Casimiro Ferrari

L’intervista è stata realizzata da Diego Sánchez e Gustavo Balmaceda, che all’epoca avevano un’attività di vendita di attrezzatura da alpinismo che si chiamava Messner Expedition.

Casimiro Ferrari
(in un’intervista realizzata in Argentina nel 1994)
di Diego Sánchez e Gustavo Balmaceda
(pubblicato su Cordada n. 1 nel dicembre 1994, con il titolo El Señor de la Patagonia, poi ripreso dal CCAM, Centro Cultural Argentino Montaña)

“Ricordo quell’anno 1994, quando Casimiro tenne una conferenza al CENARD, il Centro Nazionale di Formazione Sportiva di Alto Rendimento, era un venerdì e me lo dissero all’ultimo minuto. José Luis Fonrouge lo accompagnava. Il Club Andino Italiano e i Ragni di Lecco commemoravano i 20 anni dell’ascensione della via sulla parete nord-ovest del Cerro Torre (1974 -1994) e parte di ciò che fu detto in quell’occasione si può leggere in questa storica intervista (Alex Guillermo Martin)”.

Un grande, semplicemente un grande. Con la semplicità di questo termine si può definire un essere straordinario. A 54 anni è l’esempio di come la montagna possa preservare dall’età. L’apertura di una nuova via in Patagonia quest’estate ne è una prova lampante. Un libro aperto. Insegna, impara e senza posa parla di tutto: Cerro Torre, Maestri, Messner, Fonrouge, etica, sponsor, Tomo Česen e Sud del Lhotse… mostrando il suo lato più importante: quello umano.

Casimiro Ferrari

Da quanto tempo arrampichi in giro per il mondo, Casimiro?
Vengo in Patagonia da quasi trent’anni, ho visitato anche il Perù, l’Himalaya e l’Alaska. Ma mi piace di più la Patagonia, mi riposa. Anche quando sono stanco, sono felice.
 

Il gruppo dei Ragni sul Cerro Torre

Ti piacerebbe venire a vivere in Patagonia?
Lo desidero da tanti anni. Il fatto è che ho un lavoro che mi impegna, una fabbrica, non molto grande, ma che ha bisogno di attenzione. Ho un figlio grande che se ne occupa.

Forse in questa risposta c’è che sei pronto a fare questa scelta.
Sì, vorrei avere un terreno, non troppo grande, un posto dove vivere, non lavorare, ho già un lavoro in Italia, ma vorrei un lavoro che desse un senso alla vita. E la montagna mi piace ogni anno di più, gli anni passano e mi sento ancora bene, la forza fisica non mi manca, anche se prima camminavo meglio.

Quanti anni hai?
Ho cinquantaquattro anni e non ho problemi. L’importante è continuare ad interessarsi a qualcosa e la montagna mi conforta, è il mio modo di vivere.

Casimiro Ferrari durante l’intervista

Casimiro Ferrari durante l’intervista


Come ti sei interessato alla Patagonia?
Sono di Lecco, una piccola città che ha una storia alpinistica che inizia con Riccardo Cassin, poi continua un’altra generazione, quella di Carlo Mauri. Quest’ultimo era con l’ultima spedizione di Padre Alberto De Agostini quando salirono sul Sarmiento. Si innamorò della Patagonia e nel 1965 andai con lui.
In precedenza, nel 1957, aveva tentato il Cerro Torre dal lato occidentale con Walter Bonatti. Era la prima volta che il Torre veniva tentato. Quando l’ho visto ho detto “no!”. Terray aveva ragione quando parlava di questa cima. Terray nel 1952, dopo aver scalato il Fitz Roy, aveva detto che “Questa è l’unica vetta al mondo che può rappresentare l’amore platonico di qualsiasi alpinista“. E io ero d’accordo. Poi sono passati gli anni e sono venuto a provarci con Mauri.

Abbiamo provato il Torre e abbiamo fallito, ma personalmente al ritorno ero molto contento, perché era un’altra conferma a quanto detto da Terray. Ho smesso di pensare al Torre, ma Mauri mi chiedeva continuamente: “Quando andiamo al Torre?”. Ho risposto che no, non volevo riprovarci, perché aveva delle difficoltà che non avremmo potuto risolvere, non avevamo abbastanza tecnica per fare quella montagna impossibile. Quando dissi questo erano presenti dei giornalisti e la settimana successiva pubblicarono un articolo su un giornale, in cui c’era anche un’intervista a Cesare Maestri che diceva: “Non è una montagna impossibile, ci sono solo alpinisti che non hanno possibilità di farlo. Queste parole mi fecero davvero arrabbiare.

Così furono Maestri e Mauri a spingerti…
Sì, quella era una generazione pazza che è andata a provare tutto.

La tecnica è stata sostituita dallo slancio?
Naturalmente quelli erano tempi di scarsa tecnica. Per me il Cerro Torre era impossibile ma dopo quattro anni ci sono andato di nuovo. Fu in quel periodo che si diffuse la tecnica della piolet traction. Prima, con una sola piccozza, non era possibile scalare cose del genere: con due fu tutt’altra cosa. 

Casimiro in vetta al Fitz Roy

Qual è stata la salita più difficile che hai fatto?
Per le difficoltà su roccia il pilastro est del Fitz Roy (Chaltén); ma il Torre è più pericoloso, altro genere in cui ci vuole più capacità, più convinzione. Il Torre mi è venuto incontro perché l’ho vissuto ogni giorno, giorno e notte. Sono venuto qui come capo spedizione del gruppo dei Ragni di Lecco, che già allora erano interessati al pilastro est del Fitz Roy, ma io ho detto no, meglio andare al Torre, perché è un problema italiano e dobbiamo farla finita. Tornammo al Fitz nel 1976, lo scalammo in stile alpino in 7 giorni con 1000 metri di parete fino alla vetta. È l’unico percorso che non è stato ancora ripetuto. Il Fitz è tecnicamente difficile; secondo me tutta la parete e soprattutto gli ultimi 500 metri del Torre sono troppo pericolosi.

Hai mai superato i tuoi limiti?
Sul Torre sì.
 

Da sinistra, Pino Negri, Casimiro Ferrari e Mario Conti in cima al Cerro Torre

Cosa hai provato quando si è concluso il problema Torre?
Alla fine l’arrivare in cima non è stato così entusiasmante. Lì finiva il mio sogno! In realtà, non si vive in montagna, si vive nei sogni.
Scalare una montagna è, in un certo senso, la conclusione di un’impresa sportiva, ma è meglio quando ci si concentra e si sogna. Non è come una scalata del fine settimana. Questo è diverso, quando pensi seriamente a qualcosa e lo raggiungi, tutto è finito.
 

Da sinistra, Daniele Chiappa, Pino Negri e Casimiro Ferrari in vetta al Cerro Torre

Cosa c’è dopo il Torre?
Penso che dopo il Torre non venga nulla. È davvero una fine. Poi sono andato alla Ovest del Makalu, una parete come quella del Fitz Roy ma a 8000 metri. Abbiamo fallito a 7050 m. Ma non ero così motivato come al Torre. 

Sei mai stato amico di Maestri?
Sì, anche se non siamo mai andati in montagna insieme. Non abbiamo le stesse vedute, ma lo stimavo molto, era un esempio di vita, di lavoro. La cosa brutta è che abbiamo avuto un episodio, come quello del Torre. Non voglio polemizzare con Maestri, lo capisco e giustifico anche i suoi motivi per i quali ha provato il pilastro sud-est con il compressore. La vera storia del compressore è che ha scelto questo mezzo perché l’Atlas-Copco ci avrebbe messo molti soldi e lui ha accettato. Voleva andare al Torre per chiudere la questione del 1959 e con l’aver accettato quei soldi si è perso un po’ di valore alpinistico o etico. Ma Maestri è stato un uomo di grande valore, non solo per il Torre ma per tante cose che ha realizzato. Quello che non avrei mai immaginato era che sarebbe caduto così in basso con questa storia, perché certamente aveva tutte le capacità per scalare senza il compressore.

 

Bivacco sul Cerro Murallón. Archivio fotografico Ragni della Grignetta

L’Atlas-Copco aveva così tanti soldi da far dimenticare l’etica?
Per questo motivo fu molto criticato, tutti gli si accanirono addosso, ma lui non era così, era un uomo che valeva altrettanto senza andare al Torre con il compressore. Era un alpinista di fama mondiale. Per me non ha avuto alcuna influenza sulla sua carriera. 

Per te il nome Maestri è sempre stato sinonimo di rispetto?
Assolutamente sì. Una volta lo incontrai al MIAS, una fiera dello sport a Milano. Quando mi vide si voltò e se ne andò da un’altra parte; l’ho cercato e gli ho detto che non avevo problemi con lui e lui mi ha detto che neanche lui aveva problemi con me. Alla fine ci siamo chiariti. Non posso dire che sia un amico, ma ho molto rispetto per lui. Maestri viene da una generazione più vecchia della mia, dieci anni non sono tanti ma la differenza c’è.

La spedizione dei Ragni di Lecco al Cerro Torre del 1974. Da sinistra, due argentini, Daniele Chiappa, Pierlorenzo Acquistapace, Gigi Alippi, Angelino Zoia, Pino Negri, Ernesto Panzeri, Sandro Liati, Mario Conti, Casimiro Ferrari, Giuseppe Lafranconi. Seduto: Claudio Corti. Foto: Mimmo Lanzetta/www.ragnidilecco.com.

Si montano le slitte. Spedizione dei Ragni di Lecco al Cerro Torre del 1974. Foto: www.ragnidilecco.com.

Ma perché sembravate sempre nemici?
Perché ci si misero gli inglesi. Sono venuti a casa mia a registrare per vedere se parlavo male di lui o della storia di Toni Egger.
Egger era mio amico e mia moglie lo era ancora di più. Era un brav’uomo, molto rispettato nell’ambiente, aveva molto coraggio ma la questione del Torre era sempre a mezzo, in ogni discussione. Come quel film L’urlo di pietra in cui c’entrava anche Messner. Non è colpa sua, ma il film non ha avuto successo. 

Si è tentato di tracciare un parallelo tra questo film e la storia del Torre?
Sì, ma gli è andata male. A qualcuno è venuta l’idea, probabilmente un alpinista; ma gli è andata male. 

Da dove sono venuti i soldi per la spedizione al Torre?
A pagare i costi sono stati alcuni amici. Ricordo che era il mese di marzo, il club non aveva soldi perché avevano costruito un nuovo rifugio e avevano anche sostenuto una spedizione in Himalaya. Così con un amico abbiamo organizzato una cena per 100 persone. Il presidente del club mi ha chiesto come pensavamo di pagare quella cena, e io gli ho detto che non lo sapevo, ma magari potevano pagarsela loro.
Abbiamo cenato e alla fine della cena un amico, rappresentante della Fiat, si è avvicinato chiedendomi il motivo dell’invito. Gli ho detto che il club aveva bisogno di soldi e lui senza ulteriori indugi mi ha chiesto se 2.000 dollari andavano bene. Sì, gli ho detto, se tutti ci mettono 2.000 va bene… Allora con le carte in mano ci siamo messi davanti a lui e abbiamo accettato la donazione; subito anche gli altri lo hanno seguito e, a fine serata, avevamo raccolto 60.000 dollari. Così abbiamo pagato la cena, la spedizione e abbiamo riportato indietro anche 3.000 dollari. 

Hai mai scalato in solitaria?
No, non cose importanti. L’ho fatto ma non mi piace. Stavo per farlo sul Cerro Grande in Patagonia, ma ho incontrato ragazzi di Buenos Aires che non avevano mai scalato prima; uno di loro, Damián, ha voluto accompagnarmi, gli ho prestato l’attrezzatura e siamo riusciti a scalarlo. La cosa più complicata è stata la discesa in corda doppia ma dopo tre calate ha imparato bene e non abbiamo avuto problemi. 

Qual è la tua opinione su Messner?
Messner è un uomo intelligente, molto “commerciale”. Adesso è tutto “commerciale”, prima non aveva senso esserlo, di sponsor non si parlava.
E pensare che la gente parlava così male di Bonatti, Maestri o Mauri che scrivevano un articoletto su qualche giornale, prendevano tre pesos e la gente diceva che si vendevano, che non erano più puri. Adesso è tutto uguale, fanno tutti così. Prima era meglio? Io preferisco non farlo, non mi piace, anche se in certe occasioni è necessario. Se non ne ho bisogno, meglio.
E non si tratta solo di Messner, è il momento in cui ogni fabbrica ha bisogno di qualcuno che incrementi le vendite. Un altro problema è che si vende male, anche se si guadagna bene.
Una volta ho assistito a una conferenza di Messner, per la quale ha incassato 6.500 dollari. Durante la proiezione ha mostrato come prima di raggiungere la vetta ha mangiato il formaggio di una fabbrica di Trento. Una cosa è fare soldi e un’altra è vendersi. Preferisco salire un po’ meno, ma farlo con più stile. 

Ti manca la scalata pura di un tempo?
Quell’alpinismo non esiste più. La purezza è data dai tempi. Ci sono giovani che fanno le cose diversamente, alla vecchia maniera, e a me personalmente piacciono questi ragazzi. Una volta sono andato da Ferrino a chiedere tende, volevo pagarle e mi hanno detto: “te le diamo noi se ci garantisci la vetta“. Ma io non posso garantire nessuna vetta e quando vado in montagna non mi piacciono questi problemi…

Verso il Colle della Speranza. Spedizione dei Ragni di Lecco al Cerro Torre del 1974. Foto: www.ragnidilecco.com.

Un momento di sosta sotto al Colle della Speranza. Spedizione dei Ragni di Lecco al Cerro Torre del 1974. Foto: www.ragnidilecco.com.

Etica e risultati possono convivere nell’ambiente degli sponsor?
Se lo sponsor che hai è comprensivo e dà valore a questo modo di scalare, può esserlo.

 

Casimiro Ferrari all’Alpamayo. Archivio dei Ragni di Lecco.

Cosa puoi dirci di Tomo Česen e della Sud del Lhotse?
Per me la Sud del Lhotse non cambia in nessun modo la mia opinione su Česen, perché non metto in discussione nessun alpinista, altrimenti si potrebbe dire che tutta la storia dell’alpinismo è una bugia. 

Cosa ne pensi dell’indagine che è stata avviata su questo tema?
Questo è molto brutto, perché di ogni cazzata che si dice subito se ne fa una polemica. Per quanto riguarda l’argomento Tomo Česen, mi pare che si possa mentire, oppure non credere, oppure a qualcuno conviene dire che l’ha fatta e a qualcun altro no. 

Ancora soldi, vero?
Sì. Ci sono però anche altri motivi. Alcuni polacchi si fermarono a casa mia, compreso Kukuczka, e mi chiesero perché andavo ancora in montagna, visto che avevo la mia fabbrica, la mia macchina nuova… Non capivo cosa volevano dirmi. Dal punto di vista polacco, russo o jugoslavo, andare sulle montagne più importanti è risolvere un problema di vita, e questo è un altro modo di vedere la montagna. Non possono tornare nel loro Paese senza essere stati in cima, perché non ti daranno più il passaporto per ripartire. A volte capisci perché devono raggiungere la vetta qualunque cosa accada.

Come vedi la Patagonia tra dieci anni?
Penso che porterà molta gente e, di conseguenza, ci saranno problemi per i turisti. La Patagonia ha bisogno di persone che sappiano cos’è il turismo, cos’è l’alpinismo, qualcuno deve essere responsabile di quest’area e prendersene cura. Cinque anni fa mia moglie rimase ferita al Campo Maestri e sull’elicottero non c’era nemmeno una barella.
El Chaltén è stata una buona idea, avere delle guide, una squadra di soccorso, gente che esce a cavallo per esplorare la zona, con uno stipendio, ma ora c’è un paese che, per la maggior parte, non sa cosa sia l’alpinismo, buona parte cerca solo lo stipendio. C’è capitale privato che può essere utile, ma non viene utilizzato, e non ci chiamano alpinisti ma piuttosto mochileros, che vuol dire gente con lo zaino in spalla ma in senso dispregiativo. Non vedo male che facciano pagare, ma allora che comprino materiale da soccorso, oltre alla costruzione dei bagni. La spazzatura non va lasciata in giro, va portata via. Ci sono persone che non hanno idea di cosa sia la natura. Non ci sono guide che possano accompagnarti nella scalata, quasi nessuno conosce le montagne che ci sono intorno.
La Patagonia non deve essere solo Fitz Roy e Cerro Torre, qui non si comprende il potenziale che davvero ha questa zona.
Chi non vorrebbe fare il Fitz o il Torre? La fedeltà alla natura non deve andare perduta, deve essere la stessa di sempre.

 

Casimiro Ferrari in vetta all’Alpamayo. Archivio: Ragni di Lecco.

Cosa ne pensi delle tariffe applicate dal Cile al Paine?
Non capisco come possano farlo. Da italiano vi dico che grazie ad un italiano il Cile ha un parco nazionale. Quell’uomo era Guido Monzino, il primo alpinista a scalare la Torre Centrale. Monzino comprò l’intera zona del campo base e poi la cedette in donazione per farne un parco nazionale. E adesso se vado devo pagare…
Anche se passano 200 anni, al Paine non ci vado per principio.
Questo non è merito di Pinochet o del turismo, questo è merito di un pioniere che è andato in quelle terre e le ha fatte conoscere; la vera storia è sconosciuta.

In arrampicata sul Cerro Torre, spedizione dei Ragni di Lecco al Cerro Torre del 1974. Foto: www.ragnidilecco.com.

La preparazione prima della salita. Spedizione dei Ragni di Lecco al Cerro Torre del 1974. Foto: www.ragnidilecco.com.

La palestra di roccia funge da scuola?
Sì, se non ti limiti a misurarti sui gradi. Alcuni si limitano solo a misurarsi sui gradi e pensano che se non fai un VII (che per esempio io personalmente non riesco a fare) non sei nessuno. Questo non va davvero bene, perché loro pensano che se non riescono a fare quello allora non possono fare altro… e non è giusto. C’è gente qui che pensa che la scalata sia solo ciò che succede in palestra, semplicemente perché non conoscono altro.

Vivo in una città dove la montagna è una cultura, tutti escono con la famiglia o gli amici per fare cose diverse sulle montagne: per loro, come la 2a o la 3a elementare, fa parte della loro vita.
A dodici anni dovevo andare a scuola ma a causa dell’arrampicata non frequentavo le lezioni. Per strada ho incontrato persone che lavoravano nei campi e non erano della mia famiglia. Mi hanno chiesto “Hai tutto? Sai fare i nodi?”. Una volta un vecchio mi diede dei chiodi con cui trascinavano i tronchi e mi disse che potevo usarli anche in parete. Con questo voglio dimostrarvi che esisteva una cultura.
A mia madre piaceva che arrampicassi, anche se non diceva niente. Usciva con me per le strade con orgoglio perché avrei continuato la tradizione.
Per me l’alpinismo è più che una passione, è educazione. A volte mia moglie, quando mi vede cupo, mi chiede quando andrò in montagna: siccome ho un caratteraccio, preferisce che mi tolga dai piedi e vada a scalare. Mi piace camminare in montagna, esco con lo zaino in spalla, dormo sotto le stelle e mi sento più rilassato. Se non lo facessi non riuscirei a farcela e penso di poter farcela solo se esco spesso: il lavoro mi nutre ma la montagna mi dà la vita.

 

A 53 anni Casimiro è tecnica ed energia allo stato puro

Cosa pensi degli scalatori argentini?
Manca loro una parte di cultura, non certo le capacità. Questo non è da adesso, prima non c’era una cultura forte in montagna. Penso che qui sia più competitivo che in Europa, anche se non lo dicono, penso che internamente ce ne sia molta. Sono amico di Fonrouge, uno scalatore che ammiro per il modo in cui scala, ma mi sembra che non abbia trasmesso quel modo di arrampicare.

Gli alpinisti argentini, in generale, nascondono le loro esperienze?
Alcuni lo fanno. Qui mi è successo qualcosa che non mi è mai successo altrove. Non mi piace dirlo, ma alcuni mi hanno fatto capire che non vogliono salire con me perché hanno paura che tolga loro il merito della salita. Lo dico con dispiacere, ma è così che mi sono sentito veramente.
Ti dico anche che sono amico di Riccardo Cassin, che ha 85 anni. Quando andiamo in montagna il personaggio è lui e a me va bene così. Quando siamo andati in Perù, 28 anni fa, ero anche io sull’Jirishanca: ma per tutti oggi è la via Cassin.

Casimiro Ferrari durante un bivacco in Patagonia. Foto: www.ilpuntostampa.info.

Cosa ne pensi dell’indoor?
È come l’alpinismo, se uno crede nell’arrampicata indoor, la fa anche se non va in montagna. Forse non ha interesse per l’alpinismo, ma va bene così. È lo stesso con un atleta dei 100 metri e con uno dei 10.000… 

Comunque ci sono arrampicatori sportivi che hanno fatto cose importanti in alpinismo…
Sicuramente! Marco Pedrini era un arrampicatore sportivo di altissimo livello, anche se non amava la competizione perché diventava molto teso a causa del suo carattere apprensivo.

Pedrini ha riso di Maestri quando ha fatto la stessa via da solo?
No, non lo prendeva in giro, è salito a cavallo del compressore abbandonato come se fosse una moto, ma lui era fatto così, libero, se ne fregava di Maestri, ma per il suo carattere non era capace di prendere in giro nessuno, non era capace di fare queste cose. Ero a El Chaltén quando è andato da solo sul Torre: è salito tre volte, la prima volta da solo, poi il suo compagno (Fulvio Mariani, NdR) lo ha filmato.

Che rapporto hai con Cassin?
Attualmente molto buono, non anni fa. Quando arrivammo al Torre tutto il gruppo pensava, me compreso, che Cassin fosse vecchio. Come capo spedizione mi sono assunto la responsabilità di escluiderlo, senza rendermi conto che sarebbe stato un premio per lui venire al Torre: per quella decisione lui si è arrabbiato con me. L’anno successivo, durante la spedizione nazionale alla Sud del Lothse, non volle che io andassi. A dispetto della sua grande esperienza, la spedizione fallì. Così, un anno dopo il Lothse, l’intero gruppo dei Ragni di Lecco, circa 50 o 100 persone, famiglie comprese, partì per le Dolomiti e ancora non ci rivolgevamo la parola. Voleva salire su una via di Bruno Detassis e siccome ero accanto a lui gli ho detto: “Se vuoi un compagno e per te va bene, io ci sono”. Così abbiamo fatto insieme quella via ma in seguito anche altre. E adesso siamo amici.

Traino delle slitte. Spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

Traino delle slitte. Spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

È vero, a volte la montagna che dovrebbe unire, divide…
Sì, a volte la fortuna di raggiungere una vetta ostacola l’amicizia. Inoltre non ha senso che, quando magari le capacità non sono più le stesse, non si vada a fare insieme salite più semplici, o a camminare, non importa… Se hai la montagna dentro di te non perdi l’interesse, se questo si perde è perché la montagna, in realtà, era solo un motivo per sentirsi importanti.

Che differenza trovi tra alpinismo e arrampicata sportiva?
Nell’alpinismo si trae vantaggio dall’esperienza, ci vogliono anni di scalate e di conoscenza di se stessi. Nello sport è uno stato atletico di energia, di intuizione, di concentrazione più di ogni altra cosa. L’alpinismo, inoltre, richiede di combinare tranquillità e riflessione, non è solo una questione di difficoltà tecniche ma comprende una difficoltà mentale, le difficoltà organizzative, sapere come preparare un bivacco, come affrontare al meglio le cose, come scendere… la maggior parte si fa male durante la discesa, quando si perde concentrazione.

La scorsa stagione hai fatto una nuova via in Patagonia, giusto?
Sì, la parete est dell’Aguja Mermoz, 650 o 700 metri; una bella parete con tre bivacchi intermedi.

Tornando al tema degli sponsor, credi che un’evoluzione in cui l’amicizia è più importante della competizione commerciale possa dare maggiori risultati?
Sì, nei gruppi che non si conoscono bene, all’inizio alcuni sono sempre gelosi di altri. Anche se non sembra, sono quarant’anni che vado in montagna e so che è così. La montagna è pura, pulita, ma non lo è l’uomo, e tanto meno l’alpinista.

Qual è il motivo per cui si va in montagna?
Ognuno va in montagna per un motivo diverso: alcuni perché gli piace quella vita, l’alba, una bella parete; ad altri piace uscire e fare ascensioni, perché sono più ambiziosi; altri per misurare il proprio valore, non tutti hanno lo stesso obiettivo. Anche gli amici da anni hanno motivi diversi e usciamo insieme. In Perù ho litigato con un amico, ai piedi della parete e ne siamo trasformati. Siamo stati uniti su quella parete per quattro giorni dalla stessa corda, abbiamo lottato con motivazioni diverse, ma eravamo uniti dallo stesso interesse per la montagna.

Succede che il collega con cui si è condivisa una vetta non si veda mai più?
Non mi piace, a me piace restare amici. A volte gli amici si perdono perché non raggiungono la stessa notorietà di uno di loro e ciò provoca dubbi che finiscono con la separazione.

Giuseppe Lafranconi (a sinistra) e Pino Negri al Colle della Speranza. Spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

Ormai sopra l’Elmo durante la spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

Casimiro Ferrari in arrampicata sul Fungo del Cerro Torre. Spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

Hai intenzione di tornare in Himalaya?
Sì, forse la prossima primavera se si riesce a formare un gruppo abbastanza forte per la Ovest del Makalu, andrò. In Himalaya, anche solo fare una normale a un Ottomila è una spesa molto grossa e non mi piace pagare uno stipendio per andare in montagna: ma se paghi direttamente chi ti aiuta, allora sì. Sono andato al Makalu senza che intervenisse un’agenzia e ho pagato direttamente le persone che mi hanno aiutato, gli ho dato tre dollari al giorno ed erano contenti. Invece l’agenzia ha dato loro un dollaro e si è tenuta gli altri due. Mentre passavamo per i paesi, l’agenzia cambiava i portatori, così tutti i paesi potevano chiedere qualcosa, anche se in alcuni casi non erano interessati al denaro, ma piuttosto a qualche attrezzatura, perché alcuni non conoscevano il valore del danaro e usavano ancora il baratto.
In Perù volevo comprare un agnellino e, al momento di volerlo pagare, mi accorsi che non sapevano cosa fossero i soldi, volevano qualcosa in cambio. Non sapevo cosa regalargli, allora ho offerto loro l’attrezzatura. Loro l’hanno guardata, mi hanno detto che una giacca a vento valeva un agnellino. Questo non si vede quasi più nel mondo ed è molto interessante, ormai ovunque sanno che i turisti hanno i soldi, e anche per fare le foto, in certi posti, cercano di prenderti qualcosa, questo è quello che scompone un po’ le cose…

Fonrouge dice che la morte di uno scalatore danneggia la sua carriera. Cosa ne pensi?
È una fortuna vivere, a volte mentre cammini ti cade una pietra in testa e sei morto.
Penso che Fonrouge si riferisca al tipo di errori che uno scalatore di un certo livello non dovrebbe mai commettere.
La penso come Fonrouge, ma non posso dirlo in quel modo. Si pensa: “Non commetterò uno di questi errori”.

Ti sei mai ingaggiato con un po’ di paura o con la sensazione che potesse succedere qualcosa?
Sì. Questo succede quando ti fissi un obiettivo, ti passano per la testa quelle cose quando devi andare sotto un seracco, se cade qualcosa in quel momento è finita. Fonrouge, quando ha fatto la Supercanaleta, ha avuto coraggio e testa, perché se a 2000 metri cade dall’alto un sasso di 4 o 5 centimetri sei fatto. Dove scappi? Ma è un ragazzo tranquillo. La Supercanaleta può essere un percorso facile ma è molto pericoloso, lassù le condizioni possono cambiare improvvisamente ed è lì che devi avere testa.

Hai visto qualcosa in Patagonia che ti piacerebbe ancora fare?
Diverse vie, in montagne poco conosciute ma difficili: il Cerro Riso Patrón, la parete del Cerro Murallón, tutta la catena del Moreno in cui ci sono vie come le Grandes Jorasses. Ero nel Marconi, ai piedi ho osservato una via mista su roccia marcia, ma d’inverno sarebbe possibile, potrebbe essere una via come quella sulla Nord del Cervino. Il Cerro Piergiorgio ha vie che non si conoscono, dai 700 agli 800 metri, in cui la neve non riesca a incollarsi. Michel Piola ci ha provato e non ci è riuscito. Mi piacerebbe andare a vedere, ma con qualcuno giovane, così posso insegnargli qualcosa.

Da chi hai imparato?
Da nessuno in particolare, ma un po’ da tutti, a quei tempi c’era parecchia gente da emulare.

Casimiro Ferrari in arrampicata sul Fungo del Cerro Torre. Spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

In vetta al Cerro Torre, la costruzione del pupazzo. Foto: www.ragnilecco.com. 

Casimiro Ferrari in vetta al Cerro Torre, a pupazzo costruito. Spedizione al Cerro Torre dei Ragni di Lecco, 1974. Foto: www.ragnilecco.com.

Appendice
Casimiro Ferrari (1940-2001) è morto. L’alpinismo internazionale ha perso uno dei suoi grandi nomi. Ferrari, per alcuni il primo a scalare il Cerro Torre nel 1974, è morto il 2 settembre a Lecco (Italia), dopo essere stato trasferito in aereo dalla città di Río Gallegos, Patagonia (Argentina), dove era stato ricoverato in ospedale lo scorso luglio gravemente malato, secondo il quotidiano locale La Nación.
Un elicottero dell’esercito argentino ha dovuto evacuare urgentemente Ferrari dalla sua residenza a Santa Cruz, un’operazione che si è trasformata in un complicato salvataggio. Il grande accumulo di neve, che aveva tenuto bloccato l’alpinista italiano per diversi giorni, ha reso estremamente difficoltoso l’atterraggio dell’elicottero. Casimiro Ferrari, che qualche anno fa ha lasciato tutto per trasferirsi nella sua amata Patagonia, gestiva la località turistica Punta del Lago, sulle sponde del Lago Viedma, ai piedi del Cerro Torre e del Fitz Roy.

Casimiro Ferrari. Foto: www.mountcity.it.

Casimiro Ferrari ‘il Patagonico’
Quando visitò per la prima volta le guglie granitiche della Patagonia con Carlo Mauri nel 1965, Casimiro Ferrari aprì per sempre il suo legame con questa regione del cono sud dell’Argentina. Ne rimase semplicemente abbagliato e da allora la sua attività alpinistica fu strettamente legata alle vette più importanti della Patagonia.
Su una di queste, il Cerro Torre, nel 1974 Ferrari tracciò la linea più straordinaria della sua carriera, la Via dei Ragni, per alcuni la prima salita completa dell’impegnativo Cerro Torre. Quindici anni prima, nel 1959, dopo numerosi tentativi falliti – tra cui quello dello stesso Carlo Mauri e di Walter Bonatti nel 1958 – un altro alpinista italiano, Cesare Maestri, annunciava la conquista di questa alta torre (per la parete nord, 1.200 m, ED , durante la quale il suo compagno di squadra, l’austriaco Tom Egger, era morto cadendo nel vuoto. Ci sono ancora oggi fortissimi dubbi sulla veridicità di questa ascensione.
Infatti, per risolvere la questione, Maestri tornò nel 1970 sul pilastro sud-est del Torre per tracciare la cosiddetta Via del Compressore (1.200 m, ED), ma non raggiunse la vetta. Cinque anni dopo gli americani Jim Bridwell e Steve Brewer completarono quella via fino in vetta, sugli ultimi 50 metri del “cappello” di ghiaccio.
Un anno prima, nell’estate australe del 1974, Casimiro Ferrari, Daniele Chiappa, Mario Conti e Pino Negri avevano tracciato la cosiddetta Via dei Ragni, 1.200 m, VI/A2, 85º) su il lato ovest. Oltre a risolvere questa complicata parete del Torre, alcuni ritengono che questa sia stata la prima volta che la sua sommità venne effettivamente calpestata (oggi questa tesi è pressoché integralmente accettata da tutta la comunità alpinistica mondiale, NdR).

Casimiro Ferrari con un pilota

È stata una vittoria costruita in quattro anni. Nel 1970 Ferrari aveva fatto un primo tentativo con Mauri sulla ripidissima parete ovest del Cerro Torre e, sebbene la montagna si fosse ancora una volta dimostrata invincibile, Casimiro trasse le conclusioni tecniche che nel 1974 lo portarono in cima alla “più spettacolare convulsione geologica che il mondo abbia mai visto”. La “crosta terrestre lanciata verso il cielo’, come Lionel Terray aveva definito il Torre.

Da allora, la sua carriera alpinistica è stata strettamente legata alle guglie della Patagonia, anche se ha lasciato il segno anche su montagne emblematiche come l’Alpamayo. Lì, nel 1975 e alla testa di un gruppo italiano, tracciò la via Ferrari sulla sua parete più elegante, la Sud-ovest, un percorso oggi seguito dalla maggior parte delle spedizioni a questa montagna peruviana. Successivamente Ferrari ritornò in Patagonia e puntò gli occhi sul vicino Fitz Roy, dove nel febbraio 1976 aprì il pilastro est (1.200 m, VI/A2) assieme a Vittorio Meles, dopo 17 giorni in parete.

Vivere alla fine del mondo
Casimiro Ferrari (Ballabio, Italia, 1940), ‘il condor italiano’ o ‘il patagonico’ per gli argentini, entrò a far parte all’età di 21 anni del prestigioso gruppo alpinistico dei Ragni di Lecco e successivamente del Club Alpino Accademico Italiano. I suoi meriti alpinistici gli valsero importanti riconoscimenti a livello ufficiale (fu insignito nel 1977 del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana). Ma qualche anno fa aveva lasciato la sua terra natale e la sua famiglia per realizzare un sogno personale: vivere in Patagonia.

Lo ha realizzato sulle sponde del Lago Viedma, dove si è dedicato all’agriturismo, gestendo la stazione di Punta del Lago. Un’occupazione che gli ha offerto la possibilità di far amare ai suoi visitatori una terra nella quale egli, secondo un’intervista pubblicata nel marzo 2000 su La Nación“ha scoperto il suo vero valore” e nelle cui “pareti di granito e ghiaccio ha raggiunto risultati alpinistici e libertà interiore”.

Casimiro Ferrari. Foto: www.trentofestival.it.

Chi era Casimiro Ferrari?
Nato a Lecco nel 1940, inizia giovanissimo il suo alpinismo. A 18 anni entra a far parte del gruppo alpinistico dei Ragni di Lecco, e a 21 del Club Alpino Accademico Italiano. Nel 1965 si recò per la prima volta in Sud America insieme all’amico Carlo Mauri, viaggio che segnerà indelebilmente la sua successiva carriera.

Nel 1969 scalò l’Jirishanca con la spedizione Cassin. Il 1974 è l’anno di quella che è considerata la sua impresa più bella: la prima salita del Cerro Torre, lungo la parete ovest allora mai realizzata, effettuata nel 1974 con Mario Conti, Daniele Chiappa e Pino Negri. 

Seguirono negli anni successivi la parete sud-ovest dell’Alpamayo con la spedizione Busnelli, la parete est del Fitz Roy, assieme a Vittorio Meles nel 1976, e la parete nord-est del Cerro Murallón, con Carlo Aldé e Paolo Vitali.

La sua ultima grande scalata risale al 1994 quando, a cinquantatré anni e stufo del cancro che sette anni dopo lo avrebbe portato alla morte, scalò la parete est dell’Aguja Mermoz.

Casimiro Ferrari in Patagonia. Foto: www.lakecomotourism.it.

120 anni del CAI Lecco. Salita al Cerro Torre.

Tappe principali della sua carriera
1960. Apertura della Via dei Ragni alla parete sud del Torrione Magnaghi Centrale (Grignetta, Lecco), con Giuseppe Conti (26 aprile);
1960. Ripetizione della via Brandler-Hasse (parete nord della Cima Grande di Lavaredo), con Nando Nusdeo.
1961. Grave incidente mentre ripeteva d’inverno la via Panzeri al Torrione Magnaghi Meridionale: trascinato nel vuoto dalla caduta del compagno, fece un volo di più di 40 metri;
1961. Ripetizione della via Tissi alla parete sud della Torre Venezia;
1961. Ripetizione della via Cassin-Ratti alla Torre Trieste;
1963. Prima ascensione invernale della via Paolo VI alla Tofana di Rozes, con Felice Anghileri;
1965. Prima ascensione invernale dello Spigolo nord del Pizzo Badile con Aldino Anghileri e Pino Negri;
1966. Prima assoluta del Mount Buckland 1600 m (Terra del Fuoco); Spedizione composta da Carlo Mauri, Giuseppe Pirovano, Guido Machetto, Cesare Giudici, Gigi Alippi;
1966. Salita dell’Aconcagua;
1968. Apertura della Via dei Ragni ai Cuernos de Medaglia (31 marzo-1 aprile) con Guerino Cariboni;
1968. Apertura della via del CAI Belledo alla Mongolfiera (Grignetta) con Guerino Cariboni, Pino Negri e Carlo Mauri;
1968. Apertura della Via dei Ragni (o via Lecco) alla parete sud-est del Grand Capucin (29 giugno-1 luglio) con Aldo Anghileri, Pino Negri, Carlo Mauri, Guerino Cariboni;
1969. Prima ascensione della parete ovest del Jirischanca con Riccardo Cassin, Natale Airoldi, Gigi Alippi, Giuseppe Lafranconi, Annibale Zucchi e Sandro Liati;
1970. Partecipa al tentativo dei Ragni di Lecco alla parete ovest del Cerro Torre;
1972. Nevado Huantsán Ovest (Cordigliera Huayhuash, Perù), prima assoluta della vetta, salita per lo scivolo sud-ovest con Gigi Alippi e Sandro Liati (spedizione del CAI Gallarate);
1973-1974. Cerro Torre, spedizione dei Ragni di Lecco alla parete ovest, con Pierlorenzo Canella Acquistapace, Gigi Alippi, Daniele Chiappa, Mario Zenin Conti, Claudio Marna Corti, Giuseppe Lafranconi, Mimmo Lanzetta, Pino Negri, Ernesto Panzeri, Sandro Liati (medico), Angelino Zoia. In vetta: Ferrari, Conti,  Chiappa, Negri;
1974. Prima invernale della via Messner-Holzer alla parete sud-est del Castello della Busazza (gruppo del Civetta) con Vittorio Meles;
1975. Alpamayo, prima salita della parete sud-ovest (Via dei Ragni, oggi conosciuta come via Ferrari), con Pinuccio Castelnuovo, Sandro Liati, Pino Negri, Angelino Zoia e Danilo Borgonuovo;
1976. Fitz Roy, prima salita della parete est, con Vittorio Meles (“senza dubbio la parete più bella del mondo”, secondo Gian Piero Motti);
1977. Salita del Mount Kenya e del Kilimanjaro, con Luigino Airoldi, Gigi Alippi, Mario Conti, Emilio Lupetto Valsecchi e Sandro Liati;
1979. Nevado Sarapo, via nuova per la parete sud-ovest, con Giuliano Maresi, Vittorio Meles, Maurizio Diabolik Scaioli, Sandro Liati, Bruno Lombardini (spedizione del CAI Ballabio);
1984. Cerro Murallón, prima ascensione, per il pilastro nord-est, con Carlo Aldé e Paolo Vitali (con la partecipazione di Fabio Lenti e Marco Ballerini);
1985. Prima ripetizione italiana della via franco-canadese all’Ama Dablam (con Giuliano Maresi, Bruno Lombardini, Carlo Aldé, Mario Panzeri e Danilo Valsecchi);
1986. Cerro Norte 2950 m, seconda salita e prima ascensione dello sperone nord-est, con Giuliano Maresi (dal 31 dicembre 1985 al 1° gennaio 1986);
1987. Tentativo allo Shisha Pangma;
1987. Cerro San Lorenzo, variante diretta sulla cresta nord-est, con Annibale Borghetti, Danilo Valsecchi e Maurizio Villa;
1988. Cerro Riso Patrón, prima invernale con Bruno Lombardini ed Egidio Spreafico, durante la prima traversata invernale del Hielo Patagónico, con Carlo Buzzi, Giuliano Maresi, Luciano Spadaccini, Annibale Borghetti e Luigi Corti;
1989. Monte San Valentín 4058 m (la montagna più alta della Patagonia, NdR), tentativo di prima invernale con Giuliano Maresi, Egidio Spreafico e Carlo Buzzi;
1991. Makalu, parete nord-ovest, spedizione dei Ragni di Lecco con Lorenzo Mazzoleni, Marco Negri, Mario e Salvatore Panzeri, Dario Spreafico. Tentativo interrotto a 7050 m;
1992. Aguja Bífida, spigolo est con Manuele Panzeri e Corrado Valsecchi;
1993. Cerro Grande, parete sud con Damian Fridman;
1993. Cerro Hemul con Gastone Aldé;
1994. Aguja Mermoz, prima ascensione della parete est, con Martin Cevallos;
1994. Tentativo alla parete nord-est del Cerro Piergiorgio;
1996. Il 31 dicembre inaugura il rifugio Carlo Mauri a Punta del Lago.

Casimiro Ferrari con Guy Costa in arrampicata nel gennaio 1995, vicino alla Piedra del Fraile. Foto: Guy Costa, www.ragnilecco.com.

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