Selvaggio ritorno e domestico abbandono

(Uno sguardo sulla fauna alpina dimenticata)
di Pier Mario Migliore
(pubblicato sul numero di dicembre 2020 de L’escursionista, rivista online dell’UET – Unione Escursionisti Torino, sottosezione del CAI Torino e su camoscibianchi.wordpress.it il 26 luglio 2021)
Foto di Pier Mario Migliore (salvo diversa menzione)

Il lupo è arrivato alle porte di Torino. Le aquile, ieri una rarità, oggi decisamente più visibili.
Il gipeto, dagli iniziali insediamenti sulle Alpi Marittime, è ora presente sulle Cozie e Graie.
Il tipico volteggio in gruppo dei Grifoni, negli anni passati solo prerogativa delle Alpi francesi, è ora visibile anche nelle nostre valli di Susa, Chisone, Lanzo…

Gipeto in volo sulle Valli di Lanzo. Foto: camosci bianchi.

Tra leggenda e realtà si segnala la presenza della lince e del gatto selvatico; quest’ultimo è stato ripreso da trappole fotografiche nei boschi del nostro Appennino ed è stata comprovata l’uccisione di una capra da parte della lince in val Pellice.
Gli stambecchi, sino a “ieri” confinati nell’ultima enclave del Gran Paradiso, sono oramai presenti in tutte le valli dell’arco alpino occidentale. Camosci, cervi, caprioli, seppur più schivi dello stambecco, sono in diversi comparti alpini massicciamente presenti. Il cinghiale, fornitore di aiuto non richiesto, sempre più compie opere di aratura nelle praterie alpine e raccolta di prodotti agricoli nei coltivi di fondo valle e delle zone di pianura limitrofe ai rilievi e alle aree boschive.

Camoscio nella wilderness delle Valli di Lanzo. Foto: camosci bianchi.

L’istituzione di aree protette, la “voglia di natura” e l’aumento della nostra sensibilità verso le problematiche inerenti gli aspetti ambientali, hanno creato situazioni sempre più favorevoli al ritorno dei “selvatici” negli areali meno antropizzati e le stesse Alpi stanno gradualmente rientrando tra questi.
Se rimaniamo sul semplice impatto emotivo, possiamo pensare ad un fenomeno positivo, perché finalmente la natura si riappropria di quanto il genere umano nei secoli le ha sottratto, ma questa superficiale posizione “intellettuale” non ci conduce verso una corretta interpretazione della situazione.

Piccoli di stambecco. Foto: camosci bianchi.

Facciamo un esempio: per un alpigiano l’avanzare del bosco a danno degli spazi aperti rappresenta un degrado perché aumenta le difficoltà del quotidiano; per il turista o per l’abitante in città questo ritorno alla “natura” è da salutare positivamente.
Sostanziale differenza; il turista o il cittadino, dopo la vacanza o al termine della giornata ritorna alla sua “poco ecologica ma funzionale abitazione”, lasciando la competizione con le “bellezze” naturali al “fortunato” abitante del monte.
Durante la stesura dell’articolo (2-3 ottobre 2020) registriamo l’ennesima situazione alluvionale con distruzione e morte nelle nostre vallate; Garessio, Limone, Ossola, Valle d’Aosta, val Roya etc.; scontato epilogo conseguente all’abbandono e alla trascuratezza di sempre più vaste aree fino a “quasi” ieri presidiate da stabili insediamenti abitativi.

Antico ponte in pietra di Olivetta – San Michele, frazione Fanghetto (distrutto dall’alluvione del 2-3 ottobre 2020), pochi metri a valle dell’ingresso del fiume in Italia, nell’entroterra di Ventimiglia (foto da pagina facebook Renato Alberti). Originariamente pubblicata da www.nimbus.it

Il pensare come sinonimi le parole Alpi e ambiente, ci porta ad un accostamento che stride con la storia e nel contempo non ci consente di affrontare razionalmente l’immensa problematica di come si dovrebbe gestire e migliorare questa porzione verticale del nostro paese.
Apriamo una “piccola parentesi” su termini che nella nostra parlata abituale adoperiamo spesso in modo indifferenziato per catalogare il mondo che ci circonda: ambiente, paesaggio, territorio.
Per fare questo riporto testualmente le parole pronunciate da Annibale Salsa qui a Torino, all’Assemblea dei Delegati CAI (26 maggio 2013) per la presentazione del BI-DECALOGO: insieme di regole etico comportamentali riassunte in venti punti; regole che ogni socio CAI dovrebbe rispettare quando frequenta la montagna.

Bisogna parlare di ambiente come ecosistema naturale e di paesaggio come “costruzione sociale”, prodotta dalle relazioni tra uomo e natura. Prioritario diventa il riferimento al territorio, in quanto il territorio è una rappresentazione culturale, altra cosa dal terreno. Il territorio è spazio antropologico, mentre il terreno è spazio geologico. Questi concetti, vere parole chiave, sono fondamentali per una seria riflessione critico-teorica, oltre che pratica e concreta”.

Ambiente, paesaggio e territorio. Foto: camosci bianchi.

Se applichiamo queste definizioni alle Alpi, constatiamo che l’ambiente (come natura crea) è relegato alla fascia cacuminale, dove regnano pietraie e a quanto rimane della calotta glaciale, mentre tutta la parte restante è paesaggio e territorio.
Il bosco, sia esso di conifere o di latifoglie, è stato coltivato dall’uomo sui versanti a nord, per ricavare strumenti di lavoro, di edilizia, di riscaldamento. Le praterie alpine in quota sono il risultato del lavoro certosino di spietramento, di estirpazione degli arbusti e del pascolamento delle mandrie e delle greggi. L’opera di terrazzamento e di canalizzazione idrica, posizionata sui versanti solatii, è frutto della sapiente gestione territoriale di chi, sui declivi, ricavava sostentamento. La capillare rete sentieristica, oggi ossatura portante “dell’andar per monti per diletto”, era vitale per la quotidianità dell’alpigiano; con questi tracciati si collegava al fondo valle, passava di valle in valle, raggiungeva i pascoli, i coltivi, la scuola, la chiesa, il cimitero, in sintesi: viveva.

Foto: camosci bianchi

Abbandoniamo l’idilliaco pensiero che identifica il paesaggio con una “cartolina” dove tutto è bello e arriviamo a quei concetti precedentemente riportati.
Le Alpi non sono natura selvaggia (wilderness), ma per loro collocazione geografica e storica, sin dalle origini dell’umanità sono antropizzate e quindi un immenso paesaggio intriso di cultura.

Terrazzamenti in muretti in pietra a secco invasi dalla boscaglia. Foto: camosci bianchi.

Dopo questa doverosa premessa, torniamo alle “bestie”; non quelle selvatiche, ma quelle domestiche o meglio, quelle che hanno aiutato l’uomo a superare le difficoltà derivanti dalla natura impervia del luogo, contribuendo a trasformare l’ambiente in paesaggio e territorio.
Prima di soffermarci sulla “regina” di questo comparto, facciamo una breve divagazione sull’amico dell’uomo per antonomasia: il cane. Non parliamo dei moderni canidi “umanizzati”, ma di soggetti che con il loro prezioso lavoro sono le gambe e gli occhi dell’allevatore. Con il solo comando espresso con un fischio, questo quadrupede collaboratore è in grado di spostare o radunare la mandria o il gregge.

Gioventù margara con il fedele cane al seguito

Un “flashback” dei primi anni Sessanta mi porta all’epilogo della vita margara dei miei nonni materni. Ricordo gli ultimi due cani da conduzione del nonno: Volor e Bibinu; quest’ultimo un “bonaccione” che mi dava confidenza e che ha accompagnato i nonni anche dopo la dismissione dell’armento, mentre Volor era un soggetto “tutto di un pezzo”. Come la maggioranza dei cani margari era di identità indefinita e in questo caso ricordava quelle razze pastore dal pelo irsuto con gli occhi coperti e lo sguardo severo, che non esprime confidenza ma, in questo caso, il suo nome era “tutto un programma”. Volor, “volante” in italiano, è sicuramente una buona credenziale per un cane conduttore. Piccola divagazione, le “voloire” (le volanti) erano le batterie di artiglieria leggera dell’esercito piemontese (guerre di indipendenza) trainate da pariglie di cavalli che velocemente si spostavano nei punti critici del campo di battaglia.

Foto: camosci bianchi

Per noi fruitori estemporanei dell’alpe, oltre a distinguere un camoscio da uno stambecco, un larice da un pino, un calcare da un granito, dovremmo anche imparare a distinguere la razza dell’armento che può profilarsi al nostro cospetto.
Seppur con minor presenza, è ancor oggi “normale” scorgere durante un’escursione alpina mandrie e greggi, ma se proviamo a prestare attenzione a questi “assembramenti” possiamo da essi desumere importanti notizie inerenti il luogo che percorriamo. L’essere ovini, caprini o bovini, la consistenza numerica, lo stazionare o il muoversi sulla zona prativa, indica la ricchezza del pascolo; l’essere fornitori di latte o carne indica la presenza o meno di alpeggi strutturati; la quota in cui si trovano ci indica il periodo stagionale; la razza di appartenenza è (o almeno lo era) caratterizzante del settore alpino e della sua conseguente entità culturale.

Foto: camosci bianchi

Tutto questo “sapere” che progressivamente va a relegarsi tra i pochi addetti ai lavori o in trattati di zootecnia sepolti negli archivi, dovrebbe essere un motivo di interesse escursionistico, per acquisire maggior consapevolezza del luogo che percorriamo.
Qualche notizia in merito alle greggi sui monti è stata fornita con l’articolo Merinos d’Arles, pubblicato sul numero de L’Escursionista ottobre 2019. Ora parliamo di vacche, uno degli animali più cosmopoliti presenti sulla terra. Vacche e non mucche; il primo è il termine corretto di questo bovide, il secondo presumo sia stato coniato sulla vocalizzazione del suo verso.

Foto: camosci bianchi

Senza trasformare questo scritto in un trattato di zootecnia, sinteticamente riportiamo gli aspetti visivi che vi consentiranno di correlare la razza bovina al pascolo sul monte, con il territorio che state percorrendo.
In questo nostro viaggio tra i colori del mantello, partiamo dall’estremo nord del Piemonte per arrivare alle vallate che si affacciano sul mar Ligure.
Lassù tra l’Ossola e la val Sesia, dove i tetti sono coperti con piode, troviamo la Bruno Alpina, animale di colore marrone chiaro tendente al grigio; razza di riferimento per tutte le Alpi centrali e in base alla sua provenienza (Italia, Svizzera, Austria) può avere taglia e aspetto leggermente diverso, ma inconfondibile rimane il colore del mantello. Questi soggetti sono per noi del Vecchio Piemonte i più “esotici”; personalmente accosto queste Brune ad Heidi, alle Dolomiti, alla cultura alemanna.

Bruno Alpine Ossolane

Nell’area del biellese (tra Sesia e valle d’Aosta) la tipica razza bovina è costituita dalla Pezzata Rossa d’Oropa; questa, come la maggior parte delle razze pezzate rosse presenti sull’arco alpino, trarrebbe la sua lontana origine dalla calata dei Burgundi (V secolo) dal nord Europa. Simile alla pezzata rossa Valdostana, anche se in genere sul mantello prevale il colore rossastro, per alcuni autori ne sarebbe una sua derivazione, mentre per altri sarebbe la progenitrice; comunque, confondere una biellese d’Oropa con una valdostana possiamo ritenerlo un peccato veniale.

Pezzata Rossa d’Oropa

Arrivando nella “Vallée” le razze presenti sono ben identificabili dal loro mantello. La tipica Valdostana è la pezzata rossa che in alcuni casi la pezzatura può essere nera, ma le caratteristiche morfologiche non cambiano. Tipica razza alpina di taglia contenuta, corporatura robusta con arti brevi, testa pronunciata con corna vistose. L’areale di allevamento di questo animale, oltre alla sua vallata d’origine, si estende nelle valli torinesi di cultura franco provenzale, arrivando ai confini con i monti del cuneese.

Valdostane ai piedi del Gigante

Di pezzata rossa valdostana erano anche la maggioranza delle vacche dei miei avi che monticavano tra la val di Viù, la val Susa e la val Sangone. La foto storica qui sotto riportata risale al 1940 e ritrae uno dei fratelli di mia nonna materna e due dei suoi figli accanto ad un esemplare di valdostana con al collo il caratteristico “rudun” (campanaccio).

La Valdostana Castana è un animale dal mantello che varia dal marrone scuro al nero corvino. Facilmente questa razza deriva dagli incroci tra la pezzata nera valdostana e la Herens; quest’ultima rigorosamente nera è originaria del Vallese (Svizzera) e facilmente è arrivata al di qua delle Alpi al seguito delle popolazioni Walser nel 1200. Per il suo temperamento “focoso” è diventata per gli allevatori valdostani punto d’orgoglio da esibire nelle “Batailles de Reines”. Queste sfide tra vacche sono la rappresentazione spettacolarizzata del comportamento esistente in qualsiasi mandria al pascolo, dove il soggetto più forte (la regina), si impone sugli altri componenti dell’armento. Questa “singolar tenzone” è una tradizione alpestre di tutta l’area francorovenzale; scritti e immagini dell’ottocento descrivono queste “battaglie” nelle valli di Lanzo e nell’area del Lemano.

Battaglia delle Reine

Nel prosieguo del nostro viaggio arriviamo agli alpeggi del torinese, un tempo abitati dalle Valdostane, oggi il primato è intaccato e forse superato dalla “straniera” Barà.
Questa razza di colore nero o rosso ha generalmente la dorsale di groppa bianca (per questo denominata Barà), con zone pigmentate più o meno estese sulle varie parti del corpo. A volte questa pigmentazione disposta in modo casuale sostituisce la pezzatura uniforme del colore. Da verifiche sul DNA si è scoperto che questi bovini appartengono alla razza Pustertaler, originaria della val Pusteria. Non ho trovato traccia di come questi animali siano arrivati nelle nostre vallate (forse da commercianti di bestiame), ma certo è che la loro rusticità e la loro buona produzione di latte, li ha fatti apprezzare dai margari al punto che attualmente il numero di capi piemontesi supera di gran lunga la presenza della zona di origine. Questo lavoro ha salvato dalla quasi sicura estinzione la razza, costituendo un “nuovo soggetto” oggi ufficialmente riconosciuto come Barà-Pustertaler.

Barà con classico mantello

Razza dal mantello simile alla Barà e forse anche di origini comuni, è la Vosgienne.
Anche in questo caso non mi è chiaro come sia arrivata nelle nostre vallate, ma una mandria in “purezza” era (almeno fino a qualche anno fa) presente nell’alpeggio della certosa di Monte Benedetto. Animale di origine scandinava è arrivata sui Vosgi (Alsazia) nel 1600 durante la guerra dei trent’anni. Ha il mantello nero e bianco maculato e ha la caratteristica di ben adattarsi a condizioni ambientali difficili.

Ma questa è una Vosgienne!!!

Andiamo avanti e soffermiamoci un attimo sugli erbosi pascoli del Cenisio per incontrare le savoiarde Abondance e Tarentaise. La prima appartiene al variegato gruppo delle pezzate rosse alpine, in questo caso il rosso copre, eccetto la fronte che è bianca, tutto il corpo.

Abondance al Cenisio

La seconda è di piccole dimensioni, ha il “musetto” simpatico e il suo mantello è di un inconfondibile color marrone aranciato. Di questa razza, dai nostri alpigiani chiamata Savoiarda, possiamo trovare qualche soggetto tra gli armenti degli alpeggi valsusini.

Savoiarde al Cenisio

Eccoci ora nell’ultimo lembo alpino nord occidentale: le “Alpi del Sole” (Liguri, Marittime e buona parte delle Cozie). Qui a far da padrona è la razza Piemontese.
Le origini di questo animale si perdono nella notte dei tempi; studi sembrano avvalorare la tesi che questa razza derivi dall’incrocio dell’autoctono uro con zebù, che circa 25.000 anni fa arrivò dal subcontinente indiano. Fino a circa metà del secolo scorso avevamo tipologie di animali che leggermente si differenziavano tra pianura, collina e montagna, mentre oggi lo standard morfologico è uniforme e in modo esclusivo privilegia la produzione della carne. I fassoni o “della coscia” sono l’eccellenza espressa da questi animali.

Dialogo tra Piemontesi

Come razza alpina si differenzia dalle altre per la sua attitudine produttiva rivolta alla carne, mentre tutte le altre sono produttrici di latte. Altro carattere divergente dagli animali precedentemente descritti è l’avere un aspetto più longilineo e slanciato, tutto questo ben si concilia con la sua collocazione geografica: zona alpina con pascoli “meno estremi”. Il colore del mantello è bianco, con vitellini di color fromentino (marrone chiaro) che perderanno crescendo.
Ovviamente non sempre le mandrie che troviamo durante le escursioni sono formate esclusivamente da bovini in “purezza”, spesso l’armento è composto da più razze e nel contempo anche da meticci derivanti da svariati incroci; nonostante queste “varianti sul tema” la correlazione tra razza e territorio rimane e dipenderà dalla nostra capacità di osservazione il collocare in modo corretto i vari tasselli del puzzle.

Foto: camosci bianchi

Altri bovidi, a volte anche “bizzarri”, potrebbero apparire al vostro cospetto; la fantasia e l’intraprendenza degli allevatori a volte stupisce. Sopra il santuario di Castelmagno (val Grana) si possono vedere delle bufale al pascolo e in val Thuras (alta val di Susa) potreste imbattervi in vacche irsute dalle corna pronunciate appartenenti alla razza Highlander (Scozia), a queste ultime non date confidenza: sono leggermente scontrose.

Bufala negli alpeggi di Castelmagno

A tu per tu con la scozzese Highlander

Prima di terminare ancora due rimandi zooculturali: i boonimi e i campanacci.
Boonimi (nomi propri dei bovini): facilmente ai più questo termine è sconosciuto, ma vi assicuro che dietro a questa parola si apre un mondo che affonda le radici nell’ancestrale simbiosi tra l’allevatore e l’allevato. Nei moderni allevamenti bovini, i soggetti sono identificati con codici alfa numerici stampigliati su targhette auricolari, ma ieri e ancor oggi nelle mandrie transumanti, il margaro riconosce per nome i suoi animali: Steila, Bandiera, Biunda, Gentila, Savoia, Giaia, Merica e avanti quasi all’infinito.
Scientificamente poco o nulla sappiamo sulla reazione delle bovine e dei cani pastore ai comandi nominali impartiti dal padrone ma l’esperienza sul campo dice che “la cosa funziona”.
Qualsiasi sia la razza, qualsiasi sia l’area culturale di appartenenza, la salita e la discesa dall’alpeggio viene sempre scandita dal suono della “rudunà”.

Vistoso rudun al collo di una Barà

I campanacci (rudun) della transumanza sono l’orgoglio del margaro che distingue nel frastuono la singola campana e l’animale che la porta. Per assaporare pienamente questo suono, bisogna però aspettare che l’armento abbia terminato la baldanza “dell’appena partiti” e che la consapevolezza del cammino sia stata metabolizzata, solo allora il passo della mandria sarà un tutt’uno con il ritmo dei battacchi, formando una singolare melodia. Anche se la vita d’alpeggio è un ricordo orale di famiglia, il suono della “rudunà” suscita in me una profonda suggestione.

Inarpa (monticazione) nelle Valli di Lanzo (fine maggio 2016). Foto: camosci bianchi.

Uscendo di casa prima dell’alba per raggiungere la meta alpina, alziamo gli occhi al cielo e guardiamo verso est, potremo notare una stella molto luminosa; non è una stella, ma è il pianeta Venere, che la saggezza popolare della nostra terra chiama “steila boera” (stella dei bovari).
Compagna di chi ogni mattina “di buon’ ora” si sveglia per accudire agli animali o nei tempi passati con i buoi si avviava al lavoro nei campi; anche se andiamo a divertirci soffermiamoci un attimo su questo pensiero e come d’incanto l’idilliaca arcadia diventerà terrena realtà.

Pier Mario Migliore è Accompagnatore Nazionale di Escursionismo (ANE) del Club Alpino Italiano

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1 Comments

  1. says: Giovanni+battista+Raffo

    Questo ritorno dei predatori che sono sempre stati autoctoni nelle zone alpine e appenniniche ,costituisce un patrimonio naturalistico di estrema importaza che deve essere conservato e protetto con tutti i mezzi necessari , tenendo in considerazione ,tra l’altro, le ormai precarie e drastiche condizioni ambentali.
    Per quanto riguarda la protezione degli allevatori di bestiame il problema è abbordabile con i sistemi proposti dagli esperti, purchè si voglia.

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