A passo d’uomo

In vista dell’uscita nelle sale italiane, prevista per il 19 ottobre 2023, di A passo d’uomo, film d’apertura del Trento Film Festival 2023 e patrocinato dal CAI. È tratto dall’omonimo libro autobiografico dell’autore Sylvain Tesson: da questo stesso autore era già stato tratto La Pantera delle nevi (Miglior Film a Trento nel 2022 e grande successo italiano per pubblico e critica).
Protagonista indiscusso, Jean Dujardin (premio Oscar per The Artist) nei panni del celebre scrittore con un debole per le esperienze estreme e in solitaria. Dopo un brutto incidente, che lo trascina in un coma profondo, Pierre (Dujardin) decide di intraprendere un tortuoso viaggio da solo, lungo le Alpi francesi. Un’escursione che si trasforma in una fuga dal mondo frenetico di tutti i giorni, un percorso spirituale, di resilienza e ri-connessione alla natura e al più profondo sé.
A Passo d’uomo diventa anche per io spettatore un’occasione per “staccare la spina” e lasciarsi guidare lungo i sentieri dimenticati tra la Provenza e Mont Saint Michel, in un viaggio alla ricerca di se stessi, ricco di sorprese.

Intervista a Jean Dujardin, interprete di Pierre

All’inizio del libro di Sylvain Tesson c’è una bellissima frase che riassume il suo viaggio parlando di «una vita ridotta alla sua più semplice espressione». Potremmo dire lo stesso sulla sua performance nel film?
Era ciò che desideravo da tanto tempo. Ho sempre avuto questa fantasia, molto umana, di partire liberandomi di un sacco di cose e di andare sui sentieri del mondo. E perché non su questi sentieri oscuri, questi sentieri nascosti? Ho effettivamente applicato nella recitazione ciò che stavo visualizzando, in accordo con il regista e con l’intera troupe, perché è davvero un film molto collettivo nella sua produzione. È quello che ho cercato di proporre nel recitare e a volte nei miei movimenti, nei miei spostamenti, nella mia solitudine, per nutrire il quadro delineato da Denis Imbert. Infatti, non si tratta di una gita in giornata, né di una passeggiata da pensionato. È un camminare per soffrire. È il cammino della redenzione. Forse avevo, in effetti, voglia di vivere questo. Tutto ciò richiede una messa a nudo. Bisogna spogliarsi dei panni d’attore, calarsi negli elementi, rapportarsi con molta umiltà all’ambiente. Sapendo, nel contempo, di essere sulle orme di Sylvain Tesson. Ma sono comunque i tormenti di un uomo che ho cercato di fare miei. Li capivo.

Come ci si avvicina a un personaggio come il suo, che agisce spesso solo sullo schermo?
Come diceva Sylvain Tesson, è una faccia in un paesaggio. L’ho avvicinato dicendomi che era legittimo farlo, in quel momento. Ma è vero che ogni volta un film è un’avventura. Non sai mai cosa ne uscirà alla fine. Il risultato finale non assomiglia mai a ciò che avevamo immaginato o letto in partenza. È un miracolo. È proprio per questo che parlo di opera collettiva. Molte persone hanno contribuito con il loro talento, la loro precisione, i loro desideri, i loro tormenti, la loro parte di solitudine. È una miscela di solitudini. Io in realtà non mi sono preparato in alcun modo. Ho letto alcuni libri di Sylvain Tesson, ma solo per potermela cavare. L’ho anche incontrato. È una persona piuttosto rara nel suo modo di vivere la vita e abitare il mondo. È molto originale, molto divertente e sembra che quando ti parla stia scrivendo il suo prossimo libro. Bisogna ovviamente discostarsene perché altrimenti si diventa solo una pallida imitazione poco interessante. Ma non sapevo che fosse un racconto così personale. Me ne sono reso conto mentre lo facevo. Per ogni scena bisogna lasciare spazio. Si incontrano paesaggi, senza sapere esattamente su quale pendio, su quale sentiero di cinghiale si atterrerà. Ci si lascia un po’ prendere dalle proprie emozioni. Ci si autorizza ad avere momenti di fragilità, si cerca di chiudersi nella propria solitudine, seppur con una troupe cinematografica intorno a sé.

Non è un film autoreferenziale, non c’è eroismo, al contrario, c’è molta modestia…
Certo. Perché per avventurarsi in un viaggio interiore è fuori questione che si parta dall’audacia, dal coraggio. L’intera scommessa era di rimanere su qualcosa di molto intimo. Che non è mai semplice perché è come una trappola. Infatti, partendo dal Mercantour, bellissimo e immenso, viene voglia di prendersi tutto. Mentre in realtà bisogna dirsi che sì, è bello, ma che non ci importa. Perché uno scenario meraviglioso non fa necessariamente un buon film. È come in un western dove il minimo indispensabile è avere cowboy e cavalli. Molto bene, ma la cosa che conta è ciò che poi si racconta, come lo si ricolloca. Bisogna andare dritti all’osso. Abbiamo avuto molto contatto con la materia, col terreno. Chiedevo a Denis di filmarmi con la faccia a terra. C’erano anche risvegli con il sole che veniva ad accarezzare il viso del mio personaggio, le foglie sul pavimento, il muschio… Abbiamo cercato di inserire questo nelle riprese. C’è stata una splendida collaborazione sia con Magali Silvestre de Sacy, la direttrice della fotografia, che con Denis e il suo intero team. Sylvain Tesson mi diceva che non sapeva cosa avrebbe potuto raccontare il film. Temeva che risultasse noioso. Gli rispondevo che se si seguiva il suo passo, come avevo fatto io durante la lettura del romanzo, allora si scoprivano tante cose. È un nuovo modo di guardare un film. Bisogna lasciarsi portare. Allora ciascuno può trovarci una propria eco.

E’ un film dove i rumori molto crudi della natura risaltano particolarmente. Come  ha interagito con questo?
Il suono diventa di per sé un personaggio molto importante nel film, come il suono del fuoco per esempio o le pietre sui sentieri. C’erano tutti i tipi di pietre sui sentieri. Tra l’altro, filmare questi diversi tipi di sterrati aveva un ché di sperimentale. A un certo punto, sono un uomo che accende un fuoco. Mangia una fetta di salame, fuma, pensa. E solo di questo si tratta: pensare, mangiare, dormire e svegliarsi. Nulla a che vedere con un turbamento un po’ esagerato o un’intenzione un po’ marcata. A volte Denis mi diceva di camminare lungo il crinale, gli dicevo che era meglio che io risalissi il pendio, anche se era un po’ pericoloso. Perché è quello che avrebbe fatto Sylvain Tesson. Sarebbe andato di là perché quella è la strada dell’inesperto. Quella che te la fa pagare, con una brutta caduta. Siamo in una dimensione che rimanda alla storia di Cristo. È la via crucis. Mi faccio male. Ho bisogno di capire chi sono, dove vado, e tutto ciò accompagnato dai miei rimorsi, che non mi lasciano in pace. Chi sono? Dove vado? È un reset, il bisogno in un bel paesaggio, a volte un po’ ostile.

Ha sentito la macchina da presa troppo addosso?
No. Chiedevo solo al regista di dirmi quando era davvero molto vicina, perché in quei momenti bisogna frenare le proprie emozioni. Anche solo pensarle è sufficiente perché si vedano. Soprattutto io, riesco ad incastrarmi da solo con la mia faccia. In realtà, fin dall’inizio avevo deciso di essere molto insondabile, molto interiorizzato, che fossi inquadrato da vicino o da lontano. Che avrei vissuto tutto questo come se il film non esistesse nemmeno. Come se non si riprendesse mai niente. Ero alla ricerca dei suoni, dei miei passi. Li frenavo. Mi ricordavo di quel dolore, sempre presente. Il film andava verso questo dolore. Un dolore morale che si avvicina a un dolore fisico. Che lo raggiunge. Dovevo riprodurre questo dolore sulla mia pelle. Quella schiena, quella gamba che fa male. Ma senza esagerare.

Ciò che è molto bello è che non interpreta Sylvain Tesson… non c’è alcun tentativo di mimesi
È una discussione che ho avuto con Sylvain all’inizio delle riprese. Una sera eravamo vicino al fuoco e mi chiese perché non scrivessi su un taccuino le mie sensazioni ed emozioni giorno dopo giorno. Gli ho detto che per me quello era il suo lavoro. I suoi taccuini sono come figli per lui, è suo il lavoro di scrittore. Lui è l’eroe dei suoi racconti. Io sono un attore. Devo essere aperto ad ogni storia. Se annoto troppo, se scrivo troppo, non avrò più spazio per tutte le storie nella storia. Non posso concedermi questo viaggio. È quello di Sylvain. Siamo così giunti a parlare di quella purificazione che lui cerca anche nei suoi racconti. Purezza che anche io cerco, pur sapendo che la si trova forse solo a 85 anni. Ma è quello che ho cercato di fare in questo film. Cercavo sempre di dire a me stesso di fare meno. Così come nella vita, ho cercato di sbarazzarmi di molte cose. Trovare ciò che amo veramente, profondamente. Non sono molto materialista. In realtà, sono felice quando vado a camminare nei boschi, quando vado a fare escursioni. Mi piace rilassarmi.

Quali discussioni ha avuto con Denis per costruire il suo personaggio?
Denis è una persona che non teorizza. Pensavo che ci saremmo fatti un po’ più di domande durante le riprese. Ma non è successo. Questo mi ha reso fragile. E forse è stato benefico. Non lo sapremo mai. I sentieri neri è una storia di redenzione. Ho solo chiesto a Denis di aiutarmi ad essere tranquillo. Come l’eroe del racconto. Non sistematicamente, ma ogni tanto.

Il film usa una voce fuori campo, che è sempre un rischio…
Avevo registrato una mia traccia, prima delle riprese, in studio, per poi mettermela nell’orecchio sul set. Ma in realtà non ci è servita. In realtà si è presentata al montaggio, quando ho cominciato a posare una voce un po’ confidenziale sulle immagini e sul mio visto, una voce cervellotica, che sarebbe venuta direttamente dalla penna. Poi poco a poco, la amplio, e si arriva così a qualcosa di più classico, di più chiaro, che spiega passo per passo i benefici di questo viaggio e dei paesaggi attraversati. Ma ancora una volta questo lavoro era basato sull’istinto. La voce fuori campo porta una distanza. Non cerca di colmare i vuoti. Lei li fa esistere. Fa sentire i rumori della natura, i respiri, i rumori organici di dolore, come quelli della vita. Direi addirittura che i vuoti e i silenzi sono più importanti dei pieni

Quali ricordi conserverete di questo set?
Ne usciamo con una certa frustrazione. Per diverse ragioni. Prima di tutto perché, ovviamente, non ho percorso i 1300 chilometri a piedi della storia. Non potevo superare i tre-quattro chilometri al giorno. Ho attraversato regioni meravigliose, ma in auto (ride). Ho avuto la sensazione di essere stato da solo con me stesso, quando in realtà ero con tutto il team. Avrei voluto farlo da solo e forse un giorno lo farò. Di queste riprese mi rimane il meglio, cioè le persone che ho incontrato nelle piazze dei paesini. Persone che condividono spontaneamente qualcosa con te. E che ti rassicurano perché ti ricordano che esiste l’umano. Che esiste il calore.

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