l’importanza della bicicletta non sia solo una questione tecnica, quale mezzo di trasporto, ma che stia nella capacità di rivelare la relazione che noi abbiamo rispetto al tempo e allo spazio. La bici­cletta ci aiuta a prendere coscienza delle due dimensioni. Dello spazio è evidente perché pedalando il paesaggio circostante muta davanti ai nostri occhi mentre del tempo perché ciascuno di noi ne percepisce uno diverso a seconda della preparazione atletica e dell’età. Esiste quindi un rap­porto concreto tra spazio e tempo. Gli altri mezzi di circolazione e di comunicazione danno invece una percezione astratta, così come il mondo delle immagini dentro cui siamo immersi, tendendo a farci ignorare la sostanza di questo rapporto. L’uso della bicicletta ci riporta all’evidenza del nostro corpo, della nostra età e dell’ambito che ci circonda, è così un modo sano per ritrovare se stessi, il proprio tempo e il proprio spazio. La bicicletta è uno strumento contro l’astrazione.

Marc Augé

Come si caratterizza l’uso della bicicletta nello spazio metropolitano, in particolare al tempo di una crisi economica che tende a disgregare e a impoverire le città?
In primo luogo siamo di fronte ad esigenze di tipo strettamente economico, ovvia­mente, ma anche di natura ecologica. La crisi ha vari aspetti e forme, ma io direi che va interpretata principalmente come un’occasione di ricostruzione di uno spazio sociale all’interno della città. I ciclisti hanno tra di loro un rapporto fortemente solidale. Ad esempio a Parigi, dove vivo, quando ho voluto provare per la prima volta una Vélib’ senza conoscerne le modalità di funzionamento del noleggio, ho trovato una solidarietà delle persone anche più giovani che mi hanno spiegato il sistema, ed è stata un’occasione per scambiare opinioni e per chiacchierare. Attorno a questo c’è infatti una socialità molto ben strutturata. Dunque il paradosso è che la bicicletta appare come uno strumento individuale, ma in realtà sviluppa una coscienza condivisa tra coloro che la utilizzano al punto da porsi aperta­mente come esempio e in un certo senso soccorso per gli altri.

Qual è l’aspetto più interessante di un sistema di noleggio pubblico di biciclette come il Vélib’ di Parigi?
Principalmente direi l’aspetto contrattuale, che è decisamente più seducente dell’or­dinario sistema tipico del consumo. Con Vélib’ ciò di cui si ha bisogno lo si misura in termini di tempo, si prende la bicicletta per un’ora o per tutto il giorno. C’è quindi sia un principio economico che di recipro­cità. C’è un’etica, ossia un codice di buona condotta che fa sì che gli utenti del servizio si prendano cura dello strumento e questo è a beneficio di tutti. Nel caso generale, ovviamente poi vi sono sempre persone che distruggono le cose, ma nella media funziona bene. E quindi credo che Vélib’ rappresenti una forma di consumo parti­colare, che tiene conto delle esigenze anche degli altri. Anche in questo caso la bicicletta si pone come un oggetto d’uso e di consumo non strettamente individuale, che coinvolge anche i bisogni altrui.

Come è possibile immaginare un utilizzo utopico della bicicletta e quale la sua forza?
Immaginiamo che tutti utilizzino la bicicletta. Se così fosse vivremmo in un mondo profondamente diverso, e non solo tecnicamente o tecnologicamente, ma socialmente e nelle relazioni tra gli uni e gli altri. Vediamo bene che tutto ciò che esiste oggi come mezzo di comunicazione non è segnato dalla preoccupazione del benessere di tutti.
In particolar modo a Parigi, a partire da una certa età o se si è portatori di handicap, prendere la metropolitana non sempre è possibile, in alcuni casi ci sono scale o altri tipi di barriere che lo rendono impossibile. Quindi la metropolitana non adempie com­pletamente al proprio ruolo sociale. Diver­samente, per le biciclette si potrebbe imma­ginare che abbiano, per esempio, dei motori elettrici che non inquinino utilizzabili da chiunque. Ma si è ancora lontani da questo per il momento. Di certo rimango colpito da come in Francia e a Parigi in particolare l’handicap come l’età avanzata siano degli ostacoli reali per circolare liberamente in città, al punto da ostracizzare alcuni indivi­dui. L’utopia della bicicletta sarebbe quindi una generalizzazione delle possibilità in modo che ciascuno possa andare per strada prendendo una bicicletta, partire e lasciarla nuovamente dove gli pare, in maniera totalmente naturale. Sartre parlava della naturalezza con cui ci si scambia il fuoco, da sigaretta a sigaretta, e così dovrebbero essere l’uso diffuso della bicicletta. Così immagino l’utopia della bicicletta.

Posteggio Vélib’ a Parigi

L’uso della bicicletta è un modo per riappropriarsi di un’idea di futuro?
Nella misura in cui la si consideri una sorta di utopia sociale, sì. Detto questo non bisogna sognare. Il futuro dell’umanità è il futuro della scienza e penso d’altra parta che più la scienza potrà svilupparsi, più potrà esser compatibile con la vita di tutti i giorni. Se vi è una finalità umana, questa è quella della conoscenza. La conoscenza dell’universo come la conoscenza intima ed esterna di noi stessi. Certamente la bicicletta è una forma di accesso alla conoscenza, ma una volta che vi sono saliti sopra, gli scienziati devono pur sempre scendere e tornare nei loro laboratori per lavorare e per sperimentare.

Cosa ricorda con più piacere di quando ha imparato ad andare in bicicletta?
I miei ricordi di bicicletta sono soprat­tutto ricordi di adolescenza. Sono andato parecchio in bicicletta, a partire dagli undici anni quando andavo via da Parigi per raggiungere i miei nonni in vacanza in Bretagna. La bicicletta era una meravi­glioso mezzo di scoperta capace di allar­gare gli orizzonti e di farmi vivere vere e proprie avventure. Non che ci si allonta­nasse molto dal villaggio, al massimo una trentina di chilometri, ma l’eccitazione e l’emozione della scoperta erano comunque forti. Piccole scoperte, ma pur sempre tali. La bicicletta è stata per me il desiderio di andare a vedere altrove, di scoprire e cercare oltre.

Ha sempre mantenuto l’uso della bicicletta?
Molto onestamente non in maniera siste­matica, ma quando hanno installato Vélib’ a Parigi ho avuto la curiosità di capirne il funzionamento e un po’ l’ho utilizzata. Solo che Parigi è un po’ problematica, alcune strade sono un po’ pericolose, spesso si è obbligati a percorrere le medesime corsie degli autobus e dei taxi e ci sono stati anche alcuni incidenti. E spero che la situazioni migliori, che si facciano più piste ciclabili e che s’investa nella sicurezza dei ciclisti, ma in generale non posso definirmi un prati­cante inveterato della bicicletta.

Cosa si scopre andando in bicicletta?
Prima di tutto l’uso della bicicletta invita alla scoperta dell’esterno, del paesaggio che ci circonda. In bicicletta non siamo obbli­gati all’interno di itinerari prefissati come capita in città circolando con la metro­politana o con gli autobus. In bicicletta si scoprono percorsi nuovi, scenari inediti appaiono al nostro sguardo, la bicicletta è sì uno strumento di scoperta, ma principalmente di riscoperta geografica. Ma in senso più ampio possiamo dire che andare in bicicletta è un modo per conoscere se stessi. Si fa esperienza della propria forza in modo molto concreto, il rapporto con il proprio corpo può aiutare a capirlo e quindi a migliorarlo. E infine credo che la cosa più positiva sia il poter prendere coscienza della propria età e delle possibilità che questa ancora ci lascia.

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2 Comments

  1. says: bruno telleschi

    L’equivoco non potrebbe essere maggiore, fino al delirio di capovolgere la realtà. Con la bicicletta Marc Augé scopre quello che è già stato scoperto dagli uomini a piedi: l’ambiente e la società, la bellezza del paesaggio e la fratellanza delle relazioni personali. Come tutti gli sport anche la bicicletta contribuisce alla diffusione dell’alienazione con il progresso della tecnica. La tecnica infatti alla conoscenza di sé sostituisce la conoscenza della tecnica, anche nei ciclisti: marziani in città, dove la soluzione della mobilità sta nel trasporto pubblico, e cannibali in montagna, dove il rispetto della natura esclude l’aggressione degli escursionisti.

  2. says: Carlo Crovella

    Il principio del servizio pubblico di bici “on demand” (e cmq non gratis, ma a fronte di specifico abbonamento periodico) sarebbe, in linea teorica, la soluzione ideale per la mobilità nelle grandi megalopoli intasate dal traffico. In realtà, almeno in Italia, le esperienze in merito sono state deludentissime e hanno fatto letteralmente scappare gli operatori. tutto per colpa di alcuni (ma non pochissimi) cittadini che, anziché usare diligentemente le biciclette di questo servizio, ne hanno fatto gli usi più stravaganti, dal requisirle per utilizzare solo più come bici “private” al lanciarle in mare/fiumi ecc. Meglio costringere questi cittadini non meritevoli a spostarli o in bus strapieni e maleodoranti o pedibus calcantibus. per colpa di pochi (che, poi, proprio pochissimi non sono) ci rimettono tutti. L’esistenza di (tanti) cannibali, purtroppo, non è prerogativa della sola montagna.

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