Stefania Belmondo: “Da piccola arrivavo sempre ultima”

La campionessa piemontese si racconta: «Il doping? Si sceglie di farne a meno. La natura mi ha aiutato, prima delle gare ad Albertville avevo 28 pulsazioni al minuto».

Stefania Belmondo: “Da piccola arrivavo sempre ultima”
di Paolo Griseri
(pubblicato su lastampa.it/cuneo il 14 luglio 2024)

Che cosa le invidiavi? «La forza. Una forza mentale prima ancora che fisica. La spinta che viene da una vita combattuta fin da bambina a Magadan, città mineraria della Siberia, 8 ore di volo da Mosca più 200 chilometri di strada: il profondo Est. Lei aveva una forza straordinaria. Mi chiedevo: ma come fa? E soprattutto: come posso farlo anch’io?».

Stefania Belmondo. Foto: EPA

Bar Vela, periferia di Cuneo, a pochi passi dalla caserma dei carabinieri forestali dove Stefania lavora: «Esco alle due. Vediamoci lì». Anche i campioni olimpici fanno i turni negli uffici: «Non tutti gareggiano in sport redditizi. Nelle prime competizioni che ho vinto io, l’unico guadagno era portarsi a casa la coppa. Poi le cose sono cambiate. Ma non si diventava ricchi con lo sci di fondo». Uno sport povero? «Beh, oggi non è più così, non mi posso lamentare. Ma quando ho cominciato io, da bambina, era così. A me piaceva da matti lo sci da discesa perché ti buttavi giù a testa bassa, avevi l’adrenalina della velocità». Ma? «Ma costava troppo. Papà era un tecnico dell’Enel, si occupava del funzionamento delle paratie delle dighe nella valle di Demonte. Mi costruì un paio di sci di legno, rossi. Bellissimi, li custodisco ancora adesso. Con quelli ho imparato a sciare nei boschi, con quelli ho fatto le prime gare». E lì hai cominciato a vincere: «No. Arrivavo ultima. Avevo sei anni. Le altre erano più grandi. Mi dicevano “Pista, spostati” e io mi spostavo».

Valle di frontiera, la valle Stura. Si arriva fino in cima, al col de Larche, e si scavalla in Francia. Con la neve il passo si chiude. Non è una valle di passaggio. Un posto chiuso, con pochi contatti con il mondo: «Ma a me piace così. Qui ho i miei genitori, qui ho cresciuto i miei figli».

La vita di Heidi. Mai avuto l’occasione di andare via? «Certo. A fine carriera la federazione mi ha proposto di diventare allenatrice. Ma avrei dovuto andare sulle altre Alpi, in Trentino. Ho scelto di rimanere qui con i miei figli». Questo è il posto delle tue radici, della tua vita: «Da bambina aiutavo i miei a fare i lavori di campagna: girare il fieno perché si asciughi, curare il pollaio, raccogliere le foglie. L’ho sempre fatto, anche quando andavo a scuola». Anche quando facevi le gare? «Lì il problema non erano i lavori di casa. Era, al liceo, conciliare studio e gare. C’erano insegnanti comprensivi che ne tenevano conto. Altri meno. Una professoressa aveva preso l’abitudine di interrogarmi tutti i lunedì mattina quando io gareggiavo la domenica. Lei diceva “Tanto ieri sei andata a sciare, ti sei rilassata”. Impossibile spiegarle che una gara non è una passeggiata rilassante». Si è pentita in seguito? «L’ho incontrata dopo, quando ho cominciato a vincere le medaglie. Mi faceva le feste: “Ciao Stefania, ma come sei brava”. Io devo confessare che ancora oggi non l’ho completamente perdonata».

Dieci medaglie olimpiche, di cui due d’oro. Tredici medaglie ai mondiali di cui 4 d’oro. Nessuna atleta italiana ha vinto tanto: «Per questo sono stata io ad accendere la fiamma olimpica di Torino 2006. Un’esperienza incredibile». Che cosa ti preoccupava? «Una piccola angoscia buffa: avevo paura di inciampare in mondovisione. Ero l’ultima tedofora. Ho preso la fiaccola. Dovevo salire i gradini fino al braciere. Ero orgogliosa e concentratissima per non sbagliare».

Quella di diciotto anni fa allo stadio Olimpico di Torino è stata l’ultima emozione da atleta. Quindici anni di gare, dall’87 al 2002, sulle nevi di tutto il mondo: «Li ho passati a faticare in mezzo a paesaggi incantevoli con un unico obiettivo: il podio, l’inno nazionale italiano, la medaglia. Questa era l’emozione che sognavo di provare mentre spingevo nelle decine di chilometri spesi a sudare in mezzo alla neve».

Ore e ore a inseguire le avversarie, a batterle, a subire i sorpassi. Ma tra le tante c’è una volta, quella volta, che rimane impressa in modo indelebile. Stefania, racconta come hai battuto Moby Dick: «Non ci ho creduto fino all’ultimo. Eravamo in gara a Silver Star, in Canada, nelle foreste della zona di Calgary. Una 15 chilometri di Coppa del Mondo. Ci siamo presto staccate dal gruppo. È diventata una gara tra noi due. In questi casi è una partita a chi resiste di più, a chi sa dosare meglio le forze.
A pensarci bene è soprattutto una gara con te stessa: qual è davvero il tuo limite? Probabilmente in quei momenti io e Elena ci ponevamo le stesse domande. Sorpassi e controsorpassi. Chilometri e chilometri cosi, quasi senza fiato». Poi è successo qualcosa: «Quasi inaspettato, forse inspiegabile. A due chilometri dall’arrivo mi sono detta: “Forza Stefania, proviamo”. Poteva essere una pazzia, uno scatto in avanti così lontano dal traguardo. Uno sforzo rischioso. Io non sapevo qual era il mio limite. Ho provato. Mi sono buttata. Sono scattata in avanti senza voltarmi. Ho percorso un centinaio di metri e ho visto che lei non mi seguiva. O non ce la faceva o considerava il mio comportamento troppo rischioso. È così che l’ho battuta dopo anni che vinceva sempre lei, dopo tutte le volte che aveva occupato il mio orizzonte. All’arrivo ci siamo abbracciate e hanno finalmente suonato l’inno di Mameli».

Sono questi i momenti più belli della vita di un’atleta, quelli in cui tutto si realizza. Le storie pulite in uno sport che, come altri, ha vissuto anche periodi difficili. Il doping è stata una malattia grave. Come si fa a rimanere indenni? «Si fa. Si sceglie di farlo. Poi capita che una medaglia ti arrivi per posta, con il corriere che si presenta alla porta di casa tua. Perché le altre, quelle che erano salite sul podio davanti a te e avevano sentito suonare il loro inno nazionale, erano state squalificate. E tu, al posto dell’inno, ti devi accontentare del suono del campanello».

Che cosa resta, oggi, di tutto ciò? Ti mancano le gare, la possibilità di girare il mondo, l’incontro con persone diverse? «Certo, manca tutto questo. Manca soprattutto l’adrenalina, quella che ti spinge a vincere».

È difficile trovarla, quell’adrenalina, tra i certificati dell’ufficio del personale dei carabinieri forestali di Cuneo, dove Stefania lavora da anni. «Ma io continuo a camminare al mattino presto, a macinare chilometri in bicicletta, meglio se in salita. Senza fatica fisica la mia giornata, ancora oggi, non ha senso».

Ancora spinta ad essere competitiva? «Quando sono in bicicletta e mi supera una donna mi scatta anche adesso l’istinto di inseguirla e superarla. Sono fatta così». Hai anche un fisico che te lo consente: «Questo è sempre stato vero. Questione di Dna, sono bradicardica. Alle Olimpiadi di Albertville, nel 1992, la mattina della gara avevo 28 pulsazioni al minuto».

Albertville, la prima medaglia d’oro olimpica. Che cosa ricordi di quel giorno? «Un particolare che mi faceva sorridere. Lo speaker mi chiamava “Belmondò” e tutti pensavano all’attore». Sei parente? «No, naturalmente. Anche se gli antenati di Jean Paul Belmondo sono di Castello, una frazione vicino a casa mia».

Hai mai più gareggiato in manifestazioni pubbliche? «Ho sempre detto di no. Mi conosco: se indosso un pettorale poi devo vincere, anche se è una manifestazione benefica». Quindi lo sport preferisci guardarlo: «Mi fanno impazzire la Motogp, i rally». E il mondo del fondo? «Quello ho continuato a frequentarlo per un po’ di anni, quando commentavo le gare per la Rai». Il tuo sogno oggi? «Spero di poter tornare a commentare le Olimpiadi invernali del 2026. Ma non so se mi prenderanno. Vedremo».

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4 Comments

  1. says: Andrea Parmeggiani

    Gran donna, e dalle sue dichiarazioni si capisce che è onesta e spontanea.

    Una cosa non mi è chiara: perchè l’articolo non cita mai la rivale che è stata battuta? Forse perchè è russa?

  2. says: Carlo Crovella

    Evidente esempio di quanto siano “goregni” i piemontesi. Guregn (termine dialettale piemontese) = tignoso, si piega ma non si spezza, è sempre lì per quanto gli altri cerchino di abbatterlo e quindi alla fine ha la meglio sulle difficoltà di ogni tipo. Un esempio di cosa significhi essere guregn è il legno di acacia (che noi piemontesi chiamiamo gaggìa, con la le “c” lette come se ci fossero delle “s”). Avete mai provato a spaccarlo? Ammesso di riuscirci, la sua natura rende dura la tenzone: è fibroso, si contorce, non si arrende facilmente. E’ guregn, appunto.

  3. says: Marco Brignoli

    Lei, la rivale Elena citata in un punto dell’intervista, è Elena Välbe, fortissima fondista Sovietica e poi Russa.

    Ha un palmares di tutto rispetto: sette medaglie olimpiche (tre ori e quattro bronzi) e diciassette medaglie ai mondiali (di cui quattordici d’oro). Ha anche vinto cinque volte la classifica generale di Coppa del Mondo di fondo.

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