Una tavola per trasgredire

Il fenomeno snowboard deve far riflettere. E’ interessante leggere lo scritto del mitico Bernard Amy, ma a tale scritto occorre aggiungere una ventina di anni di successiva evoluzione-involuzione. Nato, come molte esigenze di libertà, con le stimmate della ribellione alle precedenti regole (quelle dello sci rigido e stretto: piegamento e distensione, stem e scaletta…), il surf da neve dopo tutti questi decenni sembra un po’ imborghesito in cliché che non sanno rinnovarsi ulteriormente. E’ innegabile la sua originaria ventata di leggerezza e libertà: gli sci “moderni”, quelli sciancrati per intenderci, sono stati la risposta del mercato sciistico nel vedere gli snowboarder “tirare” le curve al limite, piegati come motociclisti da GP mondiale. Se oggi è più facile sciare, sia per i neofiti che per gli esperti (i quali possono più agevolmente sbizzarrirsi sul ripido), lo si deve all’influsso del surf sulla filosofia e sulla tecnica di costruzione degli sci attuali. Forse seguendo le indicazioni di Amy, il fenomeno snowboard è dilagato anche nel campo dello scialpinismo, creando lo snowboard-alpinismo (siglato SBA). Rapida fu l’espansione, altrettanto repentina la successiva riduzione di adepti, che, senza arrivare all’estinzione, sono oggi di molto inferiori agli anni d’oro (lontani non più di 10-15 stagioni fa). Lo conferma anche la decisione (tra l’altro non recentissima) della Commissione CAI di annullare il relativo titolo da istruttore (ISBA), ricomprendendo fra gli istruttori di scialpinismo quelli che, nel frattempo, avevano superato i pochi corsi realizzati. Resiste bene, invece, lo snowboard da pista, con un taglio più democratico rispetto al corrispondente sci, perché (per i giovani, però) con il surf è più facile raggiungere un livello di autosufficienza in discesa e di relativo divertimento.

Circa 15-20 anni fa ho provato lo snowboard, sia in pista che fuori: quattro-cinque tentativi e ho subito capito che non fa per me. Mi piace troppo l’autonomia delle gambe, garantita dagli sci indipendenti: la considero la vera essenza della discesa sulla neve. Forse si tratta di abitudine personale troppo consolidata, dopo decenni ininterrotti con gli sci ai piedi? Può darsi, ma non me l’ha ordinato il medico di usare necessariamente lo snow. Riconosco però il pieno diritto di farlo a chi si diverte con tale attrezzo. Tuttavia, per dirla alla torinese, “esageruma nen”: osservando il fenomeno dall’esterno vien da dire che non è tutta ‘sta figaggine, specie se usato solo in pista o per fare gite scialpinistiche (in salita ciaspole ai piedi e soprattutto tavola sulle spalle, in discesa i tratti di falsopiano diventano un terribile “chiodo da succhiare”, e chissà quanti altri risvolti poco digeribili). Il cosiddetto splitboard (tavola che si apre in lunghezza e permette di salire con le pelli, come se si avessero due sci) mi sa un po’ di una minestrina di consolazione. Però: de gustibus…, ci mancherebbe. Ma mi sa che fare gite con la tavola (o integra o apribile) è roba da pochi impallinati, non sarà mai un bacino ampio e sconfinato, per cui temo che lo SBA sia destinato a rimanere confinato entro numeri piccolissimi (dal mio punto di vista non mi dispiace, ma qui traccio un’analisi oggettiva). A mio parere lo snowboard resta un attrezzo principalmente per il freeride, ovvero quello che, nella vecchia terminologia, si chiamava il fuoripista con uso degli impianti in salita. Mille discese al giorno, tirando le curve al limite. Se c’è powder, non è arduo comprendere la libidine degli snowboarder, piegati a tirare i curvoni come Valentino Rossi: peccato che andiamo verso tempi sempre meno nevosi e con neve sempre più dura e ventata, cioè non farinosa. E, in ogni caso, dove c’è farina, gode anche chi calza i cari vecchi “assi” (Carlo Crovella).

Una tavola per trasgredire
di Bernard Amy
Traduzione dal francese di Anna Balliano
(pubblicato su Rivista della MontagnaDimensione Sci n. 219, dicembre 1998)

La primavera passata ha nevicato molto tardi. Una domenica, dopo una notte di cattivo tempo, le nuvole si sono dissolte e, di fronte alla nostra casa, è comparsa la catena di Belledonne, bianca di neve polverosa. Così, Anaïs e io abbiamo deciso di andare a sciare. Dal momento che era già tardi, ci siamo recati nel posto più vicino, agli impianti di Prapoutel. Questa piccola stazione comprende percorsi fuori pista molto belli, praticabili in mezza giornata, che ero certo sarebbero piaciuti ad Anaïs. E poi avevo voglia di vedere il nuovo “stadio della neve” di cui mi avevano parlato tanto gli amanti del surf.

L’abbiamo trovato al margine di un breve impianto di risalita, che risale un piccolo pendio regolare e poco inclinato. L’anno precedente questo pendio era percorso da una pista facile, sui fianchi della quale vasti spazi non battuti permettevano un fuoripista che, dopo una nevicata, poteva essere molto bello.

Quest’anno, tutto il pendio era stato battuto, e ai lati dello ski-lift era stata preparata una serie di gobbe e trampolini che convergevano verso un breve halfpipe. A monte di ogni gobba, giovani surfisti erano fermi sulla neve, surf ai piedi, sguardo perduto nel vuoto oltre l’ostacolo. Quasi tutti indossavano la stessa divisa: vecchi pantaloni larghi e troppo lunghi, camicie stinte lunghe fino alle ginocchia, berretto girato al contrario. Cosa stavano aspettando, come inchiodati, in quella posa tipica imposta dal surf quando ci si ferma seduti nella neve? Io avevo creduto di trovare, lungo lo stadio della neve, un ingorgo di sciatori. E ora non vedevo che questo piccolo popolo immobile, immerso in un’attesa strana, e dal quale non proveniva alcun suono, né una voce, un richiamo, un grido. Lo stadio era senza sonoro e, dopo le folle rumorose che avevamo attraversato nei pressi della stazione sciistica, questo silenzio era una cosa sorprendente.

In questa muta immobilità, di tanto in tanto un surfer si metteva in piedi, distendeva le braccia, si bloccava un attimo come l’atleta che si concentra prima di lanciarsi, poi si gettava nel pendio, incontro allo sci più paradossale che esista, quello le cui figure si disegnano non sulla neve, ma nel vuoto tra cielo e pendio.

A vederli, immobili e silenziosi, ebbi l’impressione di assistere a una sorta di rituale, di gioco più sociale che sportivo; un gioco le cui regole mi restavano sconosciute, ma che doveva sicuramente presentare difficoltà e grandezze, momenti di delusione come felicità folgoranti.

In ogni caso, questo spettacolo mi stupiva. Amici mi avevano parlato con entusiasmo del surf da neve, della nuova disciplina, del riding e delle discese folli sul terreno libero. Erano dunque quelli, i famosi rider? O non eravamo noi che avremmo dovuto arrivare in un altro giorno, a un’altra ora? Abbiamo proseguito, per raggiungere l’impianto di risalita più alto della stazione. Questo offre l’accesso a un vallone che, per lo sci fuoripista in neve polverosa, quel giorno sarebbe stato sicuramente nelle condizioni migliori. Nel tragitto, volli mostrare ad Anaïs il grande couloir che conduce alla Cime de la Jasse, poco sopra le piste. Noelle e io l’avevamo salita varie volte in sci e, da sotto la cima, a piedi. Dalla sua vetta, seguivamo quindi le creste che dominavano diversi couloir dalla pendenza vertiginosa. Le creste conducono a un colle dal quale potevamo raggiungere, con una breve arrampicata in discesa – portavo sempre un pezzo di corda con me – un ampio circo che, nonostante fosse nei pressi della stazione, era incredibilmente selvaggio.

Mostrando ad Anaïs il couloir d’accesso alla Cime de la Jasse, mi resi conto che era segnato, dal basso verso l’alto, da una traccia profonda, visibilmente prodotta dal passaggio di sciatori in risalita a piedi. Guardai il colle, la cresta che scendevamo in arrampicata, i valloni che dominavano il circo del fuoripista: tutto era coperto di tracce, in tutte le direzioni, come i bordi delle piste nei giorni di neve farinosa. E poi vidi, sotto le creste, i couloir che non avevo mai guardato veramente, perché non credevo che fossero sciabili. Di fronte, sembravano ancora più vertiginosi che visti dalle creste. E ognuno era segnato da diverse tracce, che mi parevano una più folle dell’altra. Alcune erano state fatte da sciatori. Ma la maggior parte era di surfisti. Tutti erano risaliti a piedi per il grande couloir e si erano appropriati di questa zona che noi non avevamo mai pensato di poter utilizzare, e che per di più mi era sempre sembrata particolarmente pericolosa a causa delle valanghe.

Nuovi terreni di gioco
Avevo finalmente davanti a me uno dei tanti terreni di riding di cui mi avevano tanto parlato. Ma le tracce che vedevo erano quelle di sciatori apparentemente prodigiosi, e abbastanza sicuri di sé da non lasciarsi impressionare da simili itinerari. Poteva esserci un rapporto tra costoro e quelli che avevo visto seduti allo stadio della neve? Bisognava pure ammettere che tra loro alcuni non passassero le giornate ad aspettare l’ispirazione per gobbe, salti e giravolte. Ogni mattina di neve nuova essi andavano lassù a perfezionare un nuovo gioco, a paragone del quale il nostro vecchio sci fuoripista pareva ben poca cosa.

Cento volte noi avevamo passato le barriere e le funi ai bordi della pista per avventurarci nella neve vergine, lontani dagli spazi “sicuri”. Alcuni tra noi avevano spinto il livello tecnico di alcune discese fuoripista a limiti straordinari. Ma, sempre, queste cose erano state vissute come avventure quasi eccezionali, che non si potevano intraprendere che in condizioni anch’esse eccezionali. E oggi queste innumerevoli tracce mi mostravano uno sci fuoripista diventato, almeno in apparenza, una cosa ordinaria, in un’ordinaria giornata passata sulla neve.

Il seguito della nostra visita a Prapoutel mi permise di vedere che i rider avevano preso possesso di tutti i pendii e di tutti i couloir nei pressi della stazione. Ne sono rimasto ancora più stupito in quanto mi era stato detto che le stazioni sportive regolano sempre di più lo sci fuoripista. Le barriere e i cartelli di avvertimento o divieto erano sempre più numerosi. E tutto spingeva gli sciatori verso piste sempre più attrezzate per essere facili e prive di pericolo. Come poteva essere che i responsabili della stazione permettessero… Ma in fondo, come potevano impedire a questa folla di inventarsi i suoi territori nuovi? Non si trovavano forse di fronte a un fenomeno contro il quale non potevano fare niente? Avevano ragione, sicuramente, a dire che il fuoripista è uno sport pericoloso. E certe tracce che avevo visto portavano a domandarsi se i rider avessero coscienza dei pericoli che correvano sui pendii più ripidi.

Mi son detto che le proibizioni non sarebbero servite a niente. Erano tutti molto giovani, il riding era il loro nuovo gioco, e sono stato contento di intuire che, ancora una volta, la montagna era il rifugio di una libertà nuova. Mi pareva, allo stesso tempo, che quello che avevo visto fosse più complesso di quanto sembrava. La libertà non spiegava tutto. Non l’ho capito che più tardi, immergendomi, in un giorno d’estate, in un libretto sulla psicologia di Françoise Dolto, L’enfant e la fête.

Françoise Dolto vi parla a lungo dell’importanza dei giochi e della festa per il bambino. Ritorna su un’idea che le era cara, quella del bisogno di autonomia del bambino: «Vuole trovare da solo i suoi amici, i suoi punti d’incontro, il gruppo che possa iniziarlo al potere creativo del gioco». E insiste sul fatto che «non sta all’adulto di creare i luoghi di ritrovo [… ] Se si costringono i bambini in un luogo, con sbarramenti costruiti dagli adulti, si può essere sicuri che loro andranno altrove [… ] Non amano che i loro luoghi siano sempre nello stesso posto». Quelli tra loro che hanno più immaginazione se ne vanno. «Quello che provoca queste migrazioni di bambini è il bisogno di creare». La parola “migrazione” mi ha ricordato la mia giornata a Prapoutel, la mia scoperta delle nuove pratiche di sci e le mie domande a proposito di questi ragazzi che si inventano un gioco e un territorio di gioco che siano adatti a loro. I responsabili della stazione sportiva avevano tentato di costruire un terreno apposito – lo stadio della neve – e di costringerlo in regole e divieti che definiscono per gli adulti un “domaine skiable“. Gli adulti avevano organizzato la stazione come se il surf non fosse altro che un nuovo sport, e quindi una pratica che aveva bisogno di regolamenti. Non avevano capito che, per tutti i suoi adepti, il surf era prima di tutto un gioco, e, in quanto gioco, un mezzo di esprimere creatività. Mentre gli si disegnava uno spazio apposito, i surfer davano alla loro pratica un nuovo nome, che eliminava i confini – riding – e intraprendevano la loro “migrazione creativa” verso territori vergini.

Il bisogno di trasgredire
Il bisogno di creare non spiegava però tutto. I giovani che avevo visto alla partenza delle piste dello stadio non mi avevano dato l’impressione di essere tutti creatori in potenza, artisti distruttori dei limiti imposti. Sono coloro che Françoise Dolto chiama «les inventifs», quelli che vanno altrove. Gli altri li seguono. Ma perché li seguono? Per curiosità? Perché sono sottomessi alla forza di aggregazione del clan? Anche qui ci doveva essere da capire qualcosa in più.

Questo qualcosa in più, l’ho trovato per caso leggendo un altro libro, quello di Roberto Cotroneo tradotto in Francia con il titolo Lettre à mon fils sur l’amour des livres. L’autore vi parla lungamente del romanzo più celebre di Jerome David Salinger, The catcher in the rye, e, indirizzandosi al figlio, gli scrive: «L’eroe del libro, Holden Caulfield, è un ragazzo pieno d’ironia, in cerca di generosità, che si trova perduto […] in un mondo insopportabile, dove domina una mediocrità che viene venduta per grandezza, una retorica abile a dissimulare le bassezze di ogni genere […]. È la storia di un’iniziazione, di un passaggio all’età adulta e dunque di una trasgressione, e delle ragioni per cui noi dobbiamo a volte comportarci trasgressivamente».

Trasgressione: questa parola costituiva la seconda chiave della spiegazione che cercavo. Quasi tutti i rider che avevo visto erano molto giovani. E le regole erano fatte dagli adulti, quegli stessi adulti che impongono le loro regole nella vita delle famiglie, delle città. Perché si sarebbe dovuto obbedire ancora, in questi luoghi di montagna dove gli adulti non osavano andare?

Mi sono ricordato che Françoise Dolto parla anch’essa di trasgressione: «La festa è trasgressione gioiosa delle abitudini del quotidiano. Il quotidiano, il conosciuto, il ripetitivo, non contiene sorprese. È la sicurezza, ma annoia. È perciò che i bambini inventano, a volte, giochi pericolosi».

In ogni società, in ogni gruppo, clan o famiglia, la prima trasgressione non è forse quella che porta a seguire altri sentieri, al posto di quelli tracciati dal gruppo, quella che porta a uscire dal territorio sociale? La prima delle trasgressioni non è proprio quella che porta alla migrazione?

Mi è tornato in mente un numero del Corriere dell’Unesco, dedicato alle popolazioni nomadi, che mostrava come tutti coloro che da noi vengono chiamati “gente del viaggio” sono percepiti al tempo stesso come simboli di una delle più belle libertà, quella di andare dove meglio si crede, e come trasgressori che escono dai sentieri battuti. Ammirati finché sono nel deserto, e quindi altrove, sono rifiutati quando le loro migrazioni li conducono sui territori dei clan stabili e sedentari, per i quali questo comportamento è il germe di ogni altra trasgressione, morale e sociale. Certo, ci vuole coraggio per avventurarsi fuori dal territorio del gruppo. Ma ci vuole anche un poco di disprezzo per le regole sociali stabilite dal gruppo stesso.

I nuovi sport della neve costituiscono dunque una forma di nomadismo? Sono forse nuove “migrazioni trasgressive” inventate dalla nostra società? Ridurre il fenomeno a queste definizioni significa dimenticare un dettaglio che avevo notato durante la nostra giornata a Prapoutel, ma al quale non avevo dato importanza.

Tutti i couloir, tutti i pendii segnati dalle tracce dei rider del giorno dominavano le piste della stazione. Quando Anaïs e io ci spostammo sull’altro versante delle creste della Jasse, quando entrammo nella zona dove gli impianti di risalita e le piste erano invisibili, le tracce del riding si fecero più rare, quindi scomparvero. Pareva proprio che coloro che scendevano i couloir sapessero dar prova di grande temerarietà, ma preferissero farlo davanti a tutti gli sciatori del luogo. Senza volerlo veramente, non c’è dubbio, sembravano aver definito una linea di confine tra il fuoripista visibile, dove si può dunque essere visti, e il fuoripista nascosto, dove si comincia a lasciare davvero la stazione sciistica.

Ho messo inizialmente questo dettaglio sul conto di un bisogno di riconoscimento sociale. A cosa vale un exploit tecnico, se non si viene ammirati dagli altri, e in particolare da quelli che non lo realizzeranno mai? L’importante è essere visti. L’exploit procura di per se stesso un piacere sicuro. Ma sapere allo stesso tempo di dare spettacolo aggiunge a questo piacere un altro piacere: sollevare su di sé lo sguardo degli altri.

Tra rischio e sicurezza
Allora ho capito che la mia spiegazione era parziale, e che bisognava andare un passo più in là. Il bisogno di dare spettacolo, anche se importante, non era il solo in causa. Ed è stato ancora nel libro di Françoise Dolto che ho trovato un altro frammento per la comprensione. «Perché ci sia festa, bisogna sentirsi sicuri mentre ci si immagina di vivere come se si fosse qualcun altro. In una festa, bisogna giocare a trasgredire ai comportamenti abituali, avere l’illusione del pericolo, ma senza che questo sia veramente presente».

Questo bisogno di sicurezza è senza dubbio più importante di quello di essere visti. Lo si ritrova nel comportamento degli sciatori adulti che, nelle località sciistiche frequentano di più gli impianti dai quali non si perdono di vista le costruzioni e i parcheggi, piuttosto che quelli situati al di là delle creste, dove peraltro le code sono meno lunghe. Ma così facendo, gli adulti fuggono il pericolo, cercano di starne alla larga a qualunque costo. I giovani, al contrario, ricercano una mescolanza sottile di pericolo e sicurezza, che offre loro la sensazione di essere padroni di ciò che costruiscono, senza smettere per questo di sentirsi sotto la protezione di coloro che cercano di fuggire. Si illuminano nella scoperta di nuovi poteri, ma sanno per intuito che il gioco smette di essere una festa quando il rischio lo porta via, quando la paura lascia posto all’angoscia. Vogliono trasgredire, ma senza andare fino in fondo. Allora migrano: per costruirsi un mondo nuovo che appartenga proprio a loro, ma solo al margine del mondo degli adulti. Questo margine è sufficiente: procura il giusto brivido di paura che ci vuole, lasciando credere di essere ancora lontani dalla montagna vera, dove il pericolo non è più un gioco.

Alcuni giovani rider non andranno mai oltre questi fuoripista rassicuranti. Avranno padroneggiato così il piccolo senso di insicurezza, che gli avrà permesso di affermare la loro identità. Ma l’avranno comunque vissuto all’interno del gruppo, della banda, e il riding non avrà potuto essere che una sorta di rito di iniziazione, iniziazione all’età adulta. Gli anni passeranno e, sempre in gruppo, essi ritorneranno sulle piste del mondo degli adulti, dove si ricorderanno, con un tremito retrospettivo, della loro ”jeunesse folle“, e dei loro exploit.

Ma i più ricchi di creatività ricorderanno che, dall’alto della cresta più lontana che avevano raggiunto, altri pendii e altri couloir erano apparsi, davvero al di fuori del terreno attrezzato degli adulti. E scopriranno dentro di loro un sogno, quello di partire verso questi territori nascosti, non per diventare più adulti trasgredendo alle regole degli adulti, ma per una ragione nuova: non dimenticare del tutto l’infanzia che era viva in loro il giorno in cui erano usciti dalla pista per la prima volta.

Spero che possano realizzare questo sogno. Ma spero anche che sappiano capire in tempo che una volta fuori dalla vista degli adulti, e in particolare di quegli adulti incaricati della sicurezza, avranno bisogno di acquisire conoscenze nuove. Oltre all’autonomia psicologica appresa uscendo dalle piste, avranno bisogno di imparare un’autonomia tecnica che permetterà loro di sopravvivere in un mondo che non è più quello della montagna attrezzata e falsamente resa sicura.

A questo prezzo soltanto il sogno potrà essere realizzato, la paura resterà un piacere, il gioco continuerà a essere una festa. E un giorno il rider, diventato alpinista, potrà vivere una delle grandi felicità dello scialpinismo, la felicità del raid. Dall’alto del primo colle dal quale scoprirà tutte le montagne che avrà scelto di attraversare, ricorderà la sua prima, piccola migrazione. E sentirà salire in sé un’esaltazione potente, in cui forse non saprà riconoscere il ricordo lontano e incosciente di tutte le grandi migrazioni che, dall’origine della specie umana, hanno permesso all’uomo di costruire la sua lunga storia. Il giovane sciatore alpinista sarà Adamo che conduce il suo clan fuori dal Paradiso, ormai stretto e troppo conosciuto; Rama e Mosè che decidono l’esodo dei loro popoli; Gengis Khan che trascina le sue orde verso il ponente; e tutti quegli uomini che, dalla Lunga Marcia alla conquista del West, si sono un giorno sentiti allo stesso tempo trascinati dalla storia e padroni dei loro destini.

Il giovane si girerà ancora una volta verso i pendii che ha appena salito, verso la valle ancora visibile. Poi guarderà le montagne davanti a sé. E senza ben sapere perché, avrà l’impressione di partire alla conquista del mondo.

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