Sangue sulla sabbia

Ovvero come la scrittura può prendere in giro chi legge
di Marcello Cominetti

L’acqua immota faceva sembrare la piccola baia di Cannigione una piscina dal fondo naturale. Non fosse stato per l’apertura verso il largo, l’immobilità di tutto riportava a un luogo chiuso più che a una delle più belle spiagge della Sardegna.
Il sesto mese di gravidanza di Elisabetta, avevamo deciso di trascorrerlo vagabondando con il nostro pullmino Volkswagen al caldo del Mediterraneo e maggio è un ottimo periodo per fuggire dalle nevi alpine ancora presenti a casa nostra.
Lei leggeva con la schiena appoggiata a uno scoglio liscio di granito rosa nell’ombra di un pino marittimo mentre io stavo appollaiato al sole sul capo meridionale della baia, contemplando stancamente lo spettacolo circostante più del libro che avevo in mano.

Guardavo i pesci inseguirsi tra le alghe che mi sembravano uccelli nell’aria, perché l’acqua non si muoveva assolutamente sembrando inesistente, e il quasi impercettibile ondeggiare del moto ondoso rilasciava dei pigri anelli concentrici che provocavano delle microonde in direzione opposta a quelle che normalmente accarezzano o schiaffeggiano le spiagge.
La temperatura era perfetta, né caldo né fresco. Si sarebbe potuti restare lì all’infinito.

A un certo punto un’auto si fermò e ne discese una coppia con un ragazzino di circa una decina d’anni e i tre si sistemarono sulla spiaggia a una certa distanza da noi.
La madre si stese a pancia in giù mentre il figlio, suppongo, estrasse da una borsa una serie di bocce da pétanque di quelle grosse e di metallo lucente color oro, e col padre iniziò una sfida che sembrava a punti.

Osservavo la scena disinteressatamente, ma era l’unica distrazione oltre ai pochi gabbiani che ogni tanto sorvolavano tutto l’arenile parallelamente alla battigia a quota molto bassa.

Il padre la sapeva lunga sulle bocciate fatte con la mano serrata a conca rovescia tenendo diligentemente l’altro braccio dietro la schiena, perché difficilmente sbagliava colpo, e il figlio, suppongo, cercava di imitarlo non senza i frequenti errori del principiante.
Una partita di qua e una di là, a seconda di dove veniva lanciato il boccino, la cui traiettoria era casuale per cui si ritrovava posizionato sulla sabbia ora qua e ora là senza nessuna regola.

Tenetevi in mente per bene questo momento, perché da qui in poi accadrà qualcosa che darà un senso totalmente diverso a una bella e tranquilla giornata al mare come quella.

La madre stesa al sole a pancia in giù doveva essersi addormenta perché era un bel po’ che non si muoveva. L’avevo detto che la temperatura non era troppo alta e addormentarsi al sole riusciva facile.
Il boccino era finito vicino a lei e i due continuavano a giocare alle bocce con sempre più entusiasmo, pareva.

Il giovane si concentrava per la bocciata decisiva sotto lo sguardo partecipe del padre. La sfera d’acciaio era partita e la mano che l’accoglieva era aperta con le dita stese nella stessa aria che la boccia fendeva descrivendo nel cielo limpido un arco perfetto. All’altro estremo dell’arco, quello opposto alla mano, però, non si trovava il boccino ma l’osso occipitale della testa di quella donna che dormiva.

Il rumore ricordava quello che fanno i polpi quando si sbattono sul cemento dei moli per ucciderli ammorbidendone la carne, tanto per rimanere in un’ambientazione marina.
Sia il padre che il ragazzino si erano già precipitati verso il punto dove la pesante boccia era appena atterrata, ovvero il cervelletto della madre e moglie che neppure si era mossa da ormai molte decine di minuti.

Sia Elisabetta che io avevamo immediatamente capito la gravità della situazione e ci eravamo avvicinati rapidamente al luogo dove quella poveraccia giaceva inerte.

Il sangue scuro che sgorgava dalla testa si riversava abbondante sulla sabbia impastandosi sotto l’andirivieni dei piedi di noi tutti che ci agitavamo per portare aiuto usando gli asciugamani che però si imbevevano di sangue denso in pochi secondi.

Non c’era tempo da perdere, si doveva assolutamente portare quella donna in ospedale e si doveva farlo con l’aiuto di una barella per poterla sollevare senza provocarle ulteriori danni gravi.

Mi sembrava che io fossi la persona più adatta per precipitarmi a cercare soccorso. Saltato sul pullmino faticai non poco a fare inversione perché la strada era molto stretta e dovevo andare in direzione del paese dove avevo visto un bar poco distante. Raggiunto il bar in una nuvola di polvere, perché la stradina era sterrata, mi accorsi subito che era chiuso, quindi proseguii accelerando fino a una casa dove una signora stava armeggiando nel giardino e a cui mi rivolsi  cercando di spiegare i fatti senza perdere troppo tempo.

La signora era anziana e diffidente e spiegarmi velocemente, cercando di essere credibile, non mi risultava tanto facile. Tanto più che dovevo entrare in casa sua e fare una telefonata che mi pensavo già al 113 perché non mi venivano in mente altri numeri.

Dall’altro capo della linea telefonica mi assicurarono che avrebbero mandato un’ambulanza nel giro di pochi minuti non senza avergli dovuto descrivere con esattezza dove ci trovavamo. Infatti dopo poco l’ambulanza arrivò e con lei per fortuna un medico che constatò immediatamente lo stato assai grave in cui versava la poveretta.

Ci mettemmo a disposizione del padre nel caso avesse avuto bisogno di aiuto ma assieme al figlio non fece altro che precipitarsi al seguito della moglie mentre l’ambulanza la portava verso il più vicino ospedale.

Sulla spiaggia deserta e silenziosa restammo noi due, indecisi sul da farsi. Se continuare a goderci la bella giornata o fare dell’altro. Sì, ma cosa? Sulla sabbia rimanevano gli asciugamani inzuppati di sangue mentre il sole e la permeabilità della sabbia assorbivano il liquido ancora fresco. Cosa fare con gli asciugamani? Lasciarli lì sarebbe stato di cattivo gusto tanto come il raccoglierli. Li raccolsi e li infilai in un sacchetto che avevamo in macchina annodandone le maniglie. Il sangue gocciolava sulla moquette del pullmino uscendo da dei fori sul fondo del sacchetto. Forse era meglio andarcene.

Non sapevamo nulla di quelle persone, né il nome, né dove le avessero portate e neppure cosa avremmo potuto fare per loro se le avessimo trovate.
Ci decidemmo per spostarci verso Olbia dove avevamo degli amici da passare a salutare.

La mattina seguente mi ero alzato presto ed ero sceso a fare colazione al bar per non svegliare gli altri e buttando l’occhio su La Nuova Sardegna mentre bevevo un caffè, in prima pagina c’era scritto della morte di una turista colpita alla testa da una boccia lanciata dal figlio mentre giocava sulla spiaggia.

Ora torniamo indietro tra le parole di questa tristissima storia fino al momento in cui vi avevo detto di memorizzarlo. Quando quello che accade dà un senso tragico alla monotona giornata balneare che stava scorrendo senza che nulla di particolare accadesse.

Fin lì il racconto era reale. Quello che descrivevo mi è successo davvero. L’ho visto con i miei occhi, ma non era per nulla interessante da leggere anche se a me faceva piacere vivere quei momenti. L’acqua, la sabbia, il cielo e il silenzio… chi se ne frega!

In realtà su quella spiaggia restammo tutto il giorno Elisabetta ed io senza che nessun altro arrivasse. La famigliola dei bocciofili non arrivò mai. Tutta la vicenda della partita a bocce e della testa rotta me la sono inventata di sana pianta.

Ecco, la realtà in cui mi trovavo e che volevo descrivere sarebbe stata noiosa e dalla lettura improponibile, a meno che non avessi improvvisato, sapendolo fare, una poesia in cui ci fossero stati dentro gli elementi che mi circondavano più qualche sensazione mia interiore che la rendessero tale. Una poesia appunto.

Ma un narratore non è sempre un poeta e per tenere viva l’attenzione del lettore deve inventarsi sempre qualcosa che ottenga quest’effetto, altrimenti nessuno lo leggerà.

Si inventa una storia allora, come ho fatto io banalmente poco fa, e la condisce di particolari che la rendano vera il più possibile anche quando è totalmente inventata. Nasce così un romanzo, dove certamente occorre inserire molti più elementi e intrighi affinché sia davvero tale, altrimenti è solo una storiella banale come la mia che ho voluto inventare allo scopo di fare solamente un esempio.

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  1. says: Roberta

    E però la poesia mi sarebbe piaciuta! Il mare cristallino le onde e le microonde mi avevano preso mentre la storia drammatica ha cancellato in un batter d’occhio la bellezza del luogo. Che dire un esercizio interessante la narrazione iniziata in un modo si è spostata totalmente su un altro piano. Resta che la realtà quella vera a me appassiona di più e non è mai banale.

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